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giovedì 15 gennaio 2015

"Big Eyes", un film di Tim Burton, recensione di Chiara Minutillo.


"Gli occhi sono lo specchio dell'anima". Per Margaret è più che una semplice citazione. Per lei, bambina timida, solitaria, sempre malaticcia, è semplicemente la realtà. Il disegno è la sua valvola di sfogo e Margaret dipinge bambini, come lei, ma con una particolarità: hanno occhi enormi, che risaltano sulla tela, parendo vivi, suscitando emozioni, racchiudendo paura, tristezza, solitudine, nella maggior parte dei casi. 
Margaret cresce e la sua passione cresce con lei. Dopo il primo matrimonio andato male, Margaret si trasferisce a San Francisco con la figlia, che spesso è il soggetto dei suoi quadri. Li conosce un uomo, un pittore di scarsa fama, Walter Keane, che immediatamente vede il potenziale di quella donna e ne sfrutta l'ingenuità o semplicemente l'amore. 
Margaret sforna un quadro dietro l'altro: il primo viene venduto nel bagno di un locale. Essendo ormai sposata con Walter, Margaret firma i suoi quadri con il cognome del marito il quale finisce per prendersene il merito. 
Sempre più sola, confusa e depressa, in balia del mondo di bugie che ha contribuito a creare, Margaret scappa un'altra volta con la figlia,ora adolescente. Scappa lontano, alle Hawaii. Qui, sarà lo studio della Bibbia e un progressivo cambiamento di fede, da Metodista a Testimone di Geova, a farle prendere la decisione di fare ciò che è giusto: riprendersi i suoi diritti d'autore e restituire a quanti avevano acquistato i suoi quadri il denaro estorto con la frode.
Big Eyes racconta la sua storia, a partire dalla prima separazione fino al processo contro Walter Keane, condensando 10 anni di fatti in poco piú di 90 minuti di film. Lungi dall'essere il nuovo capolavoro di Tim Burton e scordando conpletamente le sue atmosfere cupe e gotiche, il film racconta una storia vera che non é solo un dramma realmente accaduto. Margaret diventa in un certo senso l'emblema della donna nella societá degli anni '50 e '60, una societá in cui la donna dipendeva conpletamente dal marito, in cui per trovare un lavoro doveva avere il consenso del capofamiglia, in cui persino quando il marito la costringeva a mentire, doveva sottostare alle regole dettate dall'uomo. Una societá in cui la donna era per forza succube, uno strumento nelle mani dell'uomo che le viveva accanto, una societá in cui l'arte femminile non vendeva, in cui una donna divorziata poteva vedersi portare via i figli perché non in grado di mantenerli. 
Nel film vengono mostrate molte opere di Margaret Keane. Ma di tutte, il mio preferito é quello che nel film viene chiamato "la bambina con il cappotto giallo", che ritrae una bambina, dai grandi occhi neri e malinconici, con un gatto nero tra le braccia. La particolarità di questa pittrice era riuscire a rapire l'anima dei suoi soggetti per trasferirla sulle tela dipinta, in quei grandi occhioni, intrappolando in essi anche il suo stesso cuore.

Chiara Minutillo

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