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martedì 20 gennaio 2015

Stralcio tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra




Capitolo 1 - SETTIMO GIORNO 
Camaguey ci accolse nell’ora più calda del giorno dimostrando una rara riluttanza all’indolenza tipica di queste zone. Il sole incandescente che ci aveva sfinito lungo la strada riarsa ci stava aspettando in questa cittadina brulicante di vita all’inverosimile, nonostante l’ora, nonostante il caldo. Stagliate su un cielo di smalto cobalto le solite, piccole case nei colori delle caramelle o dei gelati incorniciavano le viuzze ed erano allo stesso tempo il fondale di un palcoscenico dove tanta vita si rappresentava. 
Fummo bloccati da una folla di volti sorridenti, di mani affaccendate e di passi insolitamente veloci. Ci offrirono, seppure con minore insistenza, i soliti sigari fasulli. Dal crocevia dove ci trovavamo potevamo vedere la sagoma imponente del Grand Hotel elevarsi ben oltre i tetti della città. Così, da lontano, sembrava un gigante placido adagiato sopra le case. Non aveva niente di particolarmente attrattivo. 
A causa del blocco della via dovemmo entrare dal retro della costruzione, attraverso un cortile secondario dal quale passavano, di norma, coloro che all’hotel lavoravano e i fornitori. Ci inerpicammo sulla scala angusta e buia, svoltammo ora a destra ora a sinistra, in un labirinto di stretti corridoi e di tristi cortiletti pervasi da un odore pungente di disinfettante che feriva l’olfatto e quell’altro senso, ben più importante, che non ha un nome preciso, ma che è quello che registra le impressioni e le sensazioni che corrono sotto la nostra pelle. 
Sentivo una sorta di velata delusione salire da dentro, quando finalmente ci si aprì dinnanzi agli occhi la hall del Grand Hotel vista di spalle, data la posizione della porta da cui vi accedemmo. 
Mi stupii dell’atmosfera che aleggiava nel grande salone arredato con mobili d’epoca in legno scuro, del bancone della reception, anch’esso in legno, delle tende bianche di pizzo, della grande scala che portava ai piani superiori e del magnifico ascensore lustro di ottone che scampanellava ogni volta che si apriva la porta, mostrando un giovane sorridente. Il ragazzo in divisa portava una giacchetta a righe perfettamente intonata con lo spirito primo Novecento di quel luogo. Ma, più di tutto, pensai che un posto così si sarebbe potuto leggere in un libro. 
Fui felice di esserci. Mi sedetti sulla poltrona, vi sprofondai con agio e, guardandomi intorno, immaginai altri tempi e altre comparse in quello stesso luogo. Forse immaginai la stanza che sarebbe stata nostra di lì a poco e una forte curiosità frammista a un’ansia infantile si impossessò di me. La stanza era il nostro luogo, pensai, il nostro rifugio, l’unico terreno dove potevamo liberamente saggiare i pensieri l’uno dell’altro, dove potevamo ridere, parlare, conoscerci. La stanza era il territorio della conquista della nostra non dichiarata intimità. Il breve tempo, l’esiguo spazio che potevamo condividere. Liberi. La stanza era la nostra casa. Entrambi lo sapevamo, ma nessuno dei due lo avrebbe ammesso. 
Dai miei pensieri segreti mi risvegliò bruscamente la voce di Adolfo. 
"Forza, alzati, andiamo a ricevere il cocktail di benvenuto", disse con uno dei suoi sorrisi soddisfatti. 
"Arrivo subito", risposi. Cercai con lo sguardo Guglielmo che si trovava all’estremità opposta del grande salone, intento a leggere gli orari del ristorante esposti su un grosso cartello. Mi alzai. Mentre mi avvicinavo a lui pensai in un lampo fugace a quanto era cresciuto, con il passare dei giorni, il bisogno di contatto. Gli fui a fianco. 
"Hai una sigaretta?", chiesi. La estrasse piano e me la porse con quel gesto sicuro che avevo imparato a conoscere bene. Mi guardò dritto in volto con uno sguardo determinato che pareva arrivare direttamente dalle profondità dei suoi pensieri.
"Sono un po’ stanco, credo che mi fermerò in stanza a riposare. Naturalmente, dopo aver gustato il cocktail di benvenuto", disse.
Paolo, che si era avvicinato rollando nel contempo una sigaretta con l’abilità di un equilibrista, si inserì nel discorso apostrofandolo con tono ironico: "Ne avrai di tempo per riposare! Per ora è meglio che ti rassegni all’idea di uscire alla scoperta di questo luogo". 
Francesca, che ci aveva raggiunti, insistette a sua volta e anch’io lo incitai. Guglielmo cedette alle nostre pressioni con un velo di lieve delusione dipinto sul volto. In quel preciso istante mi resi conto che non avevo capito, che non avevo voluto capirne le parole. Il messaggio silente, che dal suo cuore era salito ai suoi occhi per riversarsi nei miei, era rimasto sospeso a mezz’aria nella speranza di essere colto. Ma io non lo avevo fatto. Quanto volutamente o quanto inconsapevolmente non so dire. (...)
Brano tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra

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