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venerdì 13 marzo 2015

La figura della donna nell’Antico Testamento, di Emma Fenu.


Nella tradizione veterotestamentaria sulla donna grava, triste eredità di Eva, la concezione di mezzo privilegiato di affermazione del male, di instrumentum diaboli, per colpa del quale l’umanità intera è precipitata negli abissi del peccato ed attende di essere riscattata dall’arrivo del Messia, in un tempo ancora non compiuto, anelato dal popolo di Israele e presagito dai profeti.


William Dyce, Giacobbe incontra Rachele al pozzo

L’Antico Testamento è ricco di figure femminili che incarnano la capacità di circuire l’uomo e fanno trapelare la paura della perdita della giusta via, indicata da Dio al popolo prediletto: dalla moglie di Putifarre, alle concubine del re Salomone a Dalila. Le sentenze dei Proverbi dipingono, nella vivacissima scena descritta nel settimo capitolo, un modello classico di seduzione femminile del quale urge mai fidarsi:

Ecco farglisi incontro una donna
in abito da prostituta e astuta di cuore,
turbolenta e proterva,
che non teneva piede in casa:
ora in strada, ora per le piazze. […]
Lei lo sedusse con le sue molte lusinghe,
lo trascinò con la dolcezza delle sue labbra.
Egli le andò dietro subito,
come un bue va al macello,
come uno stolto è condotto ai ceppi che lo castigheranno,
come un uccello si affretta al laccio,
senza sapere che è teso contro la sua vita,
finché una freccia gli trapassi il fegato.
Or dunque, figlioli, ascoltatemi,
state attenti alle parole della mia bocca.
Il tuo cuore non si lasci trascinare nelle vie di una tale donna;
non ti sviare per i suoi sentieri;
perché molti ne ha fatti cadere feriti a morte,
e grande è il numero di quelli che ha uccisi.
La sua casa è la via del soggiorno dei morti,
la strada che scende in grembo alla morte”.
Proverbi 7, 10-27


L’anonimo redattore del Libro di Qoèlet paragona la donna al laccio del cacciatore, ossia ad una trappola che può imprigionare l’uomo per tutta la vita; nel Libro del Siracide la questione si amplia ancora di più e l’autore ammonisce i maschi affinché non rivolgano neppure un fugace sguardo alle donne, perché esse, capaci di accendere il fuoco ardente della concupiscenza, causano la caduta del giusto.


Gustav Klimt, Giuditta I

Descrivendo Dio come un’entità maschile, e invocandolo con gli appellativi, prettamente virili, di Re, Maestro, Capo degli eserciti, Giudice, Padre e Sposo d’Israele, la società giudaica aveva elaborato un mito sociale fondato sulla supremazia del maschio. La donna era esclusa dai precetti positivi della Legge (quelli che esordiscono con la formula “tu devi”) che fondavano lo statuto religioso dell’israelita, ma, in compenso, era destinataria di numerosi precetti negativi. I suoi obblighi erano soprattutto vincolati alla condizione d’impurità, che la rendeva appartenente un gruppo separato non solo nel Tempio, ma anche nelle abitazioni private. Tale impurità era legata principalmente al tabù del sangue, in quanto riguardava i periodi del ciclo mestruale e del puerperio. Ma, in realtà, le donne erano sempre “contaminate”, poiché l’atto sessuale, che metteva in condizione di impurità anche il maschio, per le donne si inseriva nei periodi “puri”, dato che non era lecito avere rapporti intimi durante il ciclo. Eppure, l’Antico Testamento, non solo attraversato da forti correnti misogine, è costellato di figure femminili straordinarie: donne bellissime e coraggiose, profetesse, regine e matriarche: nei momenti di crisi, che investirono la storia del popolo d’Israele, uomini e donne tornarono a condividere l’uguaglianza dell’Eden. La subordinata condizione in cui la donna era relegata non escludeva, pertanto, che essa fosse oggetto d’amore o di rispetto: specialmente se aveva figli maschi e sapeva imporsi abilmente, godeva di autorità e prestigio considerevoli.

Una donna perfetta chi potrà trovarla?
Ben superiore alle perle è il suo valore.
In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
Essa gli dà felicità e non dispiacere
per tutti i giorni della sua vita”.
Proverbi 31, 10-12

Alla luce di un confronto storico-etnologico, bisogna considerare che la donna è stata più onorata presso gli Ebrei che presso altri popoli dell’antichità: non le era sempre imposto di coprire il viso con il velo e le era consentito di essere parte attiva nelle feste pubbliche.

Nell’ebraismo, inoltre, la femminilità e la sessualità non conobbero mai il marchio dell’infamia, ma, al contrario, la “necessità” del matrimonio, con la conseguente condanna radicale del celibato o della vita monastica, viene spiegata fin dal racconto della creazione: se l’adam è stato creato maschio e femmina, la perfezione si realizza nell’incontro della moglie e del marito. Inoltre l’unione dell’uomo e della donna ha sempre avuto, nella tradizione ebraica, un’altra finalità fondamentale: attraverso di essa è messa alla prova l’alleanza, cioè il legame instauratosi, dopo la creazione, tra Dio e l’essere umano. Di conseguenza, il rapporto coniugale divenne, all’interno del discorso profetico, la metafora principale del rapporto tra l’umano e il trascendente. Anche il Cantico dei Cantici, secondo una delle varie interpretazioni, ricorre alla espressione figurata della relazione amorosa per descrivere il rapporto d’Israele con la Divinità.

