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mercoledì 7 settembre 2016

"SONO STATA FELICE, OGGI, NEL BOSCO" di Margherita Benati

SONO STATA FELICE, OGGI, NEL BOSCO

sono stata felice ,oggi , nel bosco;
le foglioline svolazzavano liete, sui rami, 
mentre il tuono e il cielo acceso di lampi 
annunciavano l’arrivo di un temporale. 
Cosi ho aspettato per sentire ancora una volta la pioggia,il suo bussare lieve sulla terra , sulle foglie , sulle piante , trasparente e lucida , di corsa ,una goccia dietro l’altra . Ogni volta mi sorprende, come se non la conoscessi , o come se il suo scorrere mi raccontasse un nuovo racconto ammaliante .Tra gli alberi , alti e robusti , che si dondolavano insieme, per il vento, non so ben dire , ma il bosco pareva racchiudermi , quasi a volermi proteggere , con le sue braccia , la sua forza, e la sua bellezza . 
Poi ecco un gruppetto di farfalle, sopraggiunte li’ per li’, mi ha allungato un impermeabile , fatto di seta , coi colori sfavillanti delle loro ali . E che meraviglia ! Era perfetto per me ! Appena l’ho indossato è arrivata la pioggia , sospinta dal vento , portando freschi rivoli da un capo all’altro e oltre il bosco.
e intanto in tasca dell’impermeabile ho trovato un bigliettino che diceva : ” se ti fermi ad aspettare una cosa bella , ne trovi altre ! “ firmato : le tue farfalle. 
Solo più tardi sono tornata , col mio impermeabile bellissimo , e tutti mi guardavano : sono stata felice , oggi , nel bosco . MARGI BUONANOTTEDIFIABA !
7 settembre 2016 

venerdì 29 maggio 2015

"PATTY E LA BRICIOLA GIGANTE" di Maya



Patty e la briciola gigante

C'era una volta una formichina di nome Patty che desiderava con tutta se stessa avere una briciola tutta per se !

Ci pensava la notte ed il giorno ,
perchè aveva letto che quando si vuole ardentemente qualcosa occorre coltivarla in un luogo dentro di se,
senza trascurarla mai.


E cosi lei faceva cercando di non condividere con nessuno
quel suo sogno,
cosa che le riusciva particolarmente difficile dal momento che per natura era una chiaccherona

Raramente infatti stava zitta e perfino quando lavorava,
chi le era vicino,
poteva essere accarezzato dalla sua piccola vocina 
che raccontava
quello che aveva sognato
oppure visto 
o
dalla sua vocina che cantava,
recitava versi imparati a memoria o domandava:" Come stai? Come ti senti?
Ti vedo triste o
forse è
solo una mia impressione?"

Un altro sogno nel cassetto di Patty infatti,
dopo quella della briciola tutta per lei
era quello di diventare una psicologa

Sapeva ascoltare otre che travolgere il suo interlocutore con le sue chiacchere e sapeva farlo con arte oramai dimenticata
dai più

A Patty infatti interessava davvero ciò che gli altri avevano da dire e riusciva a trovare interessanti anche cose da altri ritenute banali o
noiose

Ed il suo appassionato e disinteressato ascolto era rivoto non solo alle formichine della sua tribu 
bensi a tutti coloro nei quali si imbatteva;

Il signor scarafaggio che intercalava ogni parola con tre sospiri profondi era fra questi,
con lui Patti si tratteneva degli interi pomeriggi .

Ma c'era anche Mirea
una bruchina vanitosa e petulante,
Gigi l'orsacchiotto giocoso che soffriva il solletico
sula pancia,
Virginia la cavalletta che amava cimentarsi in lunghi discorsi filosofici senza capo ne coda 
o Brunello un lucertolino pacifico e pauroso amante
della poesia

il fatto è che la nostra formichina,
aveva il dono di tirar fuori dall'anima di chiunque incontrasse,
ogni sua confidenza e segreto come se fosse stata in possesso della chiave per poter accedere nella sua stanza 
piu recondita

Nessuno riusciva tuttavia a carpire il suo sogno .

Poichè è vero che Patty era chiaccherona ma solo per le cose che non la riguardavano intimamente

E a parte Lia,
una lumachina dolcissima e muta
il piccolo universo nel quale si muoveva ignorava quasi tutto di lei

E non era certamente un caso che avesse scelto come sua confidente una creatura sprovvista del dono della voce

La sicurezza che i suoi segreti sarebbero rimasti tali.
le infondeva la fiducia della quale aveva bisogno per riuscire a lasciarsi andare in una reazione di amicizia!

Ed infatti Patty e Lia trascorrevano molto tempo insieme condividendo la stessa passione per le passeggiate
ed il cielo stellato

Patty adorava lo sguardo ingenuo ed il lento incedere
di Lia e
quest'ultima amava della nostra formichina soprattutto il carattere deciso e coraggioso, 
accanto a lei si sentiva protetta
più che dentro il suo guscio.

E avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di aiutarla a realizzare
il suo sogno!

Sapeva che in lui non si celava alcun sentimento di avidità
Patty infatti era l'essere piu generoso che lei avesse mai conosciuto
ma era anche profondamente stanca!

Stanca di vivere per lavorare ...
Per lei il senso della vita non poteva ridursi nel faticare indefessamente quasi tutto il giorno!

Patty amava cantare danzare giocare oltre che naturalmente ascoltare chiunque avesse bisogno di parlare

Ma per poter fare tutte queste cose,
avrebbe dovuto possedere una briciola di pane gigantesca tutta per lei cosi da non dover appunto dedicarsi a procacciarsi il cibo,
per almeno un anno intero!

Naturalmente se avesse osato confessarlo alle altre formichine ,
le avrebbero dato della fannullona

Per 
loro vivere significava lavorare lavorare e solo lavorare!

- Ma sarò davvero una formica dal momento che vagheggio notte e giorno di far di tutto
fuorchè lavorare?

-Ed i miei genitori se conoscessero ciò che custodisco nel mio cuore mi ripugnerebbero?

Queste domande,
con tono accorato, le rivolgeva alla sua amica del cuore che le rispondeva abbassando lentamente gli occhi espressivi ed inviandole telepaticamente ciò che pensava a riguardo
e solitamente erano pensieri incoraggianti 
e pieni di affetto incondizionato

Ma Lia era una sognatrice che non conosceva il mondo e per quanto l'amasse non riteneva attendibili le sue opinioni , 
troppo impregnate del candore della sua anima

Ed inoltre non era pratica pertanto non in grado di aiutarla a realizzare
il suo sogno
o
perlomeno questo era ciò che pensava Patty della sua amica lumachina

Tuttavia dovette presto ricredersi..
Una bella mattina infatti Lia le suggerì, sempre con la forza del pensiero,
di allungare la loro passeggiata,
fino ad una panchina posta sotto la quercia più grande del parco dove entrambe abitavano

Era una panchina poco frequentata rispetto alle altre, forse perchè lontana dalle altalene e dagli scivoli frequentati dai bambini

Una panchina quasi solitaria.
Infatti Lia sapeva che un bimbo molto tenero amava trascorrere su di lei alcuni minuti del suo tempo ogni giorno

Lo aveva osservato diverse volte ed era sicura si trattasse di una creatura incapace di fare del male

Si chiamava Pasqualino
poteva avere intorno agli otto anni e la sua piu evidente caratteristica era quella di avere un viso tondissimo
bianco e roseo, con una bocca piccola e sottile e due occhi liquidi grandi e color delle foglie,
oltre che un corpo estremamente paffutello e pieno di rotolini un pò
dappertutto!

