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martedì 6 settembre 2016

"QUANDO ERAVAMO TUTTI UGUALI" AMARCORD di Annamaria Bortolan



QUANDO ERAVAMO TUTTI UGUALI

I ricordi importanti affiorano sempre all'improvviso. Un colore, un profumo, basta poco per suscitarli. Settembre è per me il mese della memoria e dei progetti. Inizia un nuovo anno scolastico e si pensa al nuovo ma la mente sa andare indietro negli anni. Le elementari, le medie e poi il liceo classico, gli studi universitari e la gavetta in un giornale locale e poi ancora quel che venne dopo... Non so, non so perchè ma il ricordo più bello è quello delle scuole elementari. Ci vestivano con un grembiule nero, fiocco rosso per le bimbe, blu per i maschi. Serviva a proteggere i vestiti dai grandi pasticci che molti di noi combinavano con la penna stilografica e le tempere ma era anche uno scudo nei confronti della diversità sociale ed economica. Così, almeno nella forma, eravamo tutti uguali. La maestra ci teneva molto a formare i suoi alunni sulla base di valori sociali importanti.
Un giorno uno dei miei compagni di classe le chiese:
"Perché quel barbone fuori del cortile sta sempre lì e non va a lavorare?"
"Ha perso il lavoro e non riesce a trovarne un altro", rispose la maestra.
"Perché non riesce a trovarne uno nuovo?"
"Perché è vecchio. Il lavoro è per i giovani."
"Da grande lavorerò come mio papà, sarò a capo di una ditta e gli farò fare un lavoro da vecchio, così non si sentirà più diverso dagli altri", concluse l'alunno.
La maestra sorrise. I primi semi dell'uguaglianza erano stati gettati.

ANNAMARIA BORTOLAN

"ADOLESCENZIAL LETTERARIO" AMARCORD di Paola Caramadre

Dean Moriarty entrò a far parte della mia vita relativamente presto. Avevo 14 anni, era inverno, il mondo non mi sembrava il migliore dei posti possibili e avevo appena incontrato quella che sarebbe diventata la mia amica del cuore. Andiamo con ordine. Da qualche mese frequentavo il liceo in una cittadina piuttosto distante dal mio paese. Non conoscevo molte persone e non avevo nemmeno tanta voglia di integrarmi. Viaggiavo in autobus, piccola pendolare della pubblica istruzione, e nel tragitto leggevo libri. Dopo i classici di fine '800, non so esattamente come, mi ritrovai tra le mani un romanzo che mi avrebbe accompagnato per tutta l'adolescenza. Lo comprai, addirittura, io che prendevo tutto a prestito. Venivo da un piccolo paese, ero confinata in piccole nicchie provinciali, e forse per questo il romanzo "On the road" di Jack Kerouac mi colpì così tanto. E Dean Moriarty divenne molto più che un personaggio letterario. Proprio in quei giorni di letture appassionate incontrai una ragazza molto alta, con i capelli corti e una strana voce nasale. Ci capimmo subito, senza bisogno di starci a raccontare troppe cose. Le nostre vite si intrecciarono per molti anni e anche le nostre letture. A volte, ci capitava di citare a memoria intere pagine di quel romanzo. Leggemmo tutto sulla beat generation, ma proprio tutto. L'ultima volta che ci siamo viste, come amiche intendo, è stato molti anni fa. Ci salutammo sul pianerottolo di una casa in cui ho abitato, ci veniva da piangere, ci siamo dette arrivederci. Entrambe sapevamo che sarebbe stato un addio. Eravamo cambiate, e molto, mi vennero in mente le ultime pagine di "On the road", ormai avevo cambiato genere e interessi letterari. Lei era il mio Dean Moriarty e stava andando via dalla mia vita. Dopo quella parentesi adolescenziale la letteratura americana ha smesso di interessarmi del tutto. E così ho iniziato a leggere le poesie di Majakovskij.

PAOLA CARAMADRE

mercoledì 31 agosto 2016

"LE LACRIME DEI NANI" AMARCORD di Luana Natalizi



Amarcord: le lacrime dei nani

Il divano di velluto blu di Prussia aspettava noi due. Avevamo pranzato e io come al solito avevo bevuto il tuo caffè, il fondo del tuo caffè allungato con l'acqua. Si avvicinava il nostro momento. La nonna diceva che era ora di dormire e io come ogni giorno avrei venduto cara la pelle. "Nonno raccontami una storia , quella con la principessa e il principe". "E i nani diceva lui"...
C'era una volta sempre diversa e sempre inventata, mentre concentrato ti facevi pettinare da me piccina. Tu seduto sul divano e io sull'alto schienale, dietro le tue spalle. Una volta dopo pranzo, prima di riaprire il negozio dipingevi un po, ma poi sono arrivata io e sono aŕrivate le nostre favole. 
...."E mentre la principessa raccoglie i fiori nel bosco, arriva la strega e uccide la principessa."
"E poi?" " e poi il principe uccide la strega."
"E il principe che fa?" " Viene ucciso dall'orco"
"E l'orco che fa? "
"Viene ucciso dal re?"
" E poi il re? Il re se lo mangia il drago? E poi? "
"E poi i nani bruciano il drago."
"E i nani nonnino, che fanno i nani soli?"
"I nani, luanetta, piangono per la morte della principessa e piangono, piangono talmente tanto che muoiono affogati. Adesso vai a letto con nonna."
Ogni giorno una Storia diversa ma lo stesso finale: lo sterminio di ogni personaggio. Un bacio. Una sistemata ai capelli. Un sorriso. 
Quello non mi è mancato mai come il tuo aiuto. 
Siamo stati una favola insieme e mi manchi tanto che a volte penso che anneghero'come un nanetto per il dolore.