Emma Fenu

domenica 28 dicembre 2014

ISABELLA SANTACROCE e la sua TRILOGIA. Recensione di Mary Skellington Greenwood.




Qualche giorno fa, sono tornata con la mente a qualche anno indietro, quando mi sono imbattuta in una trilogia scritta dall’autrice italiana Isabella Santacroce.

Ahimè, non è una scrittrice alla portata di tutti: non perché non sia facilmente leggibile poiché tutto, se ci pensate bene, lo è.
In fondo, leggere significa assemblare lettere che danno vita a parole che danno vita a un discorso.
Tuttavia, credo che la sua scrittura sia di difficile interpretazione, o digeribilità.
E’ una di quelle autrici che non pensi oggettivamente “è brava” o “non è brava”.
Lei, LA AMI o LA ODI.
E io, nonostante alle volte la trovo di una pesantezza unica (non nei temi, quanto nel COME li affronta), LA AMO.

Oggi, mi ritrovo a pensare a questa trilogia composta da “VM18″, “LULU’ DELACROIX” e “AMORINO”.
Tre libri diversissimi tra loro, che possono essere letti senza un ordine ben preciso o senza ordine di uscita, ma che mantengono tra loro un filo logico.
E certe metafore e figure che ritornano, sempre.
Ma andiamo con ordine.

Con VM18 del 2007, Isabella Santacroce inaugura la trilogia dantesca cosiddetta “Desdemona Undicesima”.
Il primo romanzo della trilogia, che dei tre romanzi rappresenta l’Inferno, libro che segna un’ulteriore svolta nello stile narrativo della Santacroce.
Nel 2010 esce per Rizzoli la seconda parte della trilogia (il Paradiso) Lulù Delacroix, romanzo-fiaba che sfiora le 500 pagine.
Nel 2012 Bompiani pubblica il suo nuovo romanzo Amorino, il terzo e ultimo della trilogia “Desdemona Undicesima” (il Purtagorio).
(cit. Wikipedia)

VM18

TRAMA

Siamo all’interno di un collegio femminile dove l’animo esteta, instabile e rasente la pazzia di Desdemona affiancata e appoggiata dalle sue due vallette, altrettanto perverse, Cassandra e Animone, da vita ad un cruento gioco del destino.
Un insieme di crimini, orge e perversi giochi di inclinazione demoniaca.
C’è un giuramento, un manifesto al quale tutte e tre le ragazze sono fedeli ed è il Manifesto delle Ninfette ed è attraverso questa lista che le tre spietate ragazze commettono atti osceni verso chiunque non sia idoneo o degno di umanità.
Secondo loro ovviamente.

Che dire, dei tre libri è sicuramente quello più pesante e angosciante, non a caso rappresenterebbe l’inferno dantesco.
Le immagini che arrivano sono invadenti e molto forti a tratti anche troppo esasperate.
Mirate sicuramente al fastidio.
Si, questo libro provoca fastidio.
A tratti anche esplicitamente blasfemo, mirato probabilmente ad urtare certi tipi di sensibilità.
Si legge benissimo, se non fosse che alcune immagini cruente che passano per la mente accompagnate dall’angoscia della scrittura, portano a chiudere il libro per un po’.
Quasi come a voler fare una pausa.
Una pausa da tutta questa crudeltà.

Il libro presenta 491 pagine e può essere acquistato a 17,50€, con copertina morbida.

LULU’ DELACROIX



TRAMA

Lulù Delacroix è una bimba calva abitante la città di Perfect City, dove tutte le bambine sono belle e bionde.
E’ nata in una famiglia che all’inizio l’amava moltissimo, finché era piccola, ma una volta accorti che non cresceva uguale alle altre bambine, tutti provano un senso di repulsione e paura per questa bambina, che in realtà è dolcissima e pronta a tutto.
E’ spesso oggetto delle torture delle sue due sorelle gemelle, perfette e biondissime, bellissime, ma allo stesso tempo crudeli, che fanno di Lulù una vera e propria bambola da torturare e prendere in giro, dando così verità alla tesi sostenuta che i bambini, quando vogliono, sanno essere molto cattivi. Specialmente da piccoli.
E’ una bambina che vive praticamente segregata in casa poiché la famiglia si vergogna di mostrarla (e non possono tra l’altro mostrarla al mondo!), quindi la piccola cresce parlando da sola, con amici immaginari di cui una è niente popò di meno che Emily Dickinson con cui instaura una corrispondenza mediatica.
E’ verso la metà del racconto che cominciano le avventure della bambina, che con l’aiuto dei personaggi più divertenti e strani, come il ragno Tenore o la bambola di pezza Mimi, senza un’occhio e senza un braccio, con la quale lei parla dopo averla raccolta ad una festa e avendola in qualche modo “salvata” da un destino crudele, dovrà raggiungere il regno del Mistero dove sconfiggerà il pregiudizio.