Lia era innamorata di quei rotolini le trasmettevano un senso di ineffabile morbidezza...

Ma soprattutto Quel bimbo aveva sempre con se,
un enorme panino con in mezzo del cioccolato sfuso di cui doveva essere golosissimo .

E quell'enorme panino,
lo consumava proprio sulla panchina,
sulla quale voleva portare la sua amica del cuore pensando che chissa proprio sotto di lei avrebbe potuto trovare 
la briciola gigante che sognava da tempo!

E cosi dopo aver camminato tanto arrivarono all'ambita meta constatando che Pasqualino era gia li con il suo enorme panino
fra le mani..

Non appena Patty lo vide capì perchè Lia l'avesse condotta fino a li e 
la ringraziò con il suo piu bel sorriso,
proprio mentre una briciola di proporzioni gigantesche cadeva a pochi centimetri di distanza da lei 
e nell'aria una bambinaia con un ombrello coloratissimo cantava
con voce melodiosa:
"
I sogni son desideri
che ognuno può realizzar...
Aprendo completamente il cuore e
provando
ad immaginar...
Lalalalà là..."

Maya

mercoledì 22 aprile 2015

"Lo gnomo" di Diana Mayer Grego.


C'era una volta un omino piccolo piccolo, qualcuno mormorava fosse uno gnomo.
Era felice, saltellava senza sosta, tutti lo chiamavano, tutti lo volevano. Qualcuno gli diceva che gli voleva bene ed era anche vero, qualcuno ...
Lo gnomo non stava mai zitto, aveva un pessimo carattere, gli piacevano le regole e diceva la verità, a qualcuno non piaceva, si sa, la verità fa male.
Arrivò un orco, che mise delle trappole sul cammino dello gnomo, e lo gnomo cadeva e si rialzava sempre con il sorriso, ma poi ricadeva e allora si rialzava dolorante, e ricadeva ancora. Iniziò a dire la verità - che cadeva per colpa di un orco. Molti alla parola "orco" fuggirono lontani, altri dissero allo gnomo che si era inventato la storia del orco per non ammettere le sue cadute, altri credettero all'esistenza del orco, alcuni ne ebbero timore, altri se lo fecero amico, così l'orco non li avrebbe mangiati, pensarono - in realtà si mangiò la loro anima.
Lo gnomo rimase intrappolato nell'ultima buca e gridava, gridava, chiedeva aiuto, ma nessuno si affacciò sulla buca che l'aveva imprigionato. Lo gnomo si rannicchiò e per sopravvivere iniziò a mangiare radici amare e bere acqua putrida.
La gente non vedendolo più si dimenticò ... alcuni andarono a cercarlo, forse, ma non lo trovarono, nessuno ebbe il coraggio di affrontare l'orco!
Piano piano il ricordo dello gnomo venne chiuso nella scatola del dolore, vicino ai dolori più grandi, e così fu dimenticato.
Ma lo gnomo era pieno di voglia di vivere e attese molto a lungo che la pianta in fondo al pozzo crescesse, fino ad arrivare alla cima del pozzo. Si arrampicò e fu libero. Ma non trovò nessuno! Andò a cercare i suoi amici, ma non trovò più nessuno. Poi un giorno ne trovò alcuni e loro, anche vedendolo, non lo riconobbero. Trovò le loro scatole e vide che il suo ricordo era stato chiuso lì dentro. Allora lo gnomo provò a stare per qualche tempo nelle scatole, ma c'era troppo dolore e nessuno le apriva.
Un giorno qualcuno aprì la sua scatola, il dolore era diventato sopportabile e il ricordo era diventato nostalgia, sperava di trovarci lo gnomo, ma lo gnomo non c'era più, al suo posto un po' di polvere di stelle, che potesse ricordare che ognuno ha la sua è brilla uguale alle altre.
Lo gnomo si chiamava "Speranza" ed era andato via perché il suo compito era finito. La scatola, una volta aperta, non serviva più. 

©Diana Mayer Grego

lunedì 23 marzo 2015

"R-estistenza" di Carmen Lasigaraia. "Donne si raccontano"



"Donne si raccontano"

R-esistenza.

Mi attacco alle piastrelle da lavare
Forte mi tengo ai bordi d'una pentola
Cerco radici fra bucato e spesa.
E abbarbicata all'ultimo scontrino
Come in trincea
RESISTO
Carmen Lasigaraia

mercoledì 21 gennaio 2015

Intervista a Rosa Bizzintino, autrice del libro “Mille bolle”, a cura di Rosaria Andrisani.

Cari lettori di Passione Lettura, oggi conosciamo meglio Rosa Bizzintino, autrice di “Mille bolle”, un libro di favole dalla scrittura scorrevole e chiara, che allieterà i più piccoli, ma piacerà anche ai grandi perché, in fondo, ognuno di noi, a volte, vuole ritornare un po’ bambino. La gallina Cloe, l’anatra Lilly, la capretta Belà, il bambino di nome Mirto e tanti altri personaggi ci accompagneranno in questa magica raccolta di racconti e ci apriranno le porte del regno della fantasia. Ma ora lascio la parola a colei che ha scritto il libro… 

1- Buongiorno Rosa, vuoi presentarti ai nostri lettori?

Buongiorno a tutti, sono Rosa Bizzintino autrice del libro " Mille bolle"; mi presento brevemente cercando di non 
prendermi troppo sul serio perché è nato tutto quasi per gioco anche se, devo precisare, la vocazione e la passione per la scrittura l'ho sempre avuta, fin da adolescente. Nella mia breve carriera, spero possa continuare, di scrittrice, ho pubblicato cinque libri, di cui tre sono libri di poesie e due dedicati ai bambini. Il primo libro per bambini si 
intitola "Le avventure di Elsa" edito da Albatros; poi di seguito tre libri di poesie, insieme ad altri autori, editi da 
Pagine ed infine "Mille bolle" di cui sono anche illustratrice. Alcune mie poesie hanno ottenuto dei riconoscimenti e sono stati inserite in diverse raccolte antologiche. Poi ho avuto il grande piacere di partecipare come autrice alla 
collana antologica "Acqualuna della Luna e altre Storie" promossa dall'Associazione Luna Nera il cui ricavato è 
stato devoluto a favore dell'Ospedale Meyer di Firenze.

2- Per quale motivo hai deciso di scrivere favole?

Ho deciso di scrivere favole perché credo che in me coesistano la bambina che sono stata e la donna attuale; quindi mi riesce abbastanza facile immedesimarmi nelle storie che scrivo, anche se esse sono di fantasia.

3- Il tuo libro "Mille bolle" cosa ha significato per te?