LUANA NATALIZI

"A MIO PADRE" AMARCORD di Susan Moore

AMARCORD

Scriverai di me, un giorno
Di come non ti volevo
Di come ti sognavo
Parlerai di me
Della mia gelosia
Del mio amore
Penserai di me
Dellle mie linee su schizzate sui fogli
Che ti hanno aperto il futuro
Sognerai di me
Della mia assenza
La testa appoggiata sulla mano destra
In attesa
Come me, in attesa

SUSAN MOORE

martedì 9 agosto 2016

"IL NONNO" di Rossana Bacchella

IL NONNO 

Sempre ti vedo, così voglio vederti. Seduto sulla bassa seggiola impagliata a ridosso delle spesse mura della casa, su quello stretto corridoio di cemento che la preserva un poco dalla polvere dell’aia. Ai tuoi piedi piccoli fiori dai caldi colori, bianco giallo rosso…, senza profumo. Le turgide foglie aguzze sono forza e grazia pura imprigionata tra l’arida terra sabbiosa e il grigio cemento. 
Ti guardo dal 'cantinino' di fronte, solo, stagliato sul muro giallognolo e scrostato. Tagli la tua pesca -anche la frutta mangiavi col pane- nel sole del pomeriggio che tra poco sparirà sotto l’ombra del fienile.
Col coltello in mano mi fai un gesto, segue appena di un attimo il tuo sguardo che, entrato nell’ombra, ora mi nota. “Vieni, vieni far la merenda che c’è la golosa!”. 
Ancora mi addolora dolcemente il ricordo delle tue belle mani, mani che ritrovo sempre negli uomini che amo, mani rigide da vecchio, mani che hanno portato il fucile, raccolto fiori e zucchine, zappato la terra, picchiato col grande martello per controllare le ruote dei treni. Mani che hanno sfiorato o violato donne... la nonna?
Lascio volentieri la fresca solitudine dei giochi quieti con piccole bambole da vestire e svestire. Solitudine addomesticata nel cucire minuscoli abiti, mai rifiniti, che, troppo stretti sul collo, infilo a fatica sulle loro grosse teste.
Corro incontro al tuo nero e sdentato sorriso e già so dell’odore di vinaccia e sigaro che mi spiace sentire nei tuoi baci. Ma è poca cosa. Ti abbraccio forte.

ROSSANA BACCHELLA

martedì 12 luglio 2016

"RICORDI DI FAMIGLIA" di Ilaria Negrini



- Amarcord -

Oggi penso a te e ricordo. Profumo di torta e biscotti appena sfornati, il tuo rossetto rosso, le lunghe chiacchierate bevendo il tè o passeggiando lungo il mare all'alba. Una madre che non riusciva ad esprimere nei gesti l'amore, un padre morto troppo presto, giornate intere a correre nei campi dimenticando di mangiare, studiare di nascosto con il sogno di diventare medico. 
Mi dicevi sempre che avresti voluto saper scrivere per raccontare la tua storia. Un giorno la scriverò io, ti dissi. Una vita lunghissima, fino all'ultimo vissuta con la mente aperta al mondo, ai cambiamenti, al nuovo.
"Tua nonna assomiglia a Andy McDowell" mi disse un dottore ad uno degli ultimi ricoveri, quando ormai eri stanca di vivere. Ma eri ancora bellissima a 96 anni. 
E te ne sei andata cosi in un pomeriggio di maggio, ormai pronta da tempo all'altra vita, quella vera, questa non sempre ti è piaciuta, ma l'hai resa bellissima a me e a mia madre, che siamo cresciute con una grande forza dentro grazie a te.