Lulù Delacroix rappresenta il paradiso dantesco.
Questo libro, è quello dei tre che mi è piaciuto di più.
Mi rappresenta, non tanto nel fantastico mondo che affronta e nei personaggi di cui la piccola si circonda, quanto più per il tema trattato.
Il pregiudizio.
Chi di noi non è mai stato vittima del pregiudizio?
Io stessa, ragazza rotonda dai capelli verdi, le orecchie piene di pearcing e tatuata sono spesso collocabile nella categoria degli scansafatiche o dei drogati, mentre in realtà lavoro, scrivo e sto anche per conseguire una laurea.
In tutto ciò, credo che il tema trattato all’interno di queste pagine sia molto attuale, e le immagini riconducibili benissimo ad un Alice nel paese delle meraviglie di Carrol, me l’ha fatto gustare ancora di più.
Ho letto recensioni contrastanti su questo libro: alcuni lo apprezzano, altri lo trovano deleterio.
Ma i gusti son gusti, insomma.

Il libro presenta 467 pagine e può essere acquistato a 18€, con copertina morbida.


AMORINO



TRAMA


Minster Lovell, austero e nebbioso paese della campagna inglese, 1911.
Le sorelle gemelle (strano!) Albertina e Annetta Stevenson ereditano un cottage vittoriano dalla morte dei genitori, avvenuta per cause sconosciute. Entrambe vestono allo stesso modo, tanto che è quasi praticamente impossibile riconoscerle. Entrambe bellissime, ma dal temperamento schivo, tendente all’isolarsi dal resto del mondo. Sarà il parroco del villaggio, Padre Amos, ad attirarle nella quotidianità e nella società del paese, affidando loro la direzione del coro della chiesa, Amorino, poiché una organista e una insegnante di canto.
Ma nella notte, quando tutto sembra assopirsi e rasentare la calma, si odono lamenti lontani, quasi urla.
Chi sono queste due gemelle? E perché questi lamenti sono cominciati proprio con il loro arrivo?




Amorino rappresenta il purgatorio dantesco.
Lascio a voi, ovviamente, la risposta, nel caso vogliate leggere questo libro.
Dei tre è quello che mi è piaciuto meno, forse perché dopo tutta questa premessa sulla trilogia del secolo, mi aspettavo che il finale fosse diverso, o forse non era incline con le mie corde nel periodo in cui l’ho letto.
Fatto sta, che dei tre libri è quello che mi è piaciuto di più per lo stile.
Un libro scritto a punti di vista, come una sorta di diario giornaliero in cui sette anime, sette pensieri danno adito a angolazioni differenti della storia: Annetta e Albertina, che condividono un terrore grandissimo; Padre Amos, pedofilo; Bernardina Green, ragazza che cresce brutalmente per mezzo della violenza; Margaret Green, donna dall’incrollabile fede che pensa di Padre Amos che sia una creatura celestiale e sarà proprio lei a spingere nelle braccia del pedofilo la giovane figlia, ovviamente ignara della perversa inclinazione del parroco; Dott. Thompson, medico del villaggio che riversa le sue frustrazioni sul sesso; e infine, lei, Isabella, misteriosa scrittrice arrivata in paese per smascherare quelli che sono i dubbi che ci accompagnano per tutta la storia.
Ecco una delle cose che ho adorato: lei, la scrittrice, che diventa personaggio e spalla per la risoluzione dei misteri.
E non da protagonista, badate bene.
Il finale non da una vera e propria conclusione alla storia, ecco perché non mi ha del tutto soddisfatta.
Il libro presenta 330 pagine e può essere acquistato per 17,50€, con copertina morbida.


Chi dice che Isabella Santacroce, non sa scrivere, è rimasto all’era dei Manzoni e dei D’Annunzio (niente da dire eh, per carità! Loro sono sui libri di storia, io a scrivere articoli su un blog!), ma tra il dire “non sa scrivere” e il “non è di mio gradimento”, c’è un abisso immane.
Ecco perché una possibilità a questa scrittrice, ormai oltrepassata la soglia dei quaranta, una possibilità è bene darla.
Perché nel nostro secolo, se vogliamo parlare di letteratura, non possiamo affidarci ai Volo e Moccia del caso, no?

E voi?
Avete letto qualcosa di questa autrice?
Se avete letto la trilogia, cosa ne pensate di questa Divina Commedia in stile Santacroce?


Mary Skellington Greenwood
tratto da http://snidgetphoenix.wordpress.com/2014/06/12/isabella-santacroce-e-la-sua-trilogia/

venerdì 26 dicembre 2014

IL CORPO NUDO DELLE DONNE NELL’ARTE FRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO, di Emma Fenu.




Passano i secoli. Variano le ideologie, le forme di governo, i riferimenti culturali, le strategie di comunicazione. Si evolve il concetto di donna e il ruolo che le è proprio nella vita, nel mondo e nella Storia.

Ma l’interesse per le immagini di nudi muliebri, opere di innumerevoli pittori prima e fotografi poi, resta: mutano solo le proporzioni e le pose delle membra, i tratti del viso, la rotondità o la spigolosità delle forme.

Da sempre i corpi femminili sono non solo carne e sangue, ma strumento privilegiato per veicolare precisi messaggi, ammirati per le fattezze ma anche “territorio” in cui uomini hanno combattuto guerre e stipulato paci, dallo ius primae noctis fino agli stupri di guerra.

Seguitemi, ancora una volta, lungo i corridoi labirintici di musei nei quali vi conduco, invitandovi ad osservare i dipinti di bellezze desnude, realizzati nel corso del Medioevo e del Rinascimento.

Non si trattava solo di meri esercizi pittorici e di mero gusto estetico.