"Mille bolle" è stato molto importante per diversi motivi. Primo fra tutti, perché sono anche l'illustratrice; poi perché credevo e credo nella bontà del racconto breve per interessare i piccoli lettori.

4- Ogni breve favola del tuo libro ha una morale; vuoi spiegarne il concetto?

La morale, nel mio libro, vuole richiamare l'attenzione del lettore su quelli che sono i temi, forse, più attuali del nostro tempo.

5- Definisci il tuo libro con una frase.

Non ho una frase per definire il mio libro; spero che piaccia, incuriosisca e che il lettore si ricordi di me.

Grazie all'autrice Rosa Bizzintino per le sue risposte.
(intervista a cura di Rosaria Andrisani)
http://www.passionelettura.it/interviste-passione-lettura/intervista-rosa-bizzintino-autrice-del-libro-mille-bolle/

martedì 13 gennaio 2015

"FIABA DI NATALE" di Diana Mayer Grego


È arrivato presto l’inverno quest’anno. Questa notte la neve ha imbiancato la montagna, siamo appena i primi di dicembre, presto sarà Natale.
Le cime si nascondono timidamente dietro le nuvole. Dalla pianura si alza un leggero velo, respiro della terra umida con l’affacciarsi del primo sole. L’aria è limpida e le montagne sembrano vicine, ma io lo so che sono lontane e il mio cammino è ancora molto lungo, nulla in confronto al viaggio che ho fatto per arrivare fino a qui. Manca poco, presto sarò finalmente a casa.
Due stagioni sono passate da quando iniziai il mio viaggio, ero giovane, irrequieto, avevo voglia di conoscere il mondo. Ero nato e cresciuto in una baita nelle alte Alpi Carniche, la mia casa era a due piani, a vederla di fuori era carina, il pian terreno era rivestito di pietre e il piano superiore era ricoperto interamente in legno, con un grande balcone, dove la mamma d’estate esponeva i suoi bellissimi gerani rossi. Dietro la casa c’era la legnaia, dove il mio papà accatastava la legna per l’inverno. Appena entravi c’era un piccolo disimpegno a sinistra entravi nella grande cucina, dove la mamma cucinava sullo sparger d’inverno e con la cucina a gas d’estate. Come tutte le cucine di montagna avevano anche un piccolo divano per stare comodi al calduccio. A destra c’era il salotto, era più una stanza adibita a studio dove mamma e papà passavano il tempo al computer e la sera guardavamo tutti assieme la televisione sdraiati sul grande divano, in un angolo c’era il caminetto, io preferivo guardare lo scoppiettare della legna, la televisione m’interessava poco e passavo le ore davanti al fuoco, tanto che papà mi fece un piccolo divanetto per stare comodo, però d’estate quando il caminetto non era acceso, mi piaceva stare in mezzo a loro sul divano grande.
Al piano di sopra c’erano le stanze da letto, belle confortevoli con un buon profumo di legno e di lavanda. Si saliva solo per dormire. Sia sotto sia sopra c’era un bagno, quando ero più piccolo la mamma mi chiudeva dentro per castigo, pochi minuti che a volte mi parevano ore, altre volte mi perdevo a giocare con l’acqua, non era poi un castigo così terribile.
Mia mamma e mio papà erano persone umili, con un grande cuore, erano esemplari. Non mi mancava nulla, mangiavo a sazietà, il mio letto era sempre in ordine fresco d’estate e caldo d’inverno. D’inverno faceva molto freddo, come ora, ricordo con nostalgia le belle serate passate davanti al camino accesso, ho sempre avuto un certo timore del fuoco, ma quanto era bello sentir scoppiettare i ceppi nel camino. L’inverno non c’era molto da fare al mio paese, ma io con papà uscivo ogni giorno, anche nelle giornate di tormenta. Era molto coraggioso il mio papà, mi metteva il cappotto e via a fare scorribande sulla neve, quanti ruzzoloni e capriole facevamo. Rientravamo fradici e la mamma si arrabbiava tantissimo, aveva sempre paura che ci ammalassimo, io però non mi sono mai ammalato, papà invece sì.
Ricordo una volta che ebbe la febbre molto alta e la mamma non voleva che entrassi nella sua stanza, aveva paura che mi contagiasse, ma io piagnucolai parecchio e lei cedette, funzionava sempre! La mamma aveva il cuore buono e non è mai riuscita a resistere ai miei occhioni languidi, devo ammettere che a volte ne ho approfittato per ottenere quello che volevo.
Anche quella volta cedette e mi aprì la porta, entrammo, la stanza era molto buia, sentivo il respiro affaticato di papà, sentivo l’odore delle medicine e del sudore, mi spaventai! Papà stava molto male, la mamma gli metteva le pezze di acqua fresca sulla fronte. Io mi distesi ai piedi del letto e non mi mossi più di lì, ogni tanto papà mi chiamava con la voce tremolante e mi sorrideva. Io scattavo in piedi e mi avvicinavo alla sua mano, lui debolmente poggiava me la sulla testa per un attimo poi tornava inerme, era molto debilitato. Io ero felice perché sapevo che la mia presenza gli faceva bene. Mamma si ostinava a volermi far uscire, ma io facevo peso morto, uscivo solo per mangiare e andare al bagno, dopo due giorni, mamma cedette e iniziò a portare da mangiare a entrambi in camera. Io non mangiavo finché non vedevo che anche papà mangiava, così facendo lui si sforzava di prendere qualche cucchiaio di brodo caldo, poi mi diceva «Visto? Ho mangiato, ora mangia anche tu.» se si limitava a due cucchiai io, non aprivo bocca e mi lagnavo, così lui mangiava ancora un po’, poi mamma mi diceva di mangiare ed io obbedivo, lei mi stava vicino e mi carezzava la testa. Ricordo le sue carezze piene d’amore, quanto mi sono mancate in questi mesi. Ogni volta che ci ripenso, mi vengono le lacrime agli occhi, ma non piango, sono fiero.
Alla fine papà guarì. Riprendemmo la vita di sempre. Quando andavamo al bar del paese, papà raccontava a tutti di quanto ero stato bravo durante la sua malattia, era orgoglioso del suo ragazzo. Allora tutti gli amici si congratulavano con me, chi mi faceva un puffetto sulla frangia, chi mi dava una pacca sulle spalle, mi faceva sentire grande e amato, ero uno di loro.
Al bar venivano anche piccoli amici come me, e mentre i grandi chiacchieravano bevendo vino, noi giocavamo alla lotta e ci correvamo dietro, a volte eravamo così irruenti che ci dovevano richiamare all’ordine, nei casi peggiori ci separavano e ci mettevano in castigo ognuno vicino alla sedia del proprio papà. Mi divertivo molto a uscire con papà.
Anche con la mamma uscivo, ma lei non si rotolava come papà, diceva che era una signora e non stava bene fare il clown. Quando uscivo con lei, facevo il bravo, sapevo di renderla felice, andavamo a fare la spesa, io mi annoiavo al supermercato e preferivo aspettarla fuori, non mi allontanavo mai dalla porta e poi il paese era piccolo e mi conoscevano tutti. Così mentre aspettavo la mamma, salutavo cordialmente tutti quelli che passavano, qualcuno veniva vicino e mi faceva un puffetto sulla frangia. Avevo una frangia irresistibile!

La fuga

Non so cosa mi saltò in mente quel giorno! Era primavera inoltrata, avevo gli ormoni in subbuglio, una gran voglia di conoscere il mondo al di fuori del piccolo paese dove ero nato. Così, quando vidi il furgone delle consegne delle bombole del gas, che sarebbero servite per l’estate, decisi di mollare tutto . Volevo andare a conoscere la città. Ovviamente non avrei potuto chiedere un passaggio esplicitamente, quindi salì nel retro del furgone e mi nascosi dietro la pila di bombole, dove non potevo essere visto.
Percorremmo tanti chilometri ed io di tanto in tanto sbirciavo fuori dal finestrino, ero eccitato da questa nuova avventura, guardavo curioso il paesaggio cambiare, avevamo lasciato alle spalle le amate montagne e ci stavamo dirigendo verso la pianura. Il furgone si fermò più volte ed io stetti molto attento a non farmi trovare, ero terrorizzato ogni volta che l’uomo del gas saliva per prendere le bombole, non sapevo come avrebbe reagito alla vista del clandestino.
Passammo tutta la pianura e vidi diversi paesi, erano tutti uguali, c’erano case, strade e stradine, bei giardini con tanti amici come me che giocavano felici all’aria aperta, c’era la Chiesa, il cimitero. Non mi sono mai piaciuti i cimiteri, c’era troppa puzza di fiori marci mi veniva la nausea ogni volta che la mamma mi ci portava, in compenso c’erano tanti gatti ed io mi divertivo molto a rincorrerli, e ogni volta finiva che la mamma mi sgridava perché in cimitero non si deve giocare, è un posto serio, dove dormono le anime dei morti. Io non capivo queste cose, però ubbidivo.
Tornando al paesaggio vidi che c’era la macelleria, il nostro macellaio mi era molto simpatico, lo riconoscerei fra mille, ha un buon odore e ogni volta che andavamo a fare compere dal lui, mi faceva un regalo.
I paesi si susseguirono ed erano tutti uguali, un po’ ne fui deluso, chissà cosa mi aspettavo, avevo lasciato la mia casa per conoscere il mondo e il mondo era esattamente come casa mia.
Ero così assorto dai miei pensieri che non mi accorsi che il furgone si era nuovamente fermato. Il portellone si aprì e la luce entrò abbagliandomi, non feci in tempo a nascondermi, udì un urlo. «Che ci fai tu qui!?»
Il tono della voce era minaccioso, mi rannicchiai in un angolino, non vedevo nulla accecato dal sole che entrava prepotente. La figura entrò e si fece avanti urlando. «Vattene! Esci da qui!»
Ero terrorizzato, ebbi paura che mi volesse picchiare e così preso dal panico, mi lanciai fuori dal furgone. Feci un balzo e mi ritrovai su una strada, era diversa da quelle che conoscevo. Io ero abituato alla terra con la ghiaia, che però quando saltavo mi faceva un po’ male, questo suolo invece era liscio grigio, non ne avevo mai calpestato uno, era piacevole.
Dopo un secondo di sgomento iniziai a correre velocemente, dietro di me sentivo ancora le grida dell’uomo del gas. Non capivo dov’ero, d’un tratto sentì uno stridio, mi voltai e vidi davanti a me una macchina molto grande che stava per investirmi, mi spaventai e corsi ancora più forte per sfuggirle. Sentì provenire dalla parte opposta lo stesso rumore accompagnato dal suono del clacson, mi girai e provai a tornare indietro, mi sembrò impossibile era piano di macchine e tutte stridevano minacciose, vedevo che gli uomini all’interno dell’abitacolo gridavano, ma non sentivo nulla di quello che dicevano, i loro occhi e i loro gesti erano minacciosi. Mi rigirai più volte su me stesso senza lasciare la posizione dove mi trovavo, mentre le automobili sfrecciavano intorno a me. Ma com’era possibile? Perché non si fermavano? Eppure mi vedevano.
Guardai in tutte le direzioni, ci fu un momento in cui non passarono le macchine, allora iniziai a correre verso i campi, corsi a perdifiato, volevo allontanarmi più possibile da quell’incubo, ad un certo punto dovetti fermarmi perché mi sembrò che il cuore mi scoppiasse nel petto. Ebbi bisogno di riprendere fiato, la strada con le automobili l’avevo lasciata da un pezzo e mi trovai dentro un campo. Finalmente stavo camminando sulla terra.
Rimasi fermo e spaventato per molto tempo, in mezzo al campo, mi sentivo al sicuro. Nel frattempo si stava facendo sera e avrei dovuto trovare un posto dove dormire. Mi guardai attorno e non c’era nulla solo distese interminabili di campi, in dietro non potevo tornare, lì c’era la strada ed era pericoloso. Dovevo trovare un bar, lì avrei potuto trovare sicuramente degli amici che mi avrebbero aiutato a tornare a casa, ero appena partito ed ero già pentito di quest’avventura.
Camminai a lungo, ero molto stanco e affamato, inizia a rendermi conto della cavolata che avevo fatto a lasciare il mio paese, la mia casa e la mia mamma e mio papà.
Al confine fra un campo e un altro vidi un capanno degli attrezzi, era molto simile alla nostra legnaia. La finestra era aperta, senza vetri, decisi di saltare dentro e ripararmi per la notte, l’indomani avrei cercato un bar.
Mi addormentai sfinito e quella notte sognai le carezze della mia mamma, seduti sul divano davanti al caminetto acceso, il salotto era inondato di una luce tenue e avvolgente, tutto era tinto di colori arancio.
Quando aprì gli occhi, speravo di essere fra le mie coperte e che tutto quello che avevo vissuto il giorno prima fosse stato solo un brutto sogno.
Invece ero nel capanno degli attrezzi di chissà chi, in un campo sconosciuto, lontano da casa chissà quanto, solo, stanco e affamato.
Mi lasciai prendere dallo sconforto e mi riaccoccolai nella speranza di trovare un po’ di calore, in realtà era quasi estate e non faceva freddo, avevo tanto freddo nel mio cuore. Piano piano spunto il sole, dovevo agire e trovare al più presto un bar, lì mi avrebbero aiutato e anche dato da mangiare.
M’incamminai e passai i campi, vidi che erano tutti costeggiati da una stradina di ghiaia, dovevo seguire quella traccia e poi avrei fatto meno fatica a camminare lì piuttosto che sulla terra arata, sprofondavo ad ogni passo.
La stradina terminò e mi ritrovai nuovamente sull’asfalto grigio, memore della brutta esperienza del giorno prima fui assalito dall’ansia di trovarmi nuovamente fra le macchine, lo stridio dei freni e i clacson mi rimbombavano ancora nelle orecchie. Avevo imparato la lezione, ero molto vigile, mi guardavo con sospetto intorno, appena passava una macchina, mi buttavo giù nei campi.
Nel capanno trovai un secchio pieno d’acqua, prima di partire bevetti molto. La sete non si placava, avevo bisogno di trovare acqua e cibo, ma soprattutto dovevo trovare il bar.
E lo trovai, solo che non fu per nulla quello che credevo, appena entrato, mi resi conto che le persone erano ostili. Iniziarono a gridarmi di uscire, di andarmene, non capivo. Cercavo solo aiuto per tornare a casa invece mi trattavano male.
Un omone prese una scopa e iniziò a minacciarmi, mi spaventai molto e indietreggiando uscii dal locale. Ero molto triste e mi sedetti a un angolo, mi veniva da piangere, ricordavo i bei momenti passati nel bar del mio paese con mio padre sempre pronto a difendermi, non capivo perché lì nessuno mi volesse bene, era come se avessero paura di me, invece ero io ad avere una paura fottuta. Iniziò a piovere.
Rimasi per molto tempo sotto la pioggia, tutto bagnato, seduto sullo scalino, non sapevo cosa dovevo fare, dove dovevo andare, una signora uscì dal bar e mi vide, penso che gli feci molta compassione e mi disse di seguirla, io in silenzio mi misi dietro di lei e con la testa bassa andai con lei, mi fece accomodare nel suo garage, mi portò da bere e da mangiare, mi diede una coperta e mi chiuse dentro. Per un attimo ebbi il terrore di essere nuovamente prigioniero come lo ero stato nel furgone, ma ero troppo stanco e affamato per ribellarmi, mangiai tutto fino all’ultima briciola e poi mi avvolsi nella coperta e mi addormentai in un sonno profondo.
Dormì per molte ore, quando mi svegliai, bevetti l’acqua rimasta, per fortuna la signora gentile me ne aveva lasciata tanta. Mi guardai attorno e non c’era molto nel garage, degli scaffali pieni di cose strane, qualche vaso di pittura molto puzzolente, l’odore mi toglieva il fiato, iniziai a girare per tutto il perimetro della stanza, ero irrequieto, non mi piaceva essere prigioniero, avevo paura. Piano piano la mia paura si trasformò in un terrore che mi paralizzava. Chissà cosa mi avrebbe fatto? 
All’improvviso la serranda si alzò e la luce entrò prepotente nella stanza, senza pensarci nemmeno un attimo scattai e scappai fuori. Sentì la signora gridare, non sembrava minacciosa, ma ero troppo spaventato e iniziai a correre. Ricordai dell’esperienza vissuta fuori dal furgone, quindi mi fermai un attimo per vedere se arrivavano macchine, per fortuna la strada era deserta e così ripresi a correre. Corsi così forte e per così tanto tempo che solo dopo molto tempo mi resi conto di aver lasciato alle spalle la cittadina, alzai lo sguardo e vidi in lontananza le montagne.


Il ritorno

Le mie montagne, il mio cuore ebbe un sobbalzo, emozione mista a gioia. Era in quella direzione che dovevo andare per tornare a casa. Ero felice, non avevo più bisogno di nessuno che mi aiutasse, dovevo solo intraprendere il mio cammino del ritorno.
Quel giorno camminai tantissimo, preso dall’entusiasmo di aver trovato la strada di casa. Ero stanco e avevo tanta fame, dovevo trovare un posto dove fermarmi per la notte, iniziava a tramontare il sole. Vidi in lontananza un casolare, forse una stalla, arrivato trovai un abbeveratoio per gli animali, senza pensarci un attimo mi buttai quasi dentro per bere, la mia gola era asciutta, mi riempii la pancia d’acqua, era comunque un sollievo. Mi guardai in giro nella ricerca di cibo, la porta della stalla era aperta, entrai facendo molta attenzione, avevo capito che da quelle parti erano ostili con i forestieri, in un angolo trovai un secchio piano di latte, non era come una bella bistecca ma avrebbe placato la mia fame per un bel po’. Le mucche erano pacifiche, mi nascosi e attesi che il contadino venisse a ritirare il latte, sapevo che poi non sarebbe più tornato fino al mattino dopo e io avrei potuto dormire tranquillo, così fu.
Mi feci un piccolo giaciglio con la paglia e mi addormentai. Alle prime luci dell’alba mi sveglia, bevetti ancora tanta acqua e m’incamminai. Passarono diversi giorni di cammino e bevetti e dormì dove capitava, mi trovai anche a rovistare nei cassonetti per mangiare, avevo lasciato la mia casa per scoprire il mondo e mi ritrovavo a essere un barbone.
L’estate era finita, ormai era iniziata la stagione delle piogge ed era sempre più difficile trovare un riparo asciutto, avevo perduto molti chili, mi guardavo specchiandomi nelle pozzanghere e mi vedevo smunto, sporco e infreddolito, le mie montagne erano sempre più vicine, mangiavo quello che trovavo per le strade, qualche rarissima volta qualcuno mi allungava qualche pezzo di pane. Ero umiliato e abbacchiato, quando la sera mi addormentavo agli angoli delle strade, mi consolavo ricordando i momenti felici assieme alla mia mamma e al mio papà nelle belle serate dove si stava insieme tutti accoccolati sul divano. Mi addormentavo sognando le carezze di mia madre che mi rimboccava le coperte per assicurarsi che io sia coperto nelle lunghe notti d’inverno, sognavo mio padre quando giocava con me a rincorrerci. Chiudevo gli occhi sognanti e mi chiedevo. “Chissà se dopo tanto tempo si sono dimenticati di me? Chissà se gli manco così quando loro mancano a me?”
Le lacrime scendevano copiose lungo le mie scarne guance, mi addormentavo ogni sera pieno di nostalgia.
La mattina appena sorgeva il sole riprendevo tutta la mia tempra combattiva e ripartivo per il mio cammino, giorno dopo giorno macinavo chilometri che mi separavano dalla mia casa.


Manca poco

E mentre pensavo a tutte le peripezie dei mesi passati anche oggi avevo fatto molti chilometri.
Sono sempre più stanco e cammino a fatica, ma tengo duro, manca veramente poco. Da qualche giorno ho intrapreso la salita, riconosco gli odori, i profumi, salgo su per la strada che porta verso il mio paese, ho deciso che non seguirò tutta la strada è troppo lunga, taglierò su per il bosco, anche se è caduta molta neve, penso che nel sottobosco sarà comunque facile camminare. Arriverò a casa da dietro, però risparmierò alcuni giorni di cammino.
La decisione di intraprendere questa scorciatoia non è stata molto produttiva, la neve in realtà è molto alta anche nel bosco, faccio molta fatica ad avanzare, sprofondo ad ogni passo e sono gelato, non sento più gli arti e le vesciche sono sempre più sanguinanti.
Questa notte per dormire scaverò una buca che mi proteggerà dal freddo, questa secondo i miei calcoli dovrebbe essere l’ultima notte fuori di casa. Sono molto eccitato all’idea che domani arriverò a casa, dopo tanta strada percorsa e tutte le brutte avventure che mi sono accadute. “Sono anche spaventato, mamma e papà si ricorderanno di me? Saranno arrabbiati e mi puniranno?” È un rischio che mi piacerà correre, assaporo il calore del caminetto e la coperta calda mentre mi addormento congelato nella neve. Quella notte sogno di andare con papà a tagliare l’abete nel bosco, mentre torniamo a casa con il “bottino” ci investe il profumo dei dolci appena sfornati dalla mamma, poi tutti assieme passiamo il pomeriggio ad addobbare l’albero, io sono un po’ goffo, ma li aiuto come posso e loro ridono a vedermi portare i gingilli per tutta la casa.
Domani sarà la vigilia di Natale.

La vigilia

Mi sono alzato presto, fa troppo freddo e ho paura di morire assiderato, il sole non è ancora spuntato, sarà meglio che mi metta in cammino, sono molto stanco e cammino a fatica, ci impiegherò tutta la giornata per raggiungere casa, ho gli arti tutti anchilosati, mi fa male tutto, la schiena è in pezzi, sono tutto bagnato, ho ghiaccioli di neve dappertutto, la gola è secca, e sono diversi giorni che ho anche una brutta tosse, respiro a fatica.
Sto risalendo l’ultimo tratto di salita, tra pochi metri uscirò dal bosco e vedrò la mia casa.
Sento in lontananza il rumore dell’accetta che spacca la legna, è il mio papà sicuramente che sta preparando la legna per accendere il caminetto, il mio papà. «Papà!»

Devo fare ancora uno sforzo per scollinare, poi riuscirò a vederlo e lui vedrà me. Provo a chiamarlo ma la voce non esce, un lamento è il massimo che riesco a fare, per un attimo il ritmo dello spaccalegna s’interrompe, “Forse mi ha sentito?” ma poi riprende il suo lavoro. Non ce la faccio più, mi trascino arrancando nella neve alta, ho scollinato, lo vedo «Papà!» provo a chiamarlo, ancora una volta la voce non esce, solo uno stridulo lamento, lui si ferma, è intento a raccogliere la legna, si alza, scruta l’orizzonte, sta guardando verso la strada, il mio papà, mi viene da piangere, quanto tempo ho desiderato rivederlo «Papà sono qui, non ce la faccio più!» vedo che si guarda attorno, ha sentito qualcosa, ma non riesce a capire che sono io o non mi vede, non ce la faccio ad alzarmi in piedi, mi sta prendendo lo sconforto. «Papà!» provo per l’ultima volta con tutto il fiato che ho in gola.
È in quell’attimo che si volta dalla mia parte e lo sento dire timidamente il mio nome «Buk?»
Lo sguardo smarrito e triste di mio padre si incontra con il mio debole e speranzoso. Lo sento gridare sempre più forte «Buk!» «Papà sono qui …» dalla mia gola esce un urlo strozzato.

«BUK!!!» vedo il suo volto illuminarsi di luce, lascia cadere la legna che portava sotto braccia e inizia a correre verso di me «Sofia! Sofia!!!» lo sento chiamare la mamma «Sofia è buk! È tornato!» vedo dopo un attimo la mia mamma apparire da dietro la casa, ha il suo vestito e il grembiule legato attorno alla vita, in mano tiene ancora lo strofinaccio per asciugarsi le mani, probabilmente stava preparando la cena, la sento gridare il mio nome, la sua voce è piena di gioia «Bok!» corrono verso di me, chiudo gli occhi e mi lascio scivolare nell’oblio, non sento più nulla solo in lontananza le loro voci chiamarmi. Sento le forti braccia di mio padre strapparmi alla neve, sollevarmi e correre con me in braccio. Dietro sento la mamma che dice «Presto portalo dentro!» mi abbandono nelle sue forti braccia.
C’è un gran trambusto
«Sofia presto chiama il dottore!»
«Sì! Tu accendi il fuoco, poggialo lì!»
«Buk! Buk!» sento che mi chiamano e le loro voci sono strozzate dal pianto e dalla gioia. Papà mi adagia sul divano, sento il morbido plaid sotto di me.
Quanto ho desiderato questo momento, respiro a fatica, la mamma si distende di fianco a me per scaldarmi, con un panno mi liscia il pelo e mi copre con la coperta, guardo verso il caminetto, c’è l’albero di Natale e sotto ci sono il mio divanetto e le mie ciotole.
Non mi hanno mai dimenticato.

Diana Mayer Grego


domenica 4 gennaio 2015

Il mondo incantato di Bruno Bettelheim, recensione a cura di Mary Skellington Greenwood.





Hi Followers!
E’ una bellissima domenica di sole in questa Toscana che con il tempo ci delude sempre poco: un po’ ventosa, si, ma con una sciarpa e una felpa più pesante, è vivibile.
Venerdì ho dato un esame sulla letteratura francese sulle fiabe del seicento e del settecento.
E’ stato molto interessante vedere come dall’oralità alla stesura stessa delle fiabe che oggigiorno conosciamo tutti, le cose siano cambiate e non poco.
Chi non ha mai raccontato una fiaba ad un bambino?
E a chi, di tutti noi, non è mai stata raccontata una fiaba?

Uno dei due manuali da studiare per questo (lasciatemelo dire: pesantissimo!) esame è proprio Il mondo incantato di Bruno Bettelheim.

Il libro si suddivide in due parti, che possono sembrare benissimo due libri a parte nel solito volume, ma in realtà l’argomento trattato è presente come protagonista in entrambe le sezioni.
Il bisogno di fantasia, lieto fine e speranza in un bambino è ciò che lo aiuta a credere che ci sarà sempre un modo per uscire dalle situazioni, anche quelle più ingarbugliate, che sia con l’aiuto di una fata, o di una pianta di fagioli che cresce fino al cielo o del proprio intelletto, il bambino deve sempre e comunque credere di potercela fare con le proprie forze.
La favola ha un po’ questa funzione: indirizzare chi di dovere verso la giusta direzione.
Ovviamente secondo l’ascoltatore.
In fondo, chi è che può dire cosa è giusto o sbagliato?
Chi è tanto superiore da poter giudicare le rette vie o le scorciatoie?

Per esempio: molti bambini, conoscendo e ascoltando la storia di Cappuccetto Rosso (quella ovviamente romantica dei Fratelli Grimm, con il cacciatore e il lieto fine, perché quella di Perrault del seicento è un po’, come dire, cruda da far digerire a un bambino!) provano pena per questa nonna e questa bambina che vengono divorate, e poca compassione per questo lupo, che effettivamente, ha agito solo ed esclusivamente secondo la sua natura: la voglia e il bisogno di saziarsi.
Pochi pensano che sia invece la bambina che ha compiuto una scelta sbagliata nell’attardarsi a raccogliere fiori e ad allontanarsi dalla via maestra, cosa che invece le è stata espressamente richiesta dalla madre.
Ma anche qui, la colpa non è certo di Cappuccetto Rosso, quanto della famiglia della bambina che non si è preoccupata minimamente di spiegarle i motivi per i quali avrebbe potuto perdersi o imbattersi in sconosciuti a cui non avrebbe dovuto dare relazione.