ILARIA NEGRINI

"UNA VACANZA STUDIO SPECIALE" di Francesca Bleu



UNA VACANZA STUDIO SPECIALE

Per la giornata di Amarcord volevo ricordare una vacanza studio a Dublino di 25 anni fa. Dove ho conosciuto una ragazza Spagnola di nome Ana. Una ragazza timida e dolce. Entrambe avevamo paura di ogni cosa. Eravamo spaesate in un mondo a noi completamente estraneo, soprattutto lontane da casa. Nonostante fossimo di due paesi diversi abbiamo affrontato ogni cosa insieme legata una all’altra.
Da allora siamo diventate davvero amiche. Ci sentivamo ogni settimana. Fino a quando un giorno lei mi ha inviato a casa sua ad Alicante. E’ stata un’esperienza splendida. Ho avuto il massimo dell’ospitalità sia da lei che dalla sua famiglia.
Poi l’anno dopo e’ venuta da me in montagna. Vacanza fantastica con la mia migliore amica.
Lei aveva un carattere chiuso e riservato , ma con me e’ riuscita ad aprirsi. Io gli sono stata sempre vicina e sono disposta a starle vicina per sempre nonostante gli anni ci hanno fatto perdere di vista.
Sembra una storia come tante altre ma io l’ho improntata sull’importanza dell’amicizia. Sono passati tanti anni ma il sentimento e’ sempre lo stesso se non più forte. Perché ora abbiamo la maturità di capire le cose in modo diverso.
Grazie Ana per l’affetto che mi hai dato tanti anni fa e per quello che mi stai dando ora anche se non ci sentiamo
spesso come prima.

FRANCESCA BLEU

martedì 5 luglio 2016

"AI CANCELLI" di Paola Caramadre



Ai cancelli

La fabbrica invisibile. Non l'ho mai vista. Vedo solo gli ingressi. I varchi con i tornelli, le postazioni dei vigilanti, le lunghe cancellate di recinzione, i muri alti, i vialetti, i parcheggi. La fabbrica non l'ho mai vista. Non ci sono mai entrata dentro, ma la conosco bene. Ne conosco l'odore, il sudore, quelli che restavano addosso a mio padre quando rientrava la sera tardi e lo aspettavo sveglia anche quando ero una bambina. Della fabbrica conosco l'innaturale succedersi dei turni che spezzano la vita, che minacciano la felicità. Della fabbrica conosco la modesta rassegnazione di molti e la coriacea solidarietà di pochi. Lì dentro ci sono gli uomini e le donne che ci lavorano. Li aspetto fuori, qui ai cancelli, qui dove aspettavo mio padre, li aspetto per intervistare gli operai. Alcuni mi conoscono, provo a fare domande, ma sono di parte, non sono corretta. Lì dentro c'è la vita di mio padre, quella parte di vita che non ha trascorso con me. Adesso dovrei togliermi di dosso tutto questo. Adesso non sono solo la figlia di un operaio, sono una giornalista e dovrei raccontare senza pregiudizi. Penso a questo quando sento un odore familiare. È l'odore del cuoio, dei giubbotti di pelle. C'è un ragazzo alto, magro, barba e occhiali che scatta le foto. È il fotografo del giornale. Mi viene spontaneo sorridergli. So che può capirmi. Anche se suo padre non ha mai conosciuto la fabbrica.

PAOLA CARAMDRE

"RICORDO DI UN PERSONAGGIO STORICO" di Altea Alaryssa Gardini

AMARCORD

Ci sono rumori che riconosci anche se non li hai mai sentiti. Suoni che conosci per porte ancestrali dell'incoscio. Un brivido mi ha percorso la schiena quando ho sentito lo stridìo della lama scorrere su di una parete di mattoni, la mia essenza ha assimilato il vociare concitato della gente che si muove come maree davanti alle mura di Troia: le persone si accalcano una sull'altra, sporgendosi, urtandosi, gridandosi, fino a che le loro mani non toccano il terreno cedendo alla pressione del corpo, dietro di loro, che nella calca gli è piombato addosso. 
Ho visto da lontano, in un sogno che forse non era mio, una nave e una spada.
Una nave che nasceva dal fuoco, una lama forgiata dal pianto. Se mi affaccio alla finestra vedo ancora quella pira che arde dall'altra parte del mare, le urla straziate di un cuore abbandonato che invoca maledizioni su colui che non amava altri che se stesso. 
Sono solo una modesta ragazza, come posso vedere un passato non mio e il futuro di un tempo che si veste da cavallo per trasformarsi in guerra?


ALTEA ALARYSSA GARDINI

martedì 14 giugno 2016

"SAN GIUSEPPE" di Marilena Viola

AMARCORD

SAN GIUSEPPE

Cielo azzurro
l'aria sottile
coperti i prati di Marzo
dalle prime viole.
Chiesetta magica su per la collina
che hai ascoltato le grida dei bambini
al gioco della fune
o le donne cantare
o le coppiette fantasticare
o gli adulti gioire
per la giornata di festa
e il bel tempo in arrivo!
Ti ricordo così
ormai lontana
e sembri un luogo della memoria
limpido e lavato dalla pioggia
benefica della primavera!