La Donna era un oggetto, non un soggetto: un oggetto idealizzato, pregiato, sofisticato e sfuggente, oppure minaccioso, eccitante, pericoloso e demoniaco. Ma, comunque, per definizione, un oggetto che, perché temuto, doveva essere sradicato da tutto ciò che non apparteneva alla sfera dell’irrazionale.

Le “figlie di Eva” sembravano trascinare con sé una condanna segreta: la maledizione di essere incomplete e, pertanto, di dover essere relegate ad una vita dedicata alla famiglia, alla maternità, alla consolazione e all’amore, quest’ultimo solo se nobilitato nel sacrificio e non nell’eros.

I valori maschili, patriarcali erano, al contrario, dominanti, perché connessi alla razionalità del Logos, da cui storicamente è derivato il potere.

L’essenza di tale prototipo del femminile, non percepibile nella sua interezza, si parcellizza in epifanie circoscritte, come un raggio di luce che attraversa un cristallo prismatico. Le immagini figurative ne sono divenute la rappresentazioni collettiva.


In età medievale, a seguito della diffusione della cultura derivata dal Cristianesimo, il corpo venne intenso come sacro tempio dell’anima, che doveva essere, ad ogni costo, preservato da impulsi carnali, forieri di grave peccato al cospetto di Dio.

Eppure gli impulsi continuavano ad esserci. Bisognava cercare un colpevole. Meglio UNA colpevole: la Donna, che sovente, nel periodo, personificava l’allegoria della Lussuria e, perfino, Satana, attraverso il ricorso ad una nudità cruda e morbosa che indugiava nella raffigurazione dettagliata degli attributi sessuali.

Nella donna, in colei che dischiuse il vaso di Pandora e offrì il frutto proibito, tutti i mali del mondo, in primis la morte, trovavano risposta e collocazione.

Soffermiamoci sui dipinti che ritraggono la progenitrice: Eva, prima della colpa, non conosce il pudore ed espone ingenuamente la nudità dei suoi seni acerbi da adolescente e la sua pancia, in cui non vi era stata contaminazione alcuna. Tuttavia, sovente, nella mano destra già impugna, se pur ancora inconsapevole delle irreversibili conseguenze, il pomo da cui la nostra Storia di esseri contingenti prese avvio, strappandoci, con morso, all’abbraccio dell’assoluto.


Poi, tutto sarebbe cambiato. Tutto.

Il Signore chiede ad Adamo: “Chi ti ha fatto conoscere che eri nudo? Non hai forse mangiato dell’albero che ti avevo proibito di mangiare?”. E Adamo risponde: “È stata la donna che mi hai dato per compagna che mi ha presentato del frutto dell’albero ed io ne ho mangiato“.

Genesi, 3, 11-12


Dopo la cacciata dall’Eden, la nostra progenitrice, ormai dannata, è dipinta dai tratti compendiari di Masaccio mentre, ben conscia della vergogna delle proprie carni colpevoli, si presta a celare pube e mammelle, mentre Adamo si limita a portarsi una mano al volto.


La donna, pertanto, era ritenuta complice del demonio, in quanto bruciante di incontrollabile passione e desiderosa solo di sedurre l’uomo per traviarlo, ancora una volta, ancora mille altre volte. Sarà la Madonna, una madre Vergine nata senza l’onta infamante del peccato originale, infatti, a schiacciare la testa del serpente, prima tentatore e, in seguito, complice di Eva.

Tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, i canoni della bellezza femminile cambiarono radicalmente. Si passò da figure muliebri pallide, diafane, dai seni appena accennati, a dame in carne, con fianchi larghi, candide curve generose, e visi dalle labbra e dalle gote pittate di vermiglio.

La maggior parte dei committenti e degli artisti del tempo non erano certo immuni al fascino delle fattezze delle donne e sfruttarono i soggetti sacri come un pretesto per eccitare la sensualità.

La nudità, in ambito cristiano, divenne, così, sempre più ambivalente: sia emblema della santità, della purezza e della mortificazione del proprio corpo, sull’esempio di Cristo sulla croce; sia simbolo di lussuria e lascivia.


Solo nel XVI secolo esordì il nudo con valenza impudentemente erotica, anche se accettato solo in quanto riconducibile ad una precisa allegoria o alla riproduzione figurativa di episodi mitologici.

Tuttavia, le figure femminili non furono più neoplatoniche espressioni del divino, quali la celeberrima Venere di Botticelli, un’asessuata creatura celeste, dalle linee geometriche perfette, che sdegna l’agitarsi tumultuoso delle umani e basse passioni, o le prestanti figure, sovrumane e distanti, dai tratti di matrice classica, che si devono al genio di Michelangelo.

Ed ecco, quindi, l’apparire di donne vere, come la Venere di Urbino, opera di Tiziano: una fanciulla immersa in un’atmosfera densa di colori caldi, con uno sguardo languido e un’espressione di beata sonnolenza, che pare formulare un dolce invito all’astante.

Non dimentichiamoci che è necessario imparare il linguaggio dei simboli iconografici di una data epoca, per dare parola alle opere d’arte.

Se veniamo invitati in casa di meri conoscenti, il marito potrebbe mostrarci le foto della sua consorte, magari un primo piano o uno scatto che la ritrae durante una vacanza. Ma se esibisse un’immagine in cui la donna disvela un seno, riterremo il comportamento insolito.