Ecco: molti genitori fanno l’errore di tenere i propri figli o troppo nella fantasia o troppo nella realtà, mentre questo libro spiega anche ad un adulto in che modo le favole raccontate nella sua infanzia hanno avuto conseguenze nella sua crescita, aiutandolo fornendogli nozioni per crescere al meglio il proprio bambino, né con troppa paura della fantasia né con troppa voglia di inculcargli realtà nella testa.
Il bambino ha bisogno di giocare, di credere che fuori da casa ci siano casette di marzapane, lampade magiche, tappeti volanti o foreste incantate, ma allo stesso tempo ha anche bisogno di sapere che non è Robin Hood, che non può volare con polvere magica e che non c’è nessun orco che vuole mangiarlo.

Interessante come l’autore spiega ai genitori di incoraggiare i propri figli a sognare, ma di farlo con loro: di non escluderli, di non metterli da parte, ma di farli sentire parte integrante di quell’amore che ha dato loro la vita.

I problemi edipici sono da sempre intrinsechi nel bambino: la piccola crede che suo padre sia il suo principe, il bambino che la madre sia la bella principessa che sposerà una volta combattuto il mostro e che gli garantirà il tanto atteso lieto fine.

Ma più di tutto, il punto di vista di quest’autore mi ha lasciata un po’ “sconvolta”: nessuno mai ha pensato che le favole potessero avere anche relazioni sessuali in ambito psicologico, anche perché diciamocelo, quale bambino pensando alle tre gocce che la mamma di Biancaneve fa cadere sulla neve pensa alla prima mestruazione della giovane ragazza che sta diventando donna?
Ma è comunque un altro punto di vista: un po’ che ti smonta tutto ciò che hai sempre creduto, sicuro, però credo anche che bisogna essere consapevoli del fatto che sì, agiamo come agiamo, per istinto o perché ci è stato insegnato, ma chi ci dice anche che ciò che ci è stato insegnato sia giusto o sbagliato?
E torniamo al punto di partenza!

Leggendo questo libro, che se non si fosse capito, ho praticamente adorato e divorato, credo che la cosa più importante del perché certe credenze ci vengano smontate è perché esiste un’età per il gioco e la finzione, dove la fantasia è pane quotidiano, ed età dove la fantasia è bene metterla da parte poiché siamo pronti per apprezzarne la cruda realtà.
Senza ovviamente abbandonare né l’una né l’altra.

Vivere con un piede nella fantasia e uno nella realtà ci aiuta si a crescere continuamente, apprendere e vivere una vita matura data dalla propria età, ma anche a non perdere il bambino dentro di noi.
Che è sempre presente e che sempre sarà con noi.

Associare la letteratura alla psicologia è una figata!

Mary Skellington Greenwood.

sabato 3 gennaio 2015

La signora dei gomitoli che intreccia storie, di Gisella Laterza.




illustrazione di Francesca Capellini


La signora dei gomitoli abita laggiù, proprio lì. È una casetta nascosta in un labirinto di strade, ma voi, se seguirete un profumo di cioccolata e di nuvole, potete sperare di trovarla. È un profumo così strano perché i suoi gomitoli sono speciali: in ognuno di essi è racchiusa una storia. Nessuno sa come faccia quella signora ad avere dei gomitoli tanto bizzarri. Alcuni dicono che li abbia già in casa, e che, per trovarli, le basti riordinare un po’ i cassetti, aprire gli armadi e frugare tra le stanze piene di luce e polvere della sua infanzia. Altri dicono che abbia dei piccoli aiutanti simili a folletti, cacciatori di storie, che vanno in giro per il mondo ad acciuffarle, riuscendo a scovarle nei posti più impensabili. Ma chi sa come stanno le cose? Nessuno li ha mai visti.

Quel che è certo è che la signora, per tutto l’anno, osserva i diversi fili, mette insieme quelli che possono stare insieme, mette da parte gli altri. Non butta mai niente. E infine, la vigilia di Natale, ogni anno, le sue storie sono pronte per tutti i bimbi che vogliono ascoltarle. Allora la signora dei gomitoli spalanca la porta, e tutti voi, se volete andare da lei, potete seguire il profumo particolare delle storie e cercare la casetta. Ed entrare.

La troverete seduta sulla sedia a dondolo, davanti al camino sempre acceso, intenta a sferruzzare, circondata da garbugli di fili colorati. Ne mette insieme due, dieci, cento! Lo fa con qualche impaccio ogni tanto, e ogni tanto dovendo sciogliere i nodi e ripartire da capo, ma sempre con la felicità e la spontaneità di chi sta compiendo un atto familiare e antico. Sotto le sue dita esperte, le storie prendono forma. Lei le intreccia e le racconta ai bambini. E alla fine della giornata, quando i gomitoli si sono srotolati, restano tanti maglioni di mille colori diversi, che la signora regala ad ogni bambino. È il regalo più bello che si possa fare per Natale: una storia, e un poco di tempo per raccontarla.

Ogni bimbo se ne va contento, perché ha quel maglione che continua a tenerlo al caldo anche quando la storia è finita. Quella mattina prima di Natale, si sentì per le strade quel buon odorino di cioccolata e di nuvole, e molti accorsero alla casetta. Trovarono la signora dei gomitoli, e si misero in cerchio per ascoltarla. Ma prima parlarono un po’, perché era da un anno che non si vedevano e il Natale è l’occasione più bella per stare con chi, da tanto tempo, ci manca. Dopo tante feste e tanti racconti, una bambina molto piccola disse: «Però io sono preoccupata per Gianni». «Chi è Gianni?» chiese la signora. «È un bambino nuovo in città, ma è sempre arrabbiato, perché la sua mamma e il suo papà non sono mai con lui». La signora si fece triste, come se cose simili accadessero troppo spesso, ma disse: «Vai a chiamarlo. Gli faremo noi compagnia, perché è quasi Natale, e in questi giorni nessuno può essere lasciato solo.»
La bimba annuì, ubbidì, e corse via. Tornò dopo qualche tempo in compagnia di un ragazzino dai capelli mossi e dall’aria arruffata. La signora dei gomitoli lo accolse con un sorriso: «Come ti chiami?». «E a te cosa importa?» borbottò il bimbo. «Perché ognuno di noi è una storia da raccontare. E per farlo, si parte sempre dall’inizio, dal nostro nome». «Gianni» si lasciò scappare il ragazzino, incantato dalla risposta, ma incrociò le braccia sul petto. «Piacere di conoscerti. Forse ho una cosa per te».

La signora cominciò a frugare nei cassetti e negli armadi e trovò un gomitolosolitario che quell’anno non era riuscita a intrecciare con nessun altro. Si sistemò sulla sua sedia a dondolo, prese i ferri e disse: «C’era una volta...» Gli altri si sedettero in cerchio, in ascolto, ma Gianni rimase in piedi. La signora però sembrò non farci caso, e cominciò a sferruzzare e a raccontare. Era la storia del piccolo Giovannino che un giorno restò solo a casa. I suoi genitori erano sempre lontani perché di soldi, quell’anno, ce n’erano pochi in tutto il Paese, e loro erano costretti a lavorare anche a Natale. «Non mi piace» la interruppe Gianni. La signora però non perse il sorriso e mormorò: «Davvero? Ascolta...»