Marilena Viola
marzo 1998

martedì 7 giugno 2016

"MIA NONNA" di Roberta Tranquilli

AMARCORD: 

MIA NONNA

Le dolci mani di mia nonna mi accarezzavano il viso. Erano ruvide, rugose, segnate da una vita di lavoro. Ma io non potevo saperlo, ero troppo piccola: facevo una espressione corrucciata, infastidita.
« Nonna, mi pizzichi!» esclamavo.
Lei sorrideva e mi riempiva di baci. Il suo profumo di fresco mi ha sempre ricordato l’odore delle lavande, mi faceva sentire protetta. Mi voleva bene e anche io gliene volevo. Durante le assolate giornate estive del nostro Abruzzo giocavamo alle ricche signore: ci mettevamo forcine colorate nei capelli, indossavamo braccialetti di perline di plastica fatte da me. Bastava questo per sentirci unite, vicine. Lei mi assecondava, mi capiva, mi lasciava fare. Vorrei tornare indietro e poter rivivere quei momenti che da bambina non ho saputo apprezzare appieno. 
Le nostre estati insieme erano un tripudio di fantasia e idee. Quando preparava da mangiare per tutta la famiglia mi spiegava cosa stesse facendo e mi lasciava giocare con acqua e farina. Io mi sentivo una cuoca.
« Guarda che bel pasticcio che hai fatto!» mi diceva, sorridendo.
Per noi Pasticcio voleva dire semplicemente sostanza informe. E i miei giochi a base di acqua e farina lo erano. Non mi scoraggiava mai. Da lei ho imparato l’ordine e in un certo senso il rigore. Quando è iniziata la sua malattia, mi voleva nascondere il suo dolore, il fatto che stesse soffrendo. La porta della sua camera a volte era chiusa, quando magari dentro vi erano l’infermiera o mia mamma la stava accudendo. Io mi chiedevo perché, avevo paura che non mi volesse: invece mi amava. Quando invece la porta era aperta, correvo dentro e mi mettevo nel letto con lei. Avevo un taccuino di Barbie e mentre imparavo a scrivere, lei firmava gli angoli del foglio con la sua scrittura tremolante ed insicura, come quella di chi per colpa della Guerra e di una mentalità desueta ha potuto studiare solo fino alla quarta elementare. 
Piccoli momenti, rapidi ricordi che guizzano nella mia mente fin troppo spesso, soprattutto quando torno in Abruzzo, in estate. Ora non c’è più lei a cui raccontare le mie cose, con cui confidarmi. Purtroppo mi ha lasciato quando avevo solo otto anni. Credo che avrebbe potuto darmi ancora tanti insegnamenti, avremmo potuto fare discorsi più maturi. Da ragazzina non riuscivo a darmi pace per questo.
Ora ho capito che invece dietro ogni momento passato con lei era nascosto il suo modo di essere, il suo credo, i suoi valori. Mia nonna era una donna forte, sicura, incredibile. Non è più qui con me, ma grazie ai nostri momenti insieme e a quei consigli nascosti sotto una apparenza infantile, ora so cosa voleva dirmi. Nonna, lo so.

martedì 31 maggio 2016

"RICORDO RICOSTRUITO" di Annalisa Fabbro



AMARCORD: 

In questo caso non si tratta di un vero ricordo ma di un ricordo "ricostruito".
Una storia non personalmente vissuta ma appartenuta sicuramente a qualcuno. 
Scesi lentamente, molto lentamente, dalla macchina. 
Lasciai che l'aria gelida mi sferzasse il viso, come lama d'acciaio sulla pelle. 
Guardai oltre il cancello chiuso, guardai quel lungo viale di terra battuta, guardai la siepe, i rami cresciuti selvaggiamente parevano farsi beffa anch'essi del tempo in cui tutto era stato perfetto. 
Il mio sguardo si posò sulla casa.
Il dolore era ancora troppo forte, una pugnalata dritta al cuore.
Bella era ancora bella, solo che il tempo pareva averle conferito un alone di mistero rispetto a come la ricordavo.
Le imposte chiuse come palpebre adagiate dolcemente su grandi occhi malinconici. 
L'edera, che un tempo ricopriva solo in parte una delle pareti laterali della casa, si era impadronita di quasi tutta la superficie del muro esterno giocando a nascondino fra le colonne sopra la scalinata d'ingresso.
Avrei voluto abbattere quel grosso lucchetto metallico che ostacolava l'ingresso cingendo le pesanti ante del cancello in ferro battuto. 
Avrei voluto tornare indietro nel tempo, ritrovarmi di nuovo ad ascoltare le favole di fronte a uno dei grandi camini di pietra, sfogliare i libri custoditi gelosamente in biblioteca, ritornare a nascondermi mentre sentivo le voci dei domestici chiamarmi a gran voce, osservare estasiata mia madre mentre si pettinava i lunghi capelli seduta di fronte allo specchio della piccola toilette francese prima di recarsi a qualche festa o all'opera come spesso accadeva durante i fine settimana. 
Ma sapevo che nulla sarebbe più tornato. 
Non ero più la stessa persona di allora, avevo smesso di esserlo quel giorno in cui l'orologio di mio padre si era fermato, irrimediabilmente rotto dalla follia umana. 
Si era fermato il tempo, lo spazio, tutto era stato avvolto da una grande bolla, come se l'aria improvvisamente si fosse consumata e noi avessimo trattenuto il respiro per non sprecare la poca aria che ci era rimasta rinchiusa nei polmoni. 
Ricordo mio padre seduto composto sulla grande poltrona in velluto quel pomeriggio di fine inverno inizio primavera, stava leggendo il giornale con i piccoli occhiali d'oro calati sul naso, l'aria assorta e gli occhi che si muovevano velocemente sulle piccole lettere nere come carboni impresse sulla candida pagina.
Improvvisamente il suono squillante del campanello echeggiò nel grande salone, rimbalzò da una parete all'altra, sinistro presagio di una sciagura imminente che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla nostra famiglia.
Poi le urla sguaiate, cattive, lo sbattere rabbioso di porte che si aprivano e si chiudevano, comandi feroci gridati da una stanza all'altra finché eccoli tutti insieme irrompere improvvisamente dentro alla nostra stanza. 
L'ultimo ricordo che ancora conservo nella mia memoria è quello di mio padre che appoggia il giornale lentamente sul tavolino di fronte a sé e si solleva piano.
In quel momento mi appare piccolo, quasi minuscolo, impotente nella sua fragilità di uomo inerme.
Viene spintonato in malo modo, mio padre inciampa, cade, gli sferrano un calcio, un lamento sommesso, urla, insulti, l'orologio si sfila, cade per terra con un tonfo sordo sul legno, qualche pezzo rotola lontano, qualcuno calpesta i vetri, improvvisamente i rumori si amplificano anche se sono sommessi, l'ora si ferma per sempre alle 17,10. 
Non so dire quanto tempo rimasi nascosta dentro a quella piccola cavità celata dietro alcuni scaffali in cui mi aveva fatto entrare mio padre poco prima che arrivassero a prenderlo e da cui avevo potuto assistere a tutta la scena senza essere notata, forse ore, forse addirittura giorni.
La paura mi aveva fatto rimanere in silenzio, immobile dentro al mio nascondiglio, ora lo so, da quel nascondiglio non ci sono più uscita, lì ho lasciato per sempre il mio cuore.
Vagai impaurita finché venni notata da una donna, mi riconobbe, conosceva la mia famiglia, si ricordava di avermi vista spesso stringere alla mia piccola mano quella del grande professore, del grande medico, del mio adorato papà. 
Mi nascose, lei che non era colpevole di essere ebrea, fino al giorno in cui un uomo mi prelevò dalla sua casa e venni imbarcata verso una destinazione a me sconosciuta e che solo più tardi compresi chiamarsi America.
Quando sbarcai avevo una nuova identità, non ero mai stata di religione ebraica.

ANNALISA FABBRO


martedì 17 maggio 2016

"RICORDO DEL PRIMO SALONE DEL LIBRO" di Samantha Terrasi


Il primo salone del libro è stato sette anni fa. Giravano tra i banchi e c'erano milioni di libri. Come si poteva scegliere tra tante copertine in vista? Poi come un cieco in una stanza buia ti abitui a districarti tra offerte, pagine, autori. Cominci ad entrare in quel mondo. L'odore della carta, la stanchezza a fine giornata, le buste di carta che porti tra le dita. Non vorresti mai uscire eppure dopo un pò tutto ti stordisce. Vorresti essere uno di quelli che girano con il laccetto Salone del libro. Sognavo il mio libro in uno stand. Quel romanzo che mi avrebbe regalato l'emozione di portarlo in giro farlo conoscere come potrei lasciar trasparire una parte di me. Ti aspetto è arrivato. Non è andato al salone del libro. Non ho girato tra gli stand pronta per dirigermi al mio e presentare le pagine di Nina e Michele ma in qualche maniera anche ieri c'era come c'era sette anni fa nel mio pensiero. Ti aspetto è una testimonianza di un'emozione che vive nelle mani di chi l'ha scritto e che ha ancora tanta strada da fare. Sette anni fa mi sono fatta rapire e sono un ostaggio che si lascia ben nutrire dalle parole. Perchè tutto ciò è visione e stupore. Sogno.

SAMANTHA TERRASI

"RICORDO DI UN MOMENTO DI INFELICITA'" di Emilia Di Giovanni



Un vicolo buio 
di una città vuota
in una notte nera.
Un’ombra cammina: 
un pianto a dirotto.
Portoni serrati,
una finestra richiusa.
Un cuore spezzato nel vuoto di tenebre. 
L’ombra di un cane respinto:
era di un Paese lontano.

Proprio ieri sera per pura casualità ho scritto le suddette parole, che non possono certo essere definite versi. Sono pensieri scaturiti dal ricordo di un momento di grande infelicità. 
Ero in un paesino di montagna delle valli bergamasche, a mille chilometri di distanza dalla mia città. Vivevo la mia prima esperienza professionale e avevo con me le energie e l’entusiasmo di chi inizia un percorso esaltante. Affrontavo tutto con estrema leggerezza, senza riconoscere la fatica e i sacrifici. Una sera,però, questa carica emotiva è venuta meno e ha ceduto il posto a un sentimento di vuoto assoluto, di profonda tristezza e di solitudine. In quel paesino, dove l’inverno iniziava molto preso, la giornata era breve e per il freddo ci si chiudeva presto in casa. Mi ero comunque abituata a vedere le stradine svuotarsi molto rapidamente ,mentre poche luci fioche le illuminavano. La gente spariva come per incanto, ciascuno nella propria casa a cercare il caldo. In una di quelle sere mi rivedo sola camminare e piangere sonoramente a singhiozzi senza alcun controllo. Qualcuno dovette persino sentire il mio pianto. Avvertii sopra di me una presenza aprire una finestra, per poi richiuderla con un tonfo quasi a sbatterla con fastidio. In quel momento di solitudine non potevo curarmi di nulla. C’ero solo io con la mia infelicità, gli occhi nascosti degli altri per me non esistevano come io non esistevo per gli altri. Che cosa era accaduto a spezzare la mia energia? A produrre questo effetto devastante erano state delle parole dure, pronunciate quasi in tono aggressivo in un dialetto stretto, parole poco comprensibili, ma non al punto da non capire che dovevo solo andare via in fretta, perché quella casa che cercavo in affitto non poteva essere mia. Avevo commesso un grave reato: ero nata in una città del Sud. Dalla soglia di quella casa, a cui avevo bussato su indicazione di qualcuno, fui costretta ad allontanarmi in fretta senza replicare. Provai un sentimento di smarrimento e di paura. Ad aprire la porta era stata una donna, ma dietro di lei era comparso immediatamente un omaccione con dei lunghi baffi e parlando presto aveva assunto un tono minaccioso. Eppure di fronte aveva solo una ragazzina poco più che ventenne. Chissà quali sensazioni di timore e di minaccia quella giovane donna aveva potuto suscitare in lui. Quell’uomo lo riconoscerei ancora oggi, non posso dimenticarlo, come non posso dimenticare il dolore sconfinato e il sentimento di umiliazione e di sconfitta di quella sera.
E’ una semplice memoria, che risale a un passato non remoto e di certo non al Medio Evo,ma la stupidità umana, che non conosce limiti né di tempo né di spazio, vivrà sempre nelle tenebre e non conoscerà mai la luce della Rinascita. E’ un ricordo mesto, tuttavia privo di rancore. Per il rancore non può esserci spazio per quell’affetto che a distanza di anni mi lega ancora a tanti cari amici bergamaschi.

EMILIA DI GIOVANNI

martedì 23 febbraio 2016

"UN VOLTO" di Marilena Viola



UN VOLTO
racconto breve di M.Viola
30/5/2015

Un'immagine fissa entrava spesso nella mia memoria. 
Un volto. Rigato dai solchi del tempo,pallido,sfiorito. Era una foto precisa davanti agli occhi che non riuscivo a collocare minimamente in nessuno dei miei familiari o conoscenti,in nessun incontro casuale.
Cercavo di non pensarci,di eluderlo,ma alcuni giorni era un chiodo fisso,mi stava sempre davanti.
Passavo in rassegna gli ultimi eventi,gli ultimi incontri o riunioni familiari. Niente. Questo volto era lì chiaro nella mente ma non ne sapevo assolutamente nulla.
Ne ricordavo le fattezze,i lineamenti delicati,i capelli bianchi. Una donna. Certo si,era una donna,con i capelli raccolti dietro la nuca ed un sorriso accennato sulle labbra.
La nostra memoria visiva è potente,fotografa e registra con dei flash nascosti anche a noi stessi,inconsapevoli autori,e lascia lì le immagini,nella 'inside gallery' della nostra psiche.
Perché ricordavo intensamente quel viso di anziana?! Sicuramente perché mi comunicava qualcosa,qualcosa di importante per me forse,di interessante.
Per l'ennesima volta passai in rassegna vari momenti delle mie ultime settimane e mesi precedenti. Mi sofferma sui viaggi,sui piccoli viaggi in treno,in autobus,in aereo che mi avevano vista in altre città durante l'anno passato. No,non era una persona reale,non poteva essere,perché altrimenti me ne sarei ricordata. Quando incontro un viso interessante lo ricordo perfettamente di solito,perché mi comunica qualcosa,mi parla,mi racconta di sé. Non lo collocavo dunque tra gli incontri veri,quelli frontali fatti per strada,nei negozi,in bus.
Capitò tempo dopo che dovetti raggiungere il polo opposto della città e,non avendo a disposizione la mia auto,in riparazione,presi un autobus,cosa che non succede mai in verità.
Alzando gli occhi alla macchinetta per obliterare il biglietto,sorpresa! Eccola! Era lì la mia vecchia signora! Fui inondata da una grande allegria ed un senso di sollievo per la mia scoperta,il mio ritrovamento. Mi sentivo liberata e soddisfatta! Quel viso di anziana mi sorrideva dolcemente da un enorme cartellone pubblicitario affisso sulla parete del bus!
C'era un monito sul cartello,di essere gentili ed aver rispetto per l'età avanzata e di ricordare quel volto!
Un improvviso flash-back: ora ricordo. Ero in metrò a Napoli quando l'avevo notata la prima volta.
Il messaggio era riuscito in pieno! Da tempo immemorabile lo avevo conservato nella mia memoria,tra le pagine sensibili della memoria visiva.
A lei,all'anziana sconosciuta che mi sorrideva da un cartellone e che mi ha fatto innamorare delle sue rughe,dedico i miei versi.

I SEGNI DEL TEMPO
8 marzo 2010

I segni del tempo
sono le strade che ogni uomo percorre;
sono i solchi dove immerge i pensieri,
le valli che scava per riporvi i dolori,
il sole e la pioggia che lì hanno induriti.
Corrono paralleli per monti e colline,
si riuniscono,si separano ancora.

Sono le impronte di noi.

"GIUGNO 88" di Elisabeth Browning



Giugno 88

Vorrei perdermi nell’immensità della notte,
aggrapparmi a grappoli di stelle sospese nell’universo,
essere inghiottita dall’oscurità dell’oceano in una notte di luna
vorrei…starti vicina
e camminare persa fra gli ultimi raggi di un sole al tramonto
respirare la freschezza all’alba 
e il refrigerio serale accanto a te
vorrei trascorrere le ore accarezzando i sogni del nostro futuro e, 
correndo all’impazzata su di una spiaggia infinita, stringerti la mano e abbracciarti nell’aria senza tempo di un mare inargentato dall’ultimo spicchio di luna e restare così, persi nell’oblio di questo infinito istante, senza treni, 
libri, 
orologi,
la vacuità della vita di ogni giorno, 
la paura del futuro
io e te da soli, finalmente ritrovati dopo l’immensità degli istanti che ci hanno separato, impedendoci di unire i nostri cuori, le nostre labbra, i nostri pensieri in un amore senza confini…

ELISABETH BROWING

"GIORNI DI SCUOLA LONTANI.." di Biondi Brothers Ex Merendanze

GIORNI DI SCUOLA LONTANI ...

Settembre 1980. Una polaroid un poco sfocata ritrae una bimbetta sorridente che indossa un grembiule nero con colletto bianco e fiocco rosa, portato con orgoglio. Tiene saldamente fra le mani una cartella azzurra con dei fiorellini bianchi, rossi e gialli. Porta frangetta e caschetto, ma qualche ciuffo capriccioso svolazza impertinente impigliandosi alla brezza soffice di fine estate. Il mio primo giorno di scuola si è rintanato, sonnecchioso e colmo di gioia, dentro quel pezzo di carta lucida e colorata, con il suo profumo di torta macchiata, il tepore dolce di una tazza di latte, il bacio emozionato della mia mamma, le pagine ancora candide del quaderno a quadretti. 
Una piccola scuola di montagna, a metà strada fra quella di Heidi e quella della Casa nella Prateria. Cinque anni a rincorrere nuvole a passi svelti e curiosi, fra piccole cadute, arditi entusiasmi e acerbi batticuori. 
Due stanze riscaldate con la stufa a cherosene, che emana un puzzo confortevole e familiare.
Pochi scolari, suddivisi in due pluriclassi. Ad accogliere le nostre paure, insicurezze e piccole grandi scoperte le maestre Silvana e Giuseppina, che vigilano su di noi, ci accudiscono, ci proteggono, ci accompagnano per mano nei giorni di vento e di azzurro. 
Si va a scuola a piedi, con la cartella sulle spalle. Mio fratello e io siamo accompagnati dal fedele Fufi, che ci precede di qualche passo e di tanto in tanto si avvicina alle nostre gambe miagolando e strusciandosi sornione.
La bidella Quartina, impeccabile nei suoi golfini color pastello e con la sua chioma biondo cenere dalle onde perfettamente impettite, ci fa salire le scale, ci apre l’uscio e ci fa accomodare, ognuno al proprio banco. In pieno inverno, quando la neve si accuccia morbida sui tetti e sulle strade, corteggiando con il proprio scialle scintillante ogni granello di terra, Quartina si leva di buon’ora e, con gesti rapidi di consumata sapienza, spazza i gradini e il cortile antistante la scuola, per farci dono del suo buongiorno di sole. 
Le ore scivolano liete fra quelle pareti punteggiate dei nostri scarabocchi incerti, i giorni canticchiano come timide rondini, i rami si scuotono dal gelido abbraccio dell’inverno e nuove primavere riportano lucide gemme e un cielo chiaro cosparso di sogni. 
Uno scorcio di prato sul retro della scuola ci vede scorrazzare e sudare nei lunghi e pigri minuti dell’intervallo senza campanella. Le maestre ci sbirciano da lontano, felici dei nostri giochi in libertà. Nessuna staccionata né recinzione a delimitare il nostro spazio di gioco. Sono i cespugli di biancospino e alcuni giovani alberi di quercia a difendere le nostre corse e il nostro pallone dai pericoli della strada.
Un vecchio ippocastano, dal tronco solido e dalle fronde maestose, veglia sui nostri respiri e pensieri e custodisce silente, lassù vicino all’arcobaleno, il segreto di un piccolo nido.
Nel cortile si gioca ai Quattro Cantoni e ci si lascia rapire dal fremito caldo delle giornate di sole e dai colori lucenti delle corolle che si dondolano lente nella piccola aiuola: i tenaci nontiscordardime, il giallo flebile della primula, il fruscio impaziente della viola, il regale narciso, l’antico tulipano. Quando l’eccitazione del gioco giunge al suo culmine, capita di inciampare e ruzzolare a terra. Le ginocchia diventano ruvide scorze imperlate di rosso, ma non c’è posto per le lacrime! Ci si bagna di nascosto le dita con la saliva, si strofina la punta dell’indice sulla pelle bruciante e si conclude la grossolana medicazione con una vigorosa passata di stoffa della manica sulla ferita. Ora rimane solo da sperare che la maestra prima e la mamma poi non si accorgano del misfatto …
Corrono i giorni e la mano, dapprima tremolante, diventa presto amica inseparabile della penna. Riempio di svolazzi acerbi pagine e pagine, orgogliosa di avere scoperto il misterioso scrigno della parola. Non ho il talento del disegno, per me la figura umana si riduce a un cerchio con tante buffe stanghette. Però amo le faville colorate che magicamente fuoriescono dalla punta di pastelli e pennarelli e mi diverto a ripetere nei quaderni l’infinito gioco stilizzato delle cornicette, piccole muraglie di fantasia geometrica che racchiudono entro le loro sponde rosse, verdi, azzurre e gialle i sudati numeri dei primi problemi.
I mesi si rincorrono e al sopraggiungere delle festività principali siamo tutti in fermento per organizzare la recita scolastica. Ogni volta è una piccola sfida: preparare i costumi, imparare la parte a memoria, allestire le scenografie. Lavoriamo con materiali poveri: carta, tempere, legno, muschio, pietre, stoffa di recupero. A cucire insieme gli scampoli sono la maestria delle nostre mamme e la fantasia che corre sulla punta del loro ago. Nella nostra aula si ergono, come per magia, torri di castelli, boschi fatati, montagne limpide, navi che veleggiano intrepide. Come dimenticare la mia prima prova “teatrale”? Mi ritaglio il ruolo della vecchina ne “Il tamburino torna dalla guerra” e per calarmi bene nel personaggio recito con una noce sotto la lingua, che mi fa emettere suoni sibilanti come se fossi sdentata. Vincendo la mia ritrosia e timidezza, alla fine dello spettacolo mi inchino davanti al pubblico dei genitori e dei nonni che mi applaudono esultanti e festosi. Una claque da far invidia a un’attrice consumata. E dopo le fatiche del palcoscenico, la giusta e meritata ricompensa a suon di zucchero, burro e crema. Il grande tavolo di legno che campeggia al centro dell’aula si trasforma in un sontuoso banchetto da re: crostate, ciambelle, bocconcini al cioccolato, frittelle alle mele, panini di biscotto riempiti con crema al dolceamore, il busilàn preparato seguendo scrupolosamente la ricetta tradizionale di famiglia. La mamma mi guarda, felice e divertita, e reclama un bacio al sapore di vaniglia!
Ogni giorno è un piccolo universo che si dischiude. Numeri, parole, segni, suoni. Quaderni da riempire. Libri da scoprire. Mondo da sfogliare. L’alfabeto della vita. Le nostre maestre amano il piccolo borgo dove viviamo e ci accompagnano nella scoperta delle sue inesplorate ricchezze e umili bellezze. Il nostro sguardo si leva stupito al volo invisibile dell’elegante tortora e della gracile upupa. Le nostre dita ritrovano sulla ruvidezza della corteccia la carezza del muschio e l’irregolare contorno del lichene. Ascoltiamo rapiti il mite e odoroso muggito delle stalle. Gettiamo briciole di pane ai pesciolini che popolano il laghetto artificiale alle porte del paese, mentre spiamo curiosi i movimenti dei minuscoli girini. Percorriamo i sentieri d’ombra nel folto della pineta, a respirare le trasparenti gocce di resina sospese al tronco degli abeti piantati dai nostri nonni. I pensieri aggrappati alle stelle, le mani affondate nella terra. I nostri passi ritrovano le nostre radici.
Anni che sfogliano come petali, e non puoi arrestarli. Ma il loro bianco profumo di buono e di pulito, di acacia e gelsomino, è stupore di luce che fa vivere il cuore, è voce d’incanto che si leva nelle vene e trepidante affida ai giorni nuovi l’oro sottile e misterioso del cielo d’infanzia.

BIONDI BROTHERS EX MERENDANZE