Nel Rinascimento, invece, il gesto femmineo appena citato non aveva una valenza erotica paragonabile a quella attribuitagli nei nostri giorni.

Circa 28 anni prima dell’opera di Tiziano, precisamente nel 1506, Giorgione ci fornì uno dei primi esempi di ritratto di una fanciulla che, con grazia, discosta la camicetta e mostra un seno scoperto. Non si tratta dell’effige di una meretrice né di una cortigiana, bensì di quella di una promessa sposa, probabilmente di alto lignaggio, che esprime, in tal modo, le sue doti di virtù e castità e la sua intenzione di addivenire ai propri doveri di madre.

Esporre una sola mammella era, pertanto, un esplicito riferimento alle Amazzoni, che secondo il mito, si univano sessualmente agli uomini solo per generare figli, non per assecondare sconvenienti voglie e basse pulsioni erotiche. Niente di pericolosamente sensuale, dunque, in tali immagini più volte reiterate, ma un sottomesso adeguarsi al proprio ruolo sociale di moglie.

Chi scorge una differenza tra spirito e corpo non possiede né l’uno né l’altro”.
Oscar Wilde

Emma Fenu

giovedì 25 dicembre 2014

"Mark Twain, siamo figli e figlie di Adamo ed Eva", di Emma Fenu.



E’stata scritta nel lontano 1883, eppure è, ancora, estremamente attuale.

Lui e Lei.

Lei che parla in continuazione; lei che è curiosa e che si pone in relazione con il mondo dando i nomi a tutto, come si fa per i figli generati; lei che non cerca mera utilità pratica nel mondo, ma ne coglie la poesia; lei che infrange le regole e sovverte il monotono svolgersi degli eventi; lei che esige spiegazioni; lei che vive di emozioni e sa perfino piangere senza pudore.

La storia sembra una fra le tante, fin troppo stereotipate, che popolano caterve di romanzi e saggi. E, soprattutto, sembra una scena, a variabile minima, che a molti è capitato di vivere, assai spesso, fra le mura domestiche, seduti sul divano, davanti ad una partita di calcio trasmessa in tv.

Ma questa è la prima storia, e i protagonisti sono Adamo ed Eva, descritti con ironia e sagace analisi dei ruoli, ma anche con romanticismo puro e non melenso, da Mark Twain.

Non cercate nel loro immaginifico "Diario" verità assolute, siamo entità uniche e distinte, a prescindere dalla sequenza dei cromosomi. Cercatevi, invece, quei caratteri universali che, almeno per alcuni versi, accomunano chi condivide lo stesso sesso e lo svolgersi del continuo e proficuo, ma talvolta difficile e perfino buffo, tentativo di comunicazione fra l’universo femminile e quello maschile.

Si è messa a supplicarmi di smettere di andare alle cascate. Ma che male c'è? Dice che è una cosa che la fa stare in pensiero. Mi domando perché; l'ho sempre fatto, mi è sempre piaciuto tuffarmi per l'emozione e per quel fresco che mi procurano. Immaginavo che le cascate servissero per questo. Non hanno nessun'altra utilità, secondo me, eppure devono essere state fatte per qualche cosa. Lei dice che sono state fatte soltanto per il panorama, come i rinoceronti e il mastodonte”.
Dal diario di Adamo.


Copenhagen, dove vivo, e Malmö distano 45 minuti di treno. Si attraversa il ponte e si raggiunge la Svezia. Spesso io e Pietro ci andiamo per concederci una passeggiata, durante la stagione più clemente o durante le festività natalizie.

L’ultima volta che vi ci siamo recati, circa un mese fa, io avevo da poco scritto un saggio di scrittura creativa inerente allo stilare la propria autobiografia. Seduti attorno ad un tavolino, all’aperto, intenti a gustare una bistecca e a sorseggiare una birra, gli ho chiesto di espormi la sua storia, come se si trattasse della propria biografia. Ha iniziato a raccontare. Se la è cavata non male, lo ammetto: è stato bravo.

Scoperto che il rettile sapeva parlare, ricominciai a provare interesse nei suoi confronti, perché io adoro parlare. Parlo tutto il giorno, parlo anche nel sonno, e dico cose molto interessanti”.
Dal diario di Eva.


Ovviamente attendevo, simulando calma e disinteresse, il momento in cui io sarei entrata in scena, nel lo svolgersi del suo racconto. Ho pesato con circospezione ogni sua parola, pausa, gesto, sospiro. Si trattava di un esame spietato, credo che per entrare nel corpo dei marines siano più flessibili.

Poi sei arrivata tu e tutto è cambiato”, ha sentenziato, “hai cambiato il mio mondo, con la tua irrazionalità. E mi sono meravigliato che una persona così fragile fisicamente possedesse tanta caparbietà e tanta abilità nel trovare sempre una soluzione”. Pausa.

Ho cercato di tirare giù dall'albero qualcuna di quelle mele, per lui, ma non mi riesce di imparare a tirare come si deve. Non ce l'ho fatta ma penso che le mie buone intenzioni gli abbiano dato piacere. Sono mele proibite. Dice che mi metterò nei guai; ma perché preoccuparmene se è per compiacere lui che vado a finire nei guai?”.
Dal diario di Eva.