Giovannino un giorno scoprì che sotto il letto si nascondeva un mondo incantato. Vi entrò, e vide foreste magiche, paludi spaventose, deserti che sembravano non avere fine. C’era un orco che sapeva parlare solo in rima; una principessa che quando era felice piangeva e quando era triste rideva; un re che di notte si trasformava in capra; e un anello capace di infilarsi al dito solo delle persone sincere. Alla fine, Giovannino tornava a casa dai suoi genitori con tesori preziosi, e mamma e papà potevano restare sempre con lui. Gianni intanto si era seduto e aveva ascoltato, prima malvolentieri, poi sempre più preso e incuriosito, perché quella fiaba gli ricordava qualcosa, gli sembrava familiare e insieme antica, gli sembrava che parlasse di tutti e che parlasse di lui.

Infine, la signora dei gomitoli tacque. La storia era finita, i gomitoli si erano intrecciati, ed era rimasto un bel maglione. Era ormai sera e tutti i bimbi se ne andarono per stare con le loro famiglie la vigilia di Natale. Solo Gianni sarebbe stato solo. Per questo la signora prese il maglione, glielo diede e disse: «Portalo con te: è caldo e soffice. E questo forse non cambia nulla, ma cambia tutto». Da allora, Gianni andò dalla signora dei gomitoli ogni vigilia di Natale per tanti e tanti anni e lei aveva sempre nuove fiabe per lui e per tutti gli altri bimbi. Gianni poi crebbe e, anche se più raramente, andò a trovarla ancora. Dopo anni e anni ci portò anche la sua ragazza, poi sua moglie, poi i loro figli, e anche i figli di amici e gli amici stessi, perché a volte anche i grandi hanno bisogno di una fiaba. Un giorno, quando la signora dei gomitoli era molto, molto anziana, in mezzo a tutti, grandi e piccini, comparve una bimba con la pelle bianca e le labbra nere. Era piccola, eppure non sembrava né giovane né vecchia.

«Come ti chiami?» le domandò la signora, anche se conosceva già la risposta. «Mi chiamo Notte» disse la personcina dalla pelle bianca e dalle labbra nere. La signora dei gomitoli la accolse come aveva sempre accolto tutti, con gioia e benevolenza. Aveva una fiaba anche per lei, e lei la ascoltò. Quando il racconto finì, la personcina con le labbra nere disse: «Ero venuta a prenderti, ma la tua storia mi è piaciuta. Per questa volta sono contenta, ma l’anno prossimo ti porterò via con me». Detto questo, prese il maglione appena sferruzzato dalla signora dei gomitoli, uscì e scomparve.

Tutti restarono zitti. Ma Gianni, che ormai era abbastanza grande perché ai suoi sogni si unissero i ricordi, esclamò: «Poverina! Si vedeva che ne aveva bisogno. Io non dimenticherò mai il primo momento in cui una storia mi ha riscaldato». Passarono ancora degli anni e la bimba dalle labbra nere tornò. «Come ti chiami?» le chiedeva ogni volta la signora. «Mi chiamo Notte» le rispondeva lei, ma se ne andava senza portarla via. Alla fine, quando la signora dei gomitoli fu così anziana che ogni sua ruga sembrava la riga di una nuova storia, capì che non si poteva ritardare in eterno. Però era preparata. «Come ti chiami?» chiese con dolcezza alla personcina dalla pelle bianca e dalle labbra nere. «Mi chiamo Notte» fu la risposta. «Sono pronta. Ti chiedo solo un attimo ancora, un attimo solo.»

Era ormai sera e tutti erano tornati alle loro case. Restava solo Gianni. La signora dei gomitoli gli disse: «Ricorda le storie raccontate. Raccontale a tua volta. Non si smette mai di vivere nelle parole di chi ci ha amato e ci ricorda». L’anno successivo, i bimbi e gli adulti non riuscirono a ritrovare la casetta della signora dei gomitoli. Ma si consolarono pensando che i loro maglioni caldi sarebbero rimasti per sempre. E anche se non la vedevano, continuarono a sentire nell’aria, in certe giornate, un profumo di cioccolata e di nuvole.

Gisella Laterza

mercoledì 31 dicembre 2014

"Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza". Recensione di Rosaria Andrisani.


Le lumache sapevano di essere lente e silenziose, molto lente e molto silenziose, e sapevano anche che quella lentezza e quel silenzio le rendevano vulnerabili, molto più vulnerabili di altri animali capaci di muoversi rapidamente e di lanciare grida d’allarme. Per evitare che la lentezza e il silenzio le impaurissero preferivano non parlarne, e accettavano di essere come erano con lenta e silenziosa rassegnazione.
Fra loro però c’era una lumaca che, pur accettando una vita lenta, molto lenta, e tanti sussurri, voleva conoscere i motivi della lentezza.



Lo scrittore cileno Luis Sepulveda scrive la storia di una lumaca che coglie l’importanza del procedere lentamente e dell’apprezzare il vero valore delle cose. In una realtà che ritiene la velocità come une delle qualità essenziali per andare al passo con i tempi, l’autore ci mette di fronte a un’altra strada: cogliere la vera essenza della natura umana, pensare tranquillamente prima di fare. Ancora una volta il protagonista del libro di Sepùlveda rientra nel regno animale, come in altre sue precedenti opere molto amate dai lettori per la profondità del loro messaggio.

Questa volta è una lumaca che, in un mondo dominato dall’ansia e dalla freneticità, ci fa rivalutare la dimensione della nostra vita. Il tempo è prezioso; non bisogna preoccuparsi di spenderne tanto se serve per agire nel modo migliore.
La giovane lumaca, dunque, desiderosa di scoprire cose nuove, non si accontenta di rimanere nel prato dove vive, nel Paese del Dente di Leone, con le altre sue compagne lumache; caratterizzata da un fascino trascinante e da una forte tenacia, decide di iniziare un cammino per scoprire, specialmente, le ragioni di questa lentezza che, da sempre, caratterizza la sua specie animale. Si pone diverse domande e cerca di capire se stessa. La lumaca incontra un gufo un po’triste e una saggia tartaruga; si accorge che il suo prato è in pericolo. Torna indietro dalle sue amiche per intraprendere insieme a loro un viaggio verso la salvezza; scopre l’importanza del coraggio e della memoria per vivere bene il presente e per affrontare il futuro con responsabilità.

Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza è una favola molto bella per bambini e adulti che, con una sapiente semplicità, insegna l’importanza della ponderazione, della collaborazione, dell’altruismo e della riflessione e regala una morale spiegata con parole che, dolcemente, arrivano al nostro cuore.

Rosaria Andrisani

giovedì 25 dicembre 2014

"Mille bolle" di Rosa Bizzintino.

Mirto, alle prese con una sorgente fatata e un incontro indimenticabile, Cloe la gallina vanitosa, la capretta Belà e tanti altri personaggi. La fiaba per bambini, la favola della buona notte della tradizione, raccontata con la leggerezza di una giovane autrice. Per mamme, papà e i loro piccoli ascoltatori di racconti.