Io gongolavo, lo confesso. Lo conosco abbastanza per sapere che era ignaro di quanto un solo monosillabo non mi sarebbe sfuggito. Aveva parlato per almeno un’ora, lui, che, di solito, non supera i quindici minuti continuativi: non era più in grado di erigere barriere.

Una seconda pausa e poi, in un soffio: “Mi gatita juguetona”.

Chi io??? Gatta sì, non c’è animale che adori di più, ma giocherellona…speravo in un aggettivo più consono ad una donna adulta. Invece, riflettendoci, ha ragione: io ho scoperto, proprio con il passare degli anni, la bellezza del gioco, della vita come scoperta, come sfida in cui l’importante è partecipare e non restare in panchina, per tornare poi a casa, ogni giorno, con le guance arrossate, un ginocchio sbucciato, un abbraccio complice a seguito di una strategia di squadra, una stretta di mano all’avversario, se leale, e una nuova tecnica appresa.

Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere”, scriveva John Gray, alcuni anni orsono. Ma si incontrano sulla terra, per amarsi, completarsi e ritrovarsi.

Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. […]Allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene”.
Platone, Simposio.

Emma Fenu

mercoledì 24 dicembre 2014

La pedofilia vista “dall’orco”: intervista all’autrice di “Prima che cali il silenzio”.

La pedofilia vista “dall’orco”: intervista all’autrice di “Prima che cali il silenzio”
Laura Scanu ha tentato un’impresa che pochi altri, oltre a lei, hanno – sicuramente o probabilmente – tentato: quella di scrivere un libro sulla pedofilia dando voce a “lui”, il pedofilo. Nella vita fa la maestra, ha una laurea in Scienze Politiche e Relazioni internazionali all’Università di Perugia e due figlie ed un marito che tifano per lei. Ma quanto all’idea di scrivere una storia – Prima che cali il silenzio (Ed. Laura Capone) – su un tema tanto delicato e sul percorso che vi è nato attorno, l’intervista di Ladyo è quanto è servito per chiarirlo:

Com’è nata in lei l’idea di scrivere un libro su questo tema? Nel 2007 ha scritto un altro libro su donne e mafia: cosa la spinge a trattare e occuparsi di questi temi delicati?

Sono un’insegnante e vivendo ogni giorno in una piccola società, come la classe, non posso non sentirmi coinvolta. Scrivere di pedofilia, dopo averla tante volte incontrata negli occhi dei bambini, è stato un obbligo morale. Ne ho voluto però parlare dando voce al pedofilo non certo per enfatizzare questa figura, ma anzi per conoscerla meglio e poterla combattere in modo più cosciente. Senza giudizio, senza pietà, ma soltanto perché attraverso una conoscenza più completa si può combattere e soprattutto prevenire.

Del libro si è discusso anche all’interno di scuole e carceri: quali reazioni/commenti/pareri ha suscitato la cosa nei partecipanti al dibattito, in entrambi i contesti?

Una volta, in una scuola, un ragazzo piuttosto arrabbiato, si è alzato e mi ha chiesto: “Ma se un pedofilo avesse violentato sua figlia, lei cosa avrebbe fatto? Avrebbe ancora cercato di vedere il suo punto di vista?”. Un’altra volta, a Regina Coeli, un uomo mi ha detto: “Io la soluzione ce l’ho e costa anche poco, due euro, il costo di una pallottola!”.
Domanda legittima la prima, meno la seconda soluzione: non riporto le mie risposte perché lascio aperto a voi il dibattito e perché l’unica cosa è parlarne senza far mai cadere il silenzio.

Cosa pensa della pedofilia, ragionando da mamma qual è?

Ho due figlie ormai grandi, ma ammetto che il problema è sempre stato un’allerta nella mia vita e vorrei lo fosse per ogni mamma, ogni donna e ogni persona che ama i bambini, quasi come un dovere sociale. Lo raccomando a tutti: attenzione sempre vigile e non solo per i nostri figli, ma anche per quelli degli altri. Se guardiamo i nostri piccoli negli occhi,potremmo leggere tante cose: parliamo con loro e dedichiamogli il nostro tempo!

Cosa l’ha colpita di più della personalità dei pedofili?

Non ho mai incontrato un pedofilo, o meglio nessuno di loro si è mai “confessato”; Al contrario ho conosciuto tante persone che mi hanno raccontato le loro esperienze e… credetemi, non è mai stato facile ascoltare il loro dolore e spesso la loro rassegnazione nel non essere compresi proprio dai familiari più vicini.

Crede che la legislazione (ma anche i servizi sociali) attualmente stiano svolgendo tutto quello che può essere fatto per il recupero di “vittime” e “carnefici”? O avrebbe nuove proposte?

Credo che qualcosa si sia fatto, anche ratificando la Convenzione di Lanzarote (sulla protezione dei minori dall’abuso e dallo sfruttamento sessuale, ndr), ma ancora molto va perseguito soprattutto all’interno del “privato” ancora troppo tutelato o spesso, peggio, ignorato.

Un messaggio per i lettori/lettrici di Ladyo?

Nel mio libro ho dato voce a Paola, la moglie del pedofilo, perchè sono convinta che alcune donne non possono non aver visto…e allora le imploro di non cadere nella trappola ricattatrice e di denunciare, denunciare sempre.
Alle vittime di abusi va il mio abbraccio e vorrei dire che nel libro io ho parlato delle vittime dell’Olocausto creando un ponte di dolore tra quello degli ebrei ed il loro: non a caso gli abusati sessualmente usano appellarsi “sopravvissuti”.

L’autrice ha scelto di devolvere all’ass. La Caramella Buona Onlus (www.caramellabuona.org) contro la pedofilia, i propri diritti d’autore per il sostegno delle finalità istituzionali perseguite dalla stessa.

Emanuela Zanardini 

"Elissa" di Franca Adelaide


"Quella strana angoscia … sempre la stessa. Cantare la stessa melodia
dell'acqua che scorre, sentirsi goccia tra le gocce e tra le gocce sentirsi
all'unisono con quella più splendente, quella che ha la lucentezza
dell'iride.
Fondersi e poi allontanarsi, non sapere perché e cosa voglia dire
quell'attimo in cui (solo per poco) due vite s'intrecciano per poi
slegarsi, allontanarsi e non riconoscersi più.
Un addio che non è un addio perché non si può scindere ciò che non è
mai stato legato.
E allora pensi al fiume e alle sue acque e alle sue gocce, tutte uguali,
che non hanno avuto bisogno di scegliersi per stare insieme e, tuttavia,
stanno legate, con una forza tenace e ovvia. Mai si scinderanno perché
mai qualcosa le ha unite, fosse anche una volontà esterna. Unite per
sempre perché da sempre legate indissolubilmente.
Ha una fine tutto ciò che ha un inizio. E' così, secondo la legge di
questo fragile mondo.
Ce ne andremo separandoci ancora con l'illusione di essere stati uniti
come gocce d'acqua di fiume.
Non siamo come l'acqua - pensava Elissa - capace di diventare fiume,
cascata, pioggia; di trasformarsi ogni volta e ogni volta, tuttavia,
rimanere acqua.
Noi, siamo acqua speciale, che in sé riconosce la goccia, le infinite
gocce di cui è composta. Incapace di essere fiume, lago o cascata.
E così le tante gocce si legano nell'illusione di una coesione. Che,
tuttavia, cede ben presto.
E allora soffriamo il distacco, soffriamo la separazione, senza capire
che non c'è mai stata vera fusione.-
Elissa non voleva ritornare a casa. L'idea stessa le ripugnava. Piuttosto
avrebbe aspettato l'alba lì dove adesso si trovava. Prima o poi, vinta
dal sonno, si sarebbe addormentata".

Franca Adelaide, Elissa.

I TRE VOLTI DELLA LUNA, di Emma Fenu.



Era ormai buio quando la donna smise di parlare. Rimasero lì a guardare insieme la luna che sorgeva.
«Molte delle cose che mi hai detto sono in contraddizione fra loro» disse lui.
Lei si alzò. «Addio» disse. […]«Chi sei?» le domandò lui.
Ma la donna si stava allontanando. Camminava sulle onde del mare, in direzione della luna che sorgeva”. 
Paulo Coelho


Adoro stare con il naso in su e gli occhi rivolti verso l’alto, ad interpellarmi su domande dalle infinite risposte e a trovare nei simboli il percorso per giungere, o almeno sfiorare per un tempo infinitesimale, le radici dell’essenza. Dopo i percorsi museali, vi invito, stavolta, ad attendere l’oscurità e ad ammirare la magica bellezza della luna. I miei sono articoli che fanno rischiare un torcicollo!

La Luna è l’archetipo del femminile per eccellenza, associata alla Donna fin dagli albori del tempo umano. Entrambe, infatti, hanno un ciclo di pari durata. La stessa etimologia della parola mestruazione rende ancora più palese tale atavico legame: essa deriva dal latino mensis, il quale, a sua volta, è in rapporto di discendenza con il termine greco Mene, ossia l’altro nome di Selene, che, scopriremo, a breve, essere uno dei volti del muliebre satellite. Ma non sono solo 28 giorni a legare Luna e Donna, sono millenni intessuti di miti, in cui ci si interroga sulla morte e sulla rinascita, sull’eclissarsi e sul ripalesarsi, graduale, sullo sfondo del cielo, sulla capacità insita e viscerale di donare la vita e sul potere occulto di rapirla.

È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, sé stesse e il destino”. 
Cesare Pavese

Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita. Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta. Che uno dice: è finita. No, finita mai, per una donna. Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole. […]Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti. Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te. Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa. Non puoi più essere quella di prima”. 
Jack Folla


Nella mitologia greco-romana, per la variabilità del suo aspetto, l’astro notturno è stato accomunato a tre distinte divinità, che ne personificano la triplice manifestazione: Luna piena, Luna crescente e Luna nuova. Ed ecco apparire la luminosa e potente Selene, il cui appellativo deriva da sélas, ossia splendore. Essa rappresenta la Grande Madre che nutre, protegge ed accoglie. Subentra, poi, l’enigmatica Artemide, la falce di Luna, che è simbolo di rinascita e di resurrezione. Secondo il racconto trasmesso dal mito, la dea venne alla luce per prima e assistette la madre, Latona, nel parto del fratello, Apollo: in virtù di ciò era invocata come protettrice delle donne incinta. Tuttavia, Artemide era una fanciulla indomita, regina dei boschi e dedita alla caccia, intenta a preservare la propria verginità. E, infine, si lascia spazio ad Ecate, la Luna nera, poiché in congiunzione con il Sole, quindi eclissata: è la figura più ambigua e magnetica, che rappresenta la morte apparente, pronta a ricevere i semi di una nuova vita. Ad essa si rivolgono, infatti, le streghe, i cui arcani poteri trascendono, talvolta, il comune flusso degli eventi.


"La luna e la donna hanno molte facce da mostrare”. 
Proverbio cinese

Dagli abissi, senza tempo e spazio, del Mito, alla Storia, e allo snodarsi dei cicli nello scorrere delle epoche, il passo è, paradossalmente, breve. Le tre personificazioni divine, infatti, coincidono con le tre fasi della vita di una donna, scandite dalla presenza o meno del sangue che ne svela la fecondità del ventre: la pubertà, la maternità e la menopausa.

Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno”. 
Mark Twain

Tuttavia, questa tripartizione non si limita al secreto delle viscere, ma si estende, prepotentemente, alla realtà sociale per determinare, in tempi passati (ma forse non troppo dimenticati), i ruoli che alla femminilità competono, quelli di virgo, mater e vidua, ossia vergine, madre e vedova. Quest’ultima è una figura pericolosa, se non sottomessa all’autorità di un altro maschio che eserciti su di lei fermo controllo, svolgendo le veci del marito defunto. La luna nera è emblema dell’anziana, ma anche immagine della strega, della ribelle donna di cultura, dell’indecifrabile poetessa e, soprattutto, è epifania della tanto temuta parte irrazionale che è in tutti noi, a prescindere, dalla sequenza dei cromosomi.


Dalle notti trascorse sotto il manto stellato della dea Iside, vi riporto nelle sale museali. Pochi passi, molti meno di quanti si possa presumere. Attraverso un approccio iconografico con le opere d’arte, infatti, potete cogliere, nelle muliebri figure ritratte, palesi assimilazioni con i tre volti della luna, in primis Eva, Maria e Maddalena: rispettivamente la vergine nell’Eden, l’erede della Dea Madre e, infine, colei che è l’enigma mai risolto, la donna che annuncia la risurrezione di Cristo per prima, senza che un maschio la conduca per mano. Le teofanie della Luna nera sono plurime, una moltitudine di ammalianti creature colte nella loro bipolarità e nel tentativo di soluzione delle antitesi, in cui il ricordo e il presagio di verità dai confini oscuri si palesa come un vortice, nel risultato frutto dell’uso magistrale di pennelli e scalpelli. Lasciamo, ora, l’onore di essere protagoniste indiscusse alle sirene, gli esseri teriomorfi più affascinanti, di cui, a lungo, si è scritto.

Alle Sirene giungerai da prima,
Che affascinan chiunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca”. 
Omero, Odissea


Le prime raffigurazioni le ritraggono come metà donne e metà uccelli, osmosi sublime di terra e cielo, ma, verso il II secolo d.C., assumono fattezze tratte dai pesci, mostrandosi perfino “scille”, ossia a due code, al fine di ostentare la propria sessualità, e, soprattutto, di riprodurre i profili dell’Omega, l’ultima lettera dell’alfabeto greco, la quale simboleggia la fine che contiene, però, stretta in sé, l’Alfa, ossia un inizio, una rinascita insita, come quella propria alla Luna. Durante il Medioevo, infatti, le sirene perdono i propri connotati prettamente solari, come l’oro dei capelli, e diventano entità lunari, capaci di immergersi nel buio degli abissi per risorgere, poi, alla luce della vita, assecondando l’eterno ritmo di un tempo ciclico, che accompagna il perimetro sferico della Luna piena.

La Luna, per colui che pensa in termini di eternità, è il fulgente ”memento mori” che Dio ripete ogni giorno alla “gran madre antica“. 
Giovanni Papini



Emma Fenu

CHI SIAMO


"Non son stata io, io in persona a levarmi questa mattina? Mi pare di ricordarmi che mi son trovata un po' diversa. Ma se non sono la stessa dovrò domandarmi: Chi sono dunque?". 

Lewis Caroll, Alice nel Paese delle Meraviglie




Salve, sono Emma.
Chi sono io? Una sintesi di note contrastanti.

In me si fondono, in una bizzarra alchimia, note contrastanti, grazie alle quali sono capace di reinventarmi sempre: sono sognatrice e ironica, idealista e consapevole, empatica e complessa, pragmatica e creativa. 
Nata e cresciuta respirando il profumo del mare di Alghero, ora vivo, felicemente, a Copenhagen. Ogni quattro o cinque anni, la mia vita subisce una vera rivoluzione: mi trasferisco in un nuovo paese. Ho vissuto, in precedenza, in Medio Oriente, in luoghi di estremo interesse culturale e storico, che mi hanno permesso di sentirmi "cittadina del mondo".
Sono laureata in Lettere e Filosofia e ho conseguito un Dottorato in Storia delle Arti. 
Scrivo per lavoro e per passione; insegno Lingua Italiana agli stranieri; tengo un Corso di Scrittura creativa; recensisco libri e intervisto scrittori; curo l'editing di saggi e romanzi; mi occupo di Storia delle Donne, di Letteratura e di Iconografia; collaboro per un Magazine online che si occupa di Cultura e Lifestyle. 



Ecco i miei blog ed alcuni siti per cui collaboro:
http://www.passionelettura.it/ 

Il mio sito web: