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lunedì 23 maggio 2016

"L'ISOLA DI SANTA MARIA DI NAZARETH" di Annalisa Fabbro

Ieri ho avuto l'occasione di visitare l'isola del Lazzaretto Vecchio a Venezia (Isola di Santa Maria di Nazareth).
È un'isola che fa parte della Laguna Veneta e si può raggiungere dal Lido di Venezia per mezzo di una piccola imbarcazione ed è visitabile solo accompagnati da una guida locale.
L'Isola del Lazzaretto Vecchio è un punto di partenza fondamentale per comprendere la storia di Venezia, è il primo lazzaretto della storia (ospitale destinato alla cura dei malati di peste) e resta a testimonianza dell'importante controllo di natura sanitaria delle merci e delle persone istituito dalla Repubblica di Venezia a partire dal 1423.
Il Lazzaretto sorge sulle fondamenta del monastero dei padri Carmelitani dove, accanto alla chiesa fondata nel 1249, già esistevano delle strutture destinate ad ospitare i pellegrini diretti in Terrasanta. 
La struttura ricettiva del Lazzaretto Vecchio, come riporta un documento del 1484, era costituita da un'ottantina di camere con 209 posti letto. 
Dalla seconda metà del 1500, e soprattutto dopo l'ultima epidemia di peste che colpí Venezia nel 1630/31 il Lazzaretto Vecchio, non ebbe più funzione di ospedale ma, come il Lazzaretto Nuovo, divenne luogo di contumacia marittima (quarantena per la disinfestazione delle mercanzie soprattutto provenienti via mare dal Levante).
Nelle aree circostanti recenti scavi hanno rinvenuto la presenza di grandi fosse comuni contenenti migliaia di sepolture di persone decedute a causa della peste. 
Il Lazzaretto Vecchio è di proprietà demaniale, nel 2008 venne completata una considerevole parte di lavori strutturali con l'intenzione di creare la sede del Museo Nazionale di Archeologia della Città e della Laguna di Venezia e dove poter finalmente presentare in modo filologico e unitario la moltitudine di reperti straordinari recuperati durante migliaia di ricerche archeologiche compiute in Laguna.
Il progetto purtroppo però fu abbandonato per la mancanza di fondi.
In questi anni, in attesa di nuovi finanziamenti, l'Isola ha rischiato nuovamente di finire nel degrado e nell'abbandono.
Dalla fine del 2013 la gestione è stata affidata, insieme all'Isola del Lazzaretto Nuovo, all'associazione culturale Archeoclub di Venezia (associazione non profit nata nel 1985 come sede locale dell'Associazione nazionale Archeoclub d'Italia) la quale oltre alla gestione dell'Isola si occupa della sua manutenzione: sta lavorando per la rimessa in sicurezza del luogo e per la riapertura, in collaborazione con altre associazioni, alla fruizione pubblica per la ripresa e il rilancio del progetto generale di polo espositivo e culturale.

ANNALISA FABBRO

venerdì 30 ottobre 2015

"VOGLIO FARE OMAGGIO ALLA SARDEGNA..." di Lina Mazzotti



Voglio fare omaggio alla Sardegna, una terra che non ho mai visto ma che amo tanto attraverso l'affetto e l'amicizia sincera di amiche che ho fino dalla mia infanzia.
Ho trovato nel web questa leggenda sulla creazione dell'isola e la trovo bella, anche per il fatto che sottolinea la bonta del popolo sardo.

Al tempo dei tempi, dopo aver dato vita alle varie parti del mondo, il Signore si accinse a creare un'ultima terra: la Sardegna.
Guardò nella sua grande sporta celeste, ma si accorse che a sua disposizione era rimasto solo un cumulo di grossi sassi. Ben poco per formare un'isola!
- Che posso fare con quest'arida materia? - si chiese il Signore perplesso.
Ma fu l'incertezza di un attimo. Tosto, radunate le pietre, Egli le sparse nel mare, e quando vide emergere le ultime le calcò col suo piede, calzato di un sandalo di fuoco. Si delineò così tra le acque la prima forma di Iknùsa, modellata in eterno dall'impronta divina.
L'opera di Dio, però, non era terminata: occorreva ancora qualcosa perchè potesse germogliare la vita tra quegli aridi massi.
Si rivolse allora alle altre terre già adorne di ogni meraviglia e, tolto qua e là da esse quanto mancava ad Iknùsa, lo sparse sulla base pietrosa dell'isola.
Così, Iknùsa si ammantò di aspetti talmente vari da non assomigliare a nessun'altra terra e, nello stesso tempo, da assomigliare a ciascuna di esse: rocciose barriere di monti arsi e dirupati, simili ad uno squallido paesaggio lunare, morbide ondulazioni di colli coronati di vigne e di agrumeti; vaste pianure fitte di impenetrabili foreste; luminose baie ospitali e ridenti; selvagge coste sferzate dall'assalto dei marosi; solitari altipiani e dolci conche ondeggianti di messi; ariosi pascoli e fresche oasi di palme...
Mancavano, ancora, le creature che la popolassero: animali ed uomini. Con un soffio Iddio li creò e già stava per riprendere il viaggio verso il cielo, quando lo trattenne un pensiero.
- Questa terra - Egli si disse - è troppo sola nello sconfinato silenzio delle acque. Come si comporteranno gli uomini?
Si tramutò, allora, in un vecchio mandriano e, sceso sull'isola, si avvicinò ad un gruppo di pastori, che stavano mungendo le capre sulla soglia di una capanna.
Appena lo videro, pur senza riconoscerlo, lo fecero entrare nella capanna e spartirono con lui il loro pane ed il loro formaggio, offrendogli così caldissima ospitalità.
- Tieni - gli dissero, - su ogni boccone spartito sta seduto un angelo!
Il Signore fu, naturalmente, assai commosso dalla semplice bontà di quegli uomini. Rimase a vegliare con loro e, per tutta la notte, raccontò fiabe e storie bellissime.
Quando, infine, spuntò l'alba, Egli si accomiatò. Avviandosi, però, verso il cielo sapeva di aver lasciato loro un dono meraviglioso: quelle fiabe.
Tramandate di padre in figlio, infatti, esse sarebbero state di conforto, nella solitudine, per gli abitanti dell'isola.

LINA MAZZOTTI

mercoledì 22 luglio 2015

"IL RE LEONE" di Marina Fichera



Il Re leone

Ex protettorato inglese nel sud dell’Africa, il Botswana è una delle mete più esclusive del Continente Nero e, forse, del mondo. Qui molti resort promettono l’adrenalinica avventura del safari fotografico – il cosiddetto game drive – abbinata al lusso sfrenato del mondo a cinque stelle.
In alternativa si può dormire nella savana, in campi tendati auto-montati, in cui si cucina da sé, senza alcuna protezione dagli animali selvatici se non il buon senso che impedisce di uscire dalla piccola tenda fino all’alba. 
Io ho scelto questa seconda opzione alternata ad alcune notti in lodge, non di gran lusso in verità. E’ il mio primo viaggio in nell'Africa Centrale e sono pur sempre in vacanza!
Dopo una prima notte in lodge, all’alba salgo sulla jeep e la mia avventura inizia. Sarà forse un po’ banale, ma nella savana ho come la sensazione di essere parte di un documentario, ma non lo sto guardando seduta comodamente sul mio divano, lo sto vivendo! É far parte di qualche cosa di più grande, più alto, è esser dentro la natura, è essere la Natura stessa.
Per cercare di avvistare gli animali che popolano la savana ci si muove all’alba o prima del tramonto, durante le ore diurne fa troppo caldo e tutto si ferma. Di giorno tutto è avvolto da un torpore che rallenta i ritmi animali e umani, ma al calare del sole la savana brulica di vita, in un equilibrio naturale che esiste da sempre e che è scandito quotidianamente dall’abbraccio della notte col giorno e viceversa.
Ci muoviamo alla ricerca di mastodontici pachidermi, tenere zebre, aggressivi ippopotami... Vaghiamo per molte ore tra la sabbia e i resti degli alberi distrutti dagli elefanti, con la voglia di vedere i grandi felini che popolano l’immenso altopiano africano: leoni, leopardi e i rarissimi ghepardi.
Dopo vari giorni di game drive non abbiamo ancora visto un leone maschio, la delusione si sta facendo largo tra di noi. E poi, finalmente, dopo aver quasi abbandonato ogni speranza, accade ciò che tutti aspettavamo. La nostra valida guida avvista qualcosa, sale sulla jeep per guardarsi intorno e decide di fare un fuori pista - teoricamente vietato nei parchi nazionali - per portarci a pochissimi metri da tre leoni maschi che giacciono sdraiati nella savana a riposare. Mi chiedo ancora oggi come abbia fatto a vederli! Ci avviciniamo lentamente, girando loro intorno. A un certo punto sono davanti a noi, a meno di tre-quattro metri e quando uno si gira per guardaci intensamente e si alza, tutti trattengono il respiro per un attimo interminabile. Siamo lì, in una jeep aperta e se i tre decidessero di fare un balzo potrebbero essere davvero guai. Fortunatamente i leoni maschi sono animali pigri, ci osservano, sbadigliano e si rimettono a sonnecchiare. E noi, dopo che una scarica di adrenalina ci ha attraversato da capo a piedi, riusciamo a tirare il fiato! 

testo e foto di Marina Fichera


giovedì 16 luglio 2015

"SULLA VIA DELLA SETA, IN UN VIAGGIO IN UZBEKISTAN" di Marina Fichera



Care amiche oggi vi porto sulla Via della Seta, in un viaggio in Uzbekistan!

La Via della Seta, la lunga strada commerciale che ha collegato per centinaia d’anni Occidente e Oriente, ha da sempre esercitato su di me un potente fascino, in un misto di esotismo e avventura, complici anche le storie di Marco Polo e dei moderni esploratori del XIX e XX secolo, tra cui ricordo Ella Maillart, Aurel Stein, Paul Pelliot - che hanno avuto la fortuna di vivere in un’epoca in cui era ancora possibile viaggiare per scoprire nuovi mondi. Io la sto ripercorrendo a tappe, con il sogno di riuscire, prima o poi, a fare un unico viaggio via terra, da Venezia a Xi’an.
continua su:

http://sognaparole.blogspot.it/…/uzbekistan-sorrisi-lungo-l…

mercoledì 8 luglio 2015

"NEL PROFONDO NORD" di Marina Fichera



Nel Profondo Nord

L’Alaska è, per certi versi, un non luogo, dove regnano incontrastati gli elementi naturali. Qui l’uomo è un ospite che, seppur perfettamente integrato nel difficile ambiente nordico, non é riuscito a soggiogare a proprio favore la Natura, prepotente e indomita.
La terra d’Alaska, scossa da terremoti e vulcani, è primordiale e umida. E il Denali National Park and Preserve - dove si trova il monte McKinley, che con i suoi 6.194 metri è la cima più alta del Nord America - non è semplicemente un luogo selvaggio, è innanzitutto un luogo primordiale. Un salto indietro nel tempo di migliaia di anni. Nella tundra licheni, fango e roccia, sui monti neve e acqua, elementi semplici come era semplice la vita terrestre all’inizio della storia.
Il 49° Stato è una terra vulcanica, dominata dal fuoco, ma più che altro penso al fuoco interiore che spinse sin qui i primi uomini, alla ricerca dell'oro prima e dell'oro nero dopo. Migliaia di uomini che dalla fine del XIX secolo lasciarono le proprie case, famiglie, vite, per rincorrere dorati sogni di ricchezza. Sorsero non solo miniere ma interi paesi con case, saloon, empori, che portarono la vita “civilizzata” nei territori isolati e impervi dell’ultima frontiera. Ancora oggi s'incontrano, nelle sterminate pianure alascane, alcuni di questi luoghi, ridotti ormai allo stato di villaggi fantasma.
L’Alaska mi ha aperto un mondo di dubbi e curiosità. Mi domando cosa spinge, ancora oggi, queste persone a vivere o a trasferirsi in luoghi così difficili? Lo spirito di avventura, la voglia di libertà, il feroce contatto con la natura o cos’altro? Chissà, forse semplicemente fuggono e se vengono da altri luoghi, cosa hanno perso e cosa guadagnato?
Ho capito qualcosa di più dopo aver sentito l'entusiasmo dell’autista del bus al parco del Denali o della capitana della nave al fiordo del Kenai. Due delle numerose donne che ho trovato impegnate in lavori duri, che in Italia definiremmo "maschili", come rifare le autostrade o scavare un sentiero di montagna nella roccia. Lo stupore, a tratti gioiosamente infantile, che esprimono quando raccontano l'ambiente in cui ci accompagnano é vivo e sincero. Per loro ogni giorno, seppur duro e interminabile, é una nuova avventura, una scoperta, una meraviglia che si rinnova quotidianamente nella Natura. E un po' le invidio.

MARINA FICHERA

lunedì 6 luglio 2015

"AUTUMN IN BOSTON" di Marina Fichera



Autumn in Boston

Boston è un’ordinata città di poco più di seicentomila abitanti - che comprendendo l’area della Greater Boston diventano quattro milioni e mezzo - circondata dal verde dei boschi e dal blu dell’Atlantico. E’ una metropoli con una personalità molto europea, e quando ci si reca per la prima volta ci sono alcune cose che, a mio avviso, non si possono non fare e che, naturalmente, ho fatto.

Andare la domenica mattina a fare un tranquillo jazz brunch in un quartiere lontano dai circuiti turistici, e ritrovarsi a essere gli unici non americani tra un branco di affamati di cibo e ottima musica sincopata.
Visitare il Boston Museum of Fine Arts e perdersi per ore tra l’apparente accozzaglia senza senso di antichità da tutto il mondo e tutte le epoche, per poi capire che il senso c’è: siamo una sola umanità, unita da sempre dall’idea del Bello e dalla purezza dell’Arte.
Assistere a un concerto della Boston Symphony Orchestra, una delle 
orchestre sinfoniche più valide al mondo. Prendere un posto nei loggioni laterali della pacchiana Symphony Hall e scoprire che se per caso ti viene il singhiozzo puoi precipitare sugli spettatori in platea, in un attimo… 
Passeggiare all’Università di Harvard, la più antica degli Stati Uniti, tra austeri palazzi vittoriani e secolari alberi dai colori cangianti dell’autunno, accompagnati da un giovane e brillante studente, energica e sorridente guida volontaria, e pensare “chissà, forse questo ragazzo un giorno vincerà un Nobel o sarà il Presidente”.
Smarrirsi tra l’area pedonale del Quincy Market, mercato coperto dove i profumi di crostacei locali e di cibi esotici si confondono in una contaminazione caotica e gioiosa, e la meravigliosa baia risplendente di colori e vita di un autunno inoltrato. 
E poi girare a piedi la città, in lungo e in largo, tra i parchi dei ricchi sobborghi come Jamaica Plain, o quelli del centro città come i Public Gardens, da cui non avrei voluto mai uscire, incantata dalla bellezza delle foglie rosse, verdi, rosa, gialle e dall’azzurro del laghetto, il bianco delle romantiche barchette a remi e il rosso di un inaspettato ombrellino orientale e lì, sognante, immaginare un futuro che ancora non esiste...

MARINA FICHERA

mercoledì 1 luglio 2015

"BANANA LATINA" di Nicoletta Marinelli




Vi presento la mia seconda creazione: la parte 2 di "Le avventure della Banana per le strade dell'America Latina" che vi porterá in Colombia, Ecuador e Amazzonia. Buona lettura a quante vogliano viaggiare a bordo di un Volkswagen del "76 e incontrare l'America del Sud!
"Mentre preparo lo zaino penso al fatto che non ho mai viaggiato da sola. Sola ho fatto moltissimi spostamenti alcuni dei quali prevedevano vari giorni, situazioni assurde e complicate. Da sola ho spesso girovagato per metropoli in attesa di qualche volo o treno su cui salire. Da sola ho anche fatto le valigie per raggiungere un posto di lavoro in un altro continente nel quale avrei piano piano costruito una nuova vita; ma non ho mai fatto lo zaino per andare in un posto con il solo obbiettivo di conoscerlo e stare bene senza la compagnia di nessuno.
Lo confesso, ho un po' di paura: Ana e Massi sono i simpatici del gruppo, chi si vorrà avvicinare a un dispenser di tristezza per fare amicizia? Ho spesso sentito dire che chi parte da solo non sta mai da solo. Le persone si avvicinano più facilmente a una persona da sola che a una coppia o a un gruppo. Succederà anche a me finirò per annoiarmi a morte e tornare indietro a gambe levate? Questa non sarebbe neanche la peggiore delle ipotesi. Una donna da sola può essere la facile preda di ladri, stupratori e serial killer. Eppure ci sono molte donne che viaggiano da sole, penso, a partire dalla nostra Ana e tutte dicono che è un'esperienza indimenticabile. Anche io posso farcela. E, di nuovo, non lo saprò mai se non ci provo".

NICOLETTA MARINELLI



martedì 30 giugno 2015

Shanghai, dove tutto scorre. di Marina Fichera



Shanghai, dove tutto scorre.

Vi racconto cosa ho visto a Shanghai un pomeriggio di agosto del 2009, storie di (r)esistenza femminile.

L’antico quartiere della concessione francese, al centro della parte vecchia della città, è composto da piccole case con giardini, un tempo residenza delle delegazioni consolari, accanto a un labirinto di stretti vicoli maleodoranti con casette a due piani per la maggior parte diroccate, che ricordano gli hutong pechinesi. Mi perdo camminando in quel reticolo di vita, tra cibi dai penetranti odori e colori sbiaditi schiaffeggiati da macchie improvvise di rosso, e in un attimo arriva il tardo pomeriggio. 
Il mio tempo a Shanghai sta per scadere, devo prendere un taxi per tornare in hotel.
Entriamo in una via e ci troviamo bloccati nel traffico immobile. Solo dopo un po’ mi accorgo del motivo per cui siamo fermi. Un gruppo di anziane donne in ciabatte bianche e logori indumenti sta manifestando per fermare l’abbattimento delle proprie case. Contro l’espropriazione delle proprie radici e il rapimento del proprio futuro. Contro il progresso irrefrenabile della città. 
Sono lì, per terra che si accartocciano come vermi colti dalla pioggia e sopra di loro si avventano poliziotti in assetto antisommossa. Le loro urla restano inascoltate, seppellite dall’acufene di una città selvaggia, che non si ferma mai. Una a una vengono prese di forza dai poliziotti e spostate sul marciapiede, e poco dopo tutto riprende a scorrere regolarmente, freneticamente. 
Non c’è tempo per pensare al dolore di quelle povere donne. Shanghai deve continuare a macinare record, soldi e vite umane. Perché tutto scorre.


"Solo attraverso il dolore si arriva alla bellezza. Solo attraverso il dolore si ottiene la pace”, disse una volta una madre alla giovane figlia cui stava iniziando a bendare i piedini... (Tratto dal romanzo Fiore di Neve e il ventaglio segreto, di Lisa See.)

nella mia foto il quartiere della concessione francese a Shanghai, Cina

martedì 16 giugno 2015

"Il Suq di Damasco" di Marina Fichera



Il Suq di Damasco

Il suq di Damasco era un luogo splendido, ricco di un fascino speciale. Profumo di rose damascene, sgargianti tessuti, dolciumi, pistacchi e spezie arricchivano i lussuosi negozi rivestiti di preziose tarsie.
Ma l’anima del suq erano i suoi commercianti, distinti e appassionati venditori di esotismo e delizie per il palato e per l’anima.
C’era il profumiere, un omone che riempiva tutto il suo negozio ricolmo di centinaia di boccette di seducenti essenze. Gli raccontavi quel che volevi – naturalmente con l'aiuto della fidata guida - e lui, quasi magicamente, mescolando fragranze semplici e antiche, faceva nascere il TUO profumo, unico e irripetibile.
E poi c’era il venditore di antichità che ci portò sulla terrazza all'ultimo piano del suo negozio. Una bellissima terrazza coperta da freschi tendaggi, affacciata sul minareto di Gesù della moschea degli Omayyadi (nella mia foto, sotto allegata), dove ci offrì un tè insieme ai suoi affascinanti racconti. Il negoziante era un uomo molto colto e raffinato, che parlava un perfetto inglese e conosceva bene il mondo. Ci mostrò con orgoglio il suo "regno", colmo di antichi vasi, tappeti e argenti, un piccolo caos dove tutto era armonioso.
Piccoli lussi di tempi andati che, a causa della guerra civile che dal 2011 a oggi ha ridotto larga parte di Damasco a un cumulo di macerie, spero non siano andati persi per sempre...

venerdì 12 giugno 2015

"VIAGGIO A OSLO" di Emma Fenu




Che ne dite di trascorrere con me una giornata ad Oslo? Ecco il mio resoconto per Cosebelle Mag!
Poco più di 17 ore da trascorrere in nave.
Non sono tante, poiché esse includono anche la notte, in cui il sonno è cullato dall’abbraccio gelido dell’acqua, quale madre mitica di ghiaccio e sale.
Non sono tante, poiché le ultime miglia regalano alla vista uno spettacolo che fa sobbalzare il cuore ad ogni onda.
Da Copenhagen, precisamente dal porto di Nordhavn, è possibile raggiungere Oslo con una traversata che inizia nel pomeriggio e consente di svegliarsi, l’indomani, osservando rapiti, dietro spesso vetri o in balia delle raffiche impetuose che dominano il ponte, lingue di terra verde intenso colorate di casette e barche in legno.
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EMMA FENU

mercoledì 27 maggio 2015

"VIAGGIO IN DANIMARCA" di Chiara Minutillo



VIAGGIO

Sono partita per questo viaggio con un bagaglio pieno di indumenti pesanti e l'animo pieno di emozione. Un viaggio stabilito giá da qualche anno e sempre rimandato. Quest'anno avevo deciso che, piuttosto che rinunciare nuovamente, sarei partita da sola. Ma il destino ha voluto farmi dono di un'amica che ama viaggiare e che poteva prendere due giorni di ferie al lavoro proprio la settimana in cui potevo anche io. E cosí giovedì ci siamo alzate alle 3 di notte e ci siamo recate all'aeroporto di Malpensa da dove un aereo ci ha condotte nella splendida Copenhagen. Sapevo mi sarebbe piaciuta, ho un debole per il nord Europa, ma non credevo cosí tanto. 
Sono stata tra le prime persone a salire sull'aereo e tra le prime a scendere. Ho percorso la distanza dal gate alla fermata della metropolitana in meno di un quarto d'ora, pur non sapendo esattamente dove dovessi andare. Uscendo dalla metropolitana ero troppo impegnata a capire dove dirigermi per vedere ció che mi circondava. Una volta capita la direzione da seguire per arrivare all'appartamento, peró, sono stata rapita dal mare di biciclette che circolavano sulla pista ciclabile. E subito dopo sono rimasta a bocca aperta davanti allo spettacolo di case colorate che formano il quartiere di Nyhavn. Avevo visto delle foto in internet: case gialle, azzurre, di ogni colore, affacciate sul canale. Sapevo che avrei alloggiato in uno dei quartieri piú magici di Copenhagen. Ma vederlo in foto era una cosa, trovarselo davanti agli occhi era qualcosa di eccezionale! Alle 12 avevo appuntamento con Emma. Con lei, io e la mia amica abbiamo fatto un giro in centro: abbiamo visto la piazza del Municipio e siamo entrate in quest'ultimo palazzo, abbiamo visto la statua di Andersen, il mercato, alcuni negozi tipici. Abbiamo pranzato assieme e ovviamente non poteva mancare un giro in libreria, dove Emma ha potuto vedere l'indecisione dipinta sul mio volto e il panico da "quale libro prendo" quando, dopo essere entrata sapendo giá quale libro comprare (da lei consigliato), me ne ha posto davanti agli occhi un altro (che mi pento amaramente di non aver acquistato!).Dopo aver salutato Emma ed esserci appuntate a mente qualche dritta da parte sua, abbiamo fatto un altro giro per la cittá. Un giro molto tranquillo, perché il sole aveva lasciato posto alle nuvole e ad un terribile acquazzone. Abbiamo girovagato fino a sera, sorprendendoci quando, alle 22.15 siamo uscite dal ristorante e abbiamo visto il cielo ancora intriso di una sorta di chiarore crepuscolare (insosma, un conto e sapere queste cose, un altro é vederle!). Ma se é vero che la il sole tramonta tardi, é vero anche che sorge presto. Il mattino seguente, infatti, mi sono svegliata alle 5.15, pensando che fosse mattino inoltrato per via della luce che filtrava ai lati della spessa tenda che copriva la finestra. Scoperto il mistero, mi sono ovviamente rimessa a letto fino alle sette. Poi, abbiamo dedicato la giornata a visitare Kronborg, ovvero il Castello di Amleto, il Museo Marittimo e rientrando in cittá abbiamo fatto il giro turistico di Copenhagen con il traghetto. La sera eravamo intenzionate ad andare a Tivoli, ma vista la ressa che c'era alle casse abbiamo desistito e abbiamo deciso di dedicarci alla statua della sirenetta, aprofittando del buio e quindi della totale assenza di turisti ammassati sulla roccia della Little Mermaid. Oltre che dalla statua, estremamente simbolica, sono rimasta affascinata dall'immenso parco che abbiamo attraversato per raggiungerla. Il giorno seguente quindi, dopo una breve gita a Malmö, in Svezia, dove abbiamo noleggiato le biciclette, fotografato il Turning Torso e il meraviglioso ponte sull'Øresund che sembra buttarsi a capofitto nel mare, dopo aver compiuto la pazzia di mettermi a maniche corte e entrare nelle gelide acque del Baltico, siamo tornate a vedere Kastellet..spettacolare! Un giro al Planetarium e al museo della Carlsberg, e poi la sera siamo invece riuscite a entrare a Tivoli, dove sono salita sulla Star Tower, una specie di calcinculo che gira ad un'altezza di non so quanti metri, con il vento che ti gela le ossa e il cuore che si ferma alla vista di una cittá meravigliosa, di notte completamente illuminata. Essendo a Copenhagen, il parco divertimenti di Tivoli non poteva non essere magico. É la prima parola, la prima sensazione che ho provato quando ho messo piede dentro quel parco. Ma purtroppo, come sempre, le vacanze finiscono prima o poi e cosi la domenica é terminato il nostro soggiorno in Danimarca, ma non prima di aver visitato Amalienborg, aver assistito al cambio della guardia reale e aver ammirato, un'ultima volta, tutta la cittá dall'alto della Rundetårn. 
Il rientro in Italia é stato traumatico. Se all'andata sono stata la prima a salire sull'aereo, al ritorno sono stata tra gli ultimi. Ho impiegato quasi 20 minuti per arrivare al gate, nonostante i cartelli segnassero 10 minuti di distanza. Una cittá che era nel mio cuore ancor prima di visitarla. Quattro giorni non sono stati sufficienti. Sarebbe stato necessario molto piú tempo per assaporare e godere davvero di una cittá affascinante e ricca di storia e di arte. Sono passati solo tre giorni dal mio rientro,ma non faccio altro che pensare a quando finalmente potró tornare lá, magari prendermela piú comoda, stare qualche giorno in piú, vedere qualcosa di piú o semplicemente poter conoscere meglio ció che giá ho avuto modo di vedere. Il mondo é pieno di luoghi da visitare é vero, ma ci sono luoghi che piú di altri ti chiamano e ti attirano a loro, senza dirti il perché. É semplicemente cosí. Il nord Europa mi chiama, mi affascina. Ora che ho visitato una di quelle cittá per me cosi attraenti, sento di non poter fare a meno di pensare che il mio futuro sia lá, in Danimarca, in Norvegia,in Svezia,in Finlandia,non importa. Basta che sia lá.

CHIARA MINUTILLO

mercoledì 14 gennaio 2015

"Viaggi di uno psicologa in crisi" di Graziela Bergamini


"Quindi, dagli undici anni, replicai lo stesso standard di fuga dai ragazzi e, dopo, dagli uomini. Quelli che non mi attraevano erano amici. Quelli che invece mi attraevano erano pericolosi. In loro presenza, non ero me stessa. 
Una bambina con la testa in formazione trae molte conclusioni sbagliate sulla vita e le sovraccarica fino allo sfinimento. Alcune delle migliaia di conclusioni senza senso furono: 
Conclusione numero 1: Non potevo essere naturale, femminile, perché significare essere debole, umiliarmi. 
Conclusione numero 2: Gli uomini sono pericolosi, superiori, distanti, potenti.
Conclusione numero 3: Io sono una donna, sono piccola, sono differente da tutta la famiglia, quindi non appartengo a nessun gruppo – c´è qualcosa di sbagliato in me.
Tutte queste conclusioni assurde per un adulto ma logiche per una bambina si fortificarono con il passare del tempo, prendendo forma e riconfermando la propria falsa validità.
La mia percezione, per quanto la realtà fosse differente, si adeguava per incastrarsi in questa visione prestabilita. Furono anni di conflitti interni perché, alla fine dei conti,una parte di me voleva una relazione, voleva essere femminile, lasciarsi andare, senza sentirsi umiliata. E oltretutto, io mi innamoravo con una certa facilità; avevo sempre qualcuno di speciale che occupava il mio cuore."

da Viaggi di uno psicologa in crisi, di Graziela Bergamini

"A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra


SINOSSI
Durante un viaggio itinerante a Cuba, una giovane donna e un giovane uomo si trovano casualmente a condividere la camera di albergo. Mentre i giorni trascorrono, tra i due protagonisti cresce un'attrazione irresistibile che li conduce a un lento e inesorabile avvicinamento. Il racconto si snoda sulle strade dell'isola percorrendo luoghi, incontri e atmosfere. Solo il tempo di un viaggio per indagare le sfaccettature segrete di un sentimento che nasce con uno sguardo tutto femminile sulle mille emozioni di un amore.


ESTRATTO
“Non mi fai ballare?”, gli chiesi seria.
Non rispose neppure, ma mi prese delicatamente per il braccio e mi condusse nel centro di quella folla di corpi accoppiati che dondolavano piano come ciliegie al vento. Mi accomodai addosso a lui scoprendo la morbida ricettività del suo corpo. Una conca fatta su misura per accogliermi. Una culla. Un luogo caldo e sicuro dove appoggiarmi senza timore. Un calco.
Non eravamo mai stati tanto vicini. La forza magnetica dell’attrazione aveva agito senza ritegno su di noi. Appoggiai la mia guancia e le mie labbra sulla sua spalla, meglio, sul suo petto, all’altezza della clavicola e mi sentii bene. Profondamente bene.

Brano tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra

martedì 13 gennaio 2015

"FIABA DI NATALE" di Diana Mayer Grego


È arrivato presto l’inverno quest’anno. Questa notte la neve ha imbiancato la montagna, siamo appena i primi di dicembre, presto sarà Natale.
Le cime si nascondono timidamente dietro le nuvole. Dalla pianura si alza un leggero velo, respiro della terra umida con l’affacciarsi del primo sole. L’aria è limpida e le montagne sembrano vicine, ma io lo so che sono lontane e il mio cammino è ancora molto lungo, nulla in confronto al viaggio che ho fatto per arrivare fino a qui. Manca poco, presto sarò finalmente a casa.
Due stagioni sono passate da quando iniziai il mio viaggio, ero giovane, irrequieto, avevo voglia di conoscere il mondo. Ero nato e cresciuto in una baita nelle alte Alpi Carniche, la mia casa era a due piani, a vederla di fuori era carina, il pian terreno era rivestito di pietre e il piano superiore era ricoperto interamente in legno, con un grande balcone, dove la mamma d’estate esponeva i suoi bellissimi gerani rossi. Dietro la casa c’era la legnaia, dove il mio papà accatastava la legna per l’inverno. Appena entravi c’era un piccolo disimpegno a sinistra entravi nella grande cucina, dove la mamma cucinava sullo sparger d’inverno e con la cucina a gas d’estate. Come tutte le cucine di montagna avevano anche un piccolo divano per stare comodi al calduccio. A destra c’era il salotto, era più una stanza adibita a studio dove mamma e papà passavano il tempo al computer e la sera guardavamo tutti assieme la televisione sdraiati sul grande divano, in un angolo c’era il caminetto, io preferivo guardare lo scoppiettare della legna, la televisione m’interessava poco e passavo le ore davanti al fuoco, tanto che papà mi fece un piccolo divanetto per stare comodo, però d’estate quando il caminetto non era acceso, mi piaceva stare in mezzo a loro sul divano grande.
Al piano di sopra c’erano le stanze da letto, belle confortevoli con un buon profumo di legno e di lavanda. Si saliva solo per dormire. Sia sotto sia sopra c’era un bagno, quando ero più piccolo la mamma mi chiudeva dentro per castigo, pochi minuti che a volte mi parevano ore, altre volte mi perdevo a giocare con l’acqua, non era poi un castigo così terribile.
Mia mamma e mio papà erano persone umili, con un grande cuore, erano esemplari. Non mi mancava nulla, mangiavo a sazietà, il mio letto era sempre in ordine fresco d’estate e caldo d’inverno. D’inverno faceva molto freddo, come ora, ricordo con nostalgia le belle serate passate davanti al camino accesso, ho sempre avuto un certo timore del fuoco, ma quanto era bello sentir scoppiettare i ceppi nel camino. L’inverno non c’era molto da fare al mio paese, ma io con papà uscivo ogni giorno, anche nelle giornate di tormenta. Era molto coraggioso il mio papà, mi metteva il cappotto e via a fare scorribande sulla neve, quanti ruzzoloni e capriole facevamo. Rientravamo fradici e la mamma si arrabbiava tantissimo, aveva sempre paura che ci ammalassimo, io però non mi sono mai ammalato, papà invece sì.
Ricordo una volta che ebbe la febbre molto alta e la mamma non voleva che entrassi nella sua stanza, aveva paura che mi contagiasse, ma io piagnucolai parecchio e lei cedette, funzionava sempre! La mamma aveva il cuore buono e non è mai riuscita a resistere ai miei occhioni languidi, devo ammettere che a volte ne ho approfittato per ottenere quello che volevo.
Anche quella volta cedette e mi aprì la porta, entrammo, la stanza era molto buia, sentivo il respiro affaticato di papà, sentivo l’odore delle medicine e del sudore, mi spaventai! Papà stava molto male, la mamma gli metteva le pezze di acqua fresca sulla fronte. Io mi distesi ai piedi del letto e non mi mossi più di lì, ogni tanto papà mi chiamava con la voce tremolante e mi sorrideva. Io scattavo in piedi e mi avvicinavo alla sua mano, lui debolmente poggiava me la sulla testa per un attimo poi tornava inerme, era molto debilitato. Io ero felice perché sapevo che la mia presenza gli faceva bene. Mamma si ostinava a volermi far uscire, ma io facevo peso morto, uscivo solo per mangiare e andare al bagno, dopo due giorni, mamma cedette e iniziò a portare da mangiare a entrambi in camera. Io non mangiavo finché non vedevo che anche papà mangiava, così facendo lui si sforzava di prendere qualche cucchiaio di brodo caldo, poi mi diceva «Visto? Ho mangiato, ora mangia anche tu.» se si limitava a due cucchiai io, non aprivo bocca e mi lagnavo, così lui mangiava ancora un po’, poi mamma mi diceva di mangiare ed io obbedivo, lei mi stava vicino e mi carezzava la testa. Ricordo le sue carezze piene d’amore, quanto mi sono mancate in questi mesi. Ogni volta che ci ripenso, mi vengono le lacrime agli occhi, ma non piango, sono fiero.
Alla fine papà guarì. Riprendemmo la vita di sempre. Quando andavamo al bar del paese, papà raccontava a tutti di quanto ero stato bravo durante la sua malattia, era orgoglioso del suo ragazzo. Allora tutti gli amici si congratulavano con me, chi mi faceva un puffetto sulla frangia, chi mi dava una pacca sulle spalle, mi faceva sentire grande e amato, ero uno di loro.
Al bar venivano anche piccoli amici come me, e mentre i grandi chiacchieravano bevendo vino, noi giocavamo alla lotta e ci correvamo dietro, a volte eravamo così irruenti che ci dovevano richiamare all’ordine, nei casi peggiori ci separavano e ci mettevano in castigo ognuno vicino alla sedia del proprio papà. Mi divertivo molto a uscire con papà.
Anche con la mamma uscivo, ma lei non si rotolava come papà, diceva che era una signora e non stava bene fare il clown. Quando uscivo con lei, facevo il bravo, sapevo di renderla felice, andavamo a fare la spesa, io mi annoiavo al supermercato e preferivo aspettarla fuori, non mi allontanavo mai dalla porta e poi il paese era piccolo e mi conoscevano tutti. Così mentre aspettavo la mamma, salutavo cordialmente tutti quelli che passavano, qualcuno veniva vicino e mi faceva un puffetto sulla frangia. Avevo una frangia irresistibile!

La fuga

Non so cosa mi saltò in mente quel giorno! Era primavera inoltrata, avevo gli ormoni in subbuglio, una gran voglia di conoscere il mondo al di fuori del piccolo paese dove ero nato. Così, quando vidi il furgone delle consegne delle bombole del gas, che sarebbero servite per l’estate, decisi di mollare tutto . Volevo andare a conoscere la città. Ovviamente non avrei potuto chiedere un passaggio esplicitamente, quindi salì nel retro del furgone e mi nascosi dietro la pila di bombole, dove non potevo essere visto.
Percorremmo tanti chilometri ed io di tanto in tanto sbirciavo fuori dal finestrino, ero eccitato da questa nuova avventura, guardavo curioso il paesaggio cambiare, avevamo lasciato alle spalle le amate montagne e ci stavamo dirigendo verso la pianura. Il furgone si fermò più volte ed io stetti molto attento a non farmi trovare, ero terrorizzato ogni volta che l’uomo del gas saliva per prendere le bombole, non sapevo come avrebbe reagito alla vista del clandestino.
Passammo tutta la pianura e vidi diversi paesi, erano tutti uguali, c’erano case, strade e stradine, bei giardini con tanti amici come me che giocavano felici all’aria aperta, c’era la Chiesa, il cimitero. Non mi sono mai piaciuti i cimiteri, c’era troppa puzza di fiori marci mi veniva la nausea ogni volta che la mamma mi ci portava, in compenso c’erano tanti gatti ed io mi divertivo molto a rincorrerli, e ogni volta finiva che la mamma mi sgridava perché in cimitero non si deve giocare, è un posto serio, dove dormono le anime dei morti. Io non capivo queste cose, però ubbidivo.
Tornando al paesaggio vidi che c’era la macelleria, il nostro macellaio mi era molto simpatico, lo riconoscerei fra mille, ha un buon odore e ogni volta che andavamo a fare compere dal lui, mi faceva un regalo.
I paesi si susseguirono ed erano tutti uguali, un po’ ne fui deluso, chissà cosa mi aspettavo, avevo lasciato la mia casa per conoscere il mondo e il mondo era esattamente come casa mia.
Ero così assorto dai miei pensieri che non mi accorsi che il furgone si era nuovamente fermato. Il portellone si aprì e la luce entrò abbagliandomi, non feci in tempo a nascondermi, udì un urlo. «Che ci fai tu qui!?»
Il tono della voce era minaccioso, mi rannicchiai in un angolino, non vedevo nulla accecato dal sole che entrava prepotente. La figura entrò e si fece avanti urlando. «Vattene! Esci da qui!»
Ero terrorizzato, ebbi paura che mi volesse picchiare e così preso dal panico, mi lanciai fuori dal furgone. Feci un balzo e mi ritrovai su una strada, era diversa da quelle che conoscevo. Io ero abituato alla terra con la ghiaia, che però quando saltavo mi faceva un po’ male, questo suolo invece era liscio grigio, non ne avevo mai calpestato uno, era piacevole.
Dopo un secondo di sgomento iniziai a correre velocemente, dietro di me sentivo ancora le grida dell’uomo del gas. Non capivo dov’ero, d’un tratto sentì uno stridio, mi voltai e vidi davanti a me una macchina molto grande che stava per investirmi, mi spaventai e corsi ancora più forte per sfuggirle. Sentì provenire dalla parte opposta lo stesso rumore accompagnato dal suono del clacson, mi girai e provai a tornare indietro, mi sembrò impossibile era piano di macchine e tutte stridevano minacciose, vedevo che gli uomini all’interno dell’abitacolo gridavano, ma non sentivo nulla di quello che dicevano, i loro occhi e i loro gesti erano minacciosi. Mi rigirai più volte su me stesso senza lasciare la posizione dove mi trovavo, mentre le automobili sfrecciavano intorno a me. Ma com’era possibile? Perché non si fermavano? Eppure mi vedevano.
Guardai in tutte le direzioni, ci fu un momento in cui non passarono le macchine, allora iniziai a correre verso i campi, corsi a perdifiato, volevo allontanarmi più possibile da quell’incubo, ad un certo punto dovetti fermarmi perché mi sembrò che il cuore mi scoppiasse nel petto. Ebbi bisogno di riprendere fiato, la strada con le automobili l’avevo lasciata da un pezzo e mi trovai dentro un campo. Finalmente stavo camminando sulla terra.
Rimasi fermo e spaventato per molto tempo, in mezzo al campo, mi sentivo al sicuro. Nel frattempo si stava facendo sera e avrei dovuto trovare un posto dove dormire. Mi guardai attorno e non c’era nulla solo distese interminabili di campi, in dietro non potevo tornare, lì c’era la strada ed era pericoloso. Dovevo trovare un bar, lì avrei potuto trovare sicuramente degli amici che mi avrebbero aiutato a tornare a casa, ero appena partito ed ero già pentito di quest’avventura.
Camminai a lungo, ero molto stanco e affamato, inizia a rendermi conto della cavolata che avevo fatto a lasciare il mio paese, la mia casa e la mia mamma e mio papà.
Al confine fra un campo e un altro vidi un capanno degli attrezzi, era molto simile alla nostra legnaia. La finestra era aperta, senza vetri, decisi di saltare dentro e ripararmi per la notte, l’indomani avrei cercato un bar.
Mi addormentai sfinito e quella notte sognai le carezze della mia mamma, seduti sul divano davanti al caminetto acceso, il salotto era inondato di una luce tenue e avvolgente, tutto era tinto di colori arancio.
Quando aprì gli occhi, speravo di essere fra le mie coperte e che tutto quello che avevo vissuto il giorno prima fosse stato solo un brutto sogno.
Invece ero nel capanno degli attrezzi di chissà chi, in un campo sconosciuto, lontano da casa chissà quanto, solo, stanco e affamato.
Mi lasciai prendere dallo sconforto e mi riaccoccolai nella speranza di trovare un po’ di calore, in realtà era quasi estate e non faceva freddo, avevo tanto freddo nel mio cuore. Piano piano spunto il sole, dovevo agire e trovare al più presto un bar, lì mi avrebbero aiutato e anche dato da mangiare.
M’incamminai e passai i campi, vidi che erano tutti costeggiati da una stradina di ghiaia, dovevo seguire quella traccia e poi avrei fatto meno fatica a camminare lì piuttosto che sulla terra arata, sprofondavo ad ogni passo.
La stradina terminò e mi ritrovai nuovamente sull’asfalto grigio, memore della brutta esperienza del giorno prima fui assalito dall’ansia di trovarmi nuovamente fra le macchine, lo stridio dei freni e i clacson mi rimbombavano ancora nelle orecchie. Avevo imparato la lezione, ero molto vigile, mi guardavo con sospetto intorno, appena passava una macchina, mi buttavo giù nei campi.
Nel capanno trovai un secchio pieno d’acqua, prima di partire bevetti molto. La sete non si placava, avevo bisogno di trovare acqua e cibo, ma soprattutto dovevo trovare il bar.
E lo trovai, solo che non fu per nulla quello che credevo, appena entrato, mi resi conto che le persone erano ostili. Iniziarono a gridarmi di uscire, di andarmene, non capivo. Cercavo solo aiuto per tornare a casa invece mi trattavano male.
Un omone prese una scopa e iniziò a minacciarmi, mi spaventai molto e indietreggiando uscii dal locale. Ero molto triste e mi sedetti a un angolo, mi veniva da piangere, ricordavo i bei momenti passati nel bar del mio paese con mio padre sempre pronto a difendermi, non capivo perché lì nessuno mi volesse bene, era come se avessero paura di me, invece ero io ad avere una paura fottuta. Iniziò a piovere.
Rimasi per molto tempo sotto la pioggia, tutto bagnato, seduto sullo scalino, non sapevo cosa dovevo fare, dove dovevo andare, una signora uscì dal bar e mi vide, penso che gli feci molta compassione e mi disse di seguirla, io in silenzio mi misi dietro di lei e con la testa bassa andai con lei, mi fece accomodare nel suo garage, mi portò da bere e da mangiare, mi diede una coperta e mi chiuse dentro. Per un attimo ebbi il terrore di essere nuovamente prigioniero come lo ero stato nel furgone, ma ero troppo stanco e affamato per ribellarmi, mangiai tutto fino all’ultima briciola e poi mi avvolsi nella coperta e mi addormentai in un sonno profondo.
Dormì per molte ore, quando mi svegliai, bevetti l’acqua rimasta, per fortuna la signora gentile me ne aveva lasciata tanta. Mi guardai attorno e non c’era molto nel garage, degli scaffali pieni di cose strane, qualche vaso di pittura molto puzzolente, l’odore mi toglieva il fiato, iniziai a girare per tutto il perimetro della stanza, ero irrequieto, non mi piaceva essere prigioniero, avevo paura. Piano piano la mia paura si trasformò in un terrore che mi paralizzava. Chissà cosa mi avrebbe fatto? 
All’improvviso la serranda si alzò e la luce entrò prepotente nella stanza, senza pensarci nemmeno un attimo scattai e scappai fuori. Sentì la signora gridare, non sembrava minacciosa, ma ero troppo spaventato e iniziai a correre. Ricordai dell’esperienza vissuta fuori dal furgone, quindi mi fermai un attimo per vedere se arrivavano macchine, per fortuna la strada era deserta e così ripresi a correre. Corsi così forte e per così tanto tempo che solo dopo molto tempo mi resi conto di aver lasciato alle spalle la cittadina, alzai lo sguardo e vidi in lontananza le montagne.


Il ritorno

Le mie montagne, il mio cuore ebbe un sobbalzo, emozione mista a gioia. Era in quella direzione che dovevo andare per tornare a casa. Ero felice, non avevo più bisogno di nessuno che mi aiutasse, dovevo solo intraprendere il mio cammino del ritorno.
Quel giorno camminai tantissimo, preso dall’entusiasmo di aver trovato la strada di casa. Ero stanco e avevo tanta fame, dovevo trovare un posto dove fermarmi per la notte, iniziava a tramontare il sole. Vidi in lontananza un casolare, forse una stalla, arrivato trovai un abbeveratoio per gli animali, senza pensarci un attimo mi buttai quasi dentro per bere, la mia gola era asciutta, mi riempii la pancia d’acqua, era comunque un sollievo. Mi guardai in giro nella ricerca di cibo, la porta della stalla era aperta, entrai facendo molta attenzione, avevo capito che da quelle parti erano ostili con i forestieri, in un angolo trovai un secchio piano di latte, non era come una bella bistecca ma avrebbe placato la mia fame per un bel po’. Le mucche erano pacifiche, mi nascosi e attesi che il contadino venisse a ritirare il latte, sapevo che poi non sarebbe più tornato fino al mattino dopo e io avrei potuto dormire tranquillo, così fu.
Mi feci un piccolo giaciglio con la paglia e mi addormentai. Alle prime luci dell’alba mi sveglia, bevetti ancora tanta acqua e m’incamminai. Passarono diversi giorni di cammino e bevetti e dormì dove capitava, mi trovai anche a rovistare nei cassonetti per mangiare, avevo lasciato la mia casa per scoprire il mondo e mi ritrovavo a essere un barbone.
L’estate era finita, ormai era iniziata la stagione delle piogge ed era sempre più difficile trovare un riparo asciutto, avevo perduto molti chili, mi guardavo specchiandomi nelle pozzanghere e mi vedevo smunto, sporco e infreddolito, le mie montagne erano sempre più vicine, mangiavo quello che trovavo per le strade, qualche rarissima volta qualcuno mi allungava qualche pezzo di pane. Ero umiliato e abbacchiato, quando la sera mi addormentavo agli angoli delle strade, mi consolavo ricordando i momenti felici assieme alla mia mamma e al mio papà nelle belle serate dove si stava insieme tutti accoccolati sul divano. Mi addormentavo sognando le carezze di mia madre che mi rimboccava le coperte per assicurarsi che io sia coperto nelle lunghe notti d’inverno, sognavo mio padre quando giocava con me a rincorrerci. Chiudevo gli occhi sognanti e mi chiedevo. “Chissà se dopo tanto tempo si sono dimenticati di me? Chissà se gli manco così quando loro mancano a me?”
Le lacrime scendevano copiose lungo le mie scarne guance, mi addormentavo ogni sera pieno di nostalgia.
La mattina appena sorgeva il sole riprendevo tutta la mia tempra combattiva e ripartivo per il mio cammino, giorno dopo giorno macinavo chilometri che mi separavano dalla mia casa.


Manca poco

E mentre pensavo a tutte le peripezie dei mesi passati anche oggi avevo fatto molti chilometri.
Sono sempre più stanco e cammino a fatica, ma tengo duro, manca veramente poco. Da qualche giorno ho intrapreso la salita, riconosco gli odori, i profumi, salgo su per la strada che porta verso il mio paese, ho deciso che non seguirò tutta la strada è troppo lunga, taglierò su per il bosco, anche se è caduta molta neve, penso che nel sottobosco sarà comunque facile camminare. Arriverò a casa da dietro, però risparmierò alcuni giorni di cammino.
La decisione di intraprendere questa scorciatoia non è stata molto produttiva, la neve in realtà è molto alta anche nel bosco, faccio molta fatica ad avanzare, sprofondo ad ogni passo e sono gelato, non sento più gli arti e le vesciche sono sempre più sanguinanti.
Questa notte per dormire scaverò una buca che mi proteggerà dal freddo, questa secondo i miei calcoli dovrebbe essere l’ultima notte fuori di casa. Sono molto eccitato all’idea che domani arriverò a casa, dopo tanta strada percorsa e tutte le brutte avventure che mi sono accadute. “Sono anche spaventato, mamma e papà si ricorderanno di me? Saranno arrabbiati e mi puniranno?” È un rischio che mi piacerà correre, assaporo il calore del caminetto e la coperta calda mentre mi addormento congelato nella neve. Quella notte sogno di andare con papà a tagliare l’abete nel bosco, mentre torniamo a casa con il “bottino” ci investe il profumo dei dolci appena sfornati dalla mamma, poi tutti assieme passiamo il pomeriggio ad addobbare l’albero, io sono un po’ goffo, ma li aiuto come posso e loro ridono a vedermi portare i gingilli per tutta la casa.
Domani sarà la vigilia di Natale.

La vigilia

Mi sono alzato presto, fa troppo freddo e ho paura di morire assiderato, il sole non è ancora spuntato, sarà meglio che mi metta in cammino, sono molto stanco e cammino a fatica, ci impiegherò tutta la giornata per raggiungere casa, ho gli arti tutti anchilosati, mi fa male tutto, la schiena è in pezzi, sono tutto bagnato, ho ghiaccioli di neve dappertutto, la gola è secca, e sono diversi giorni che ho anche una brutta tosse, respiro a fatica.
Sto risalendo l’ultimo tratto di salita, tra pochi metri uscirò dal bosco e vedrò la mia casa.
Sento in lontananza il rumore dell’accetta che spacca la legna, è il mio papà sicuramente che sta preparando la legna per accendere il caminetto, il mio papà. «Papà!»

Devo fare ancora uno sforzo per scollinare, poi riuscirò a vederlo e lui vedrà me. Provo a chiamarlo ma la voce non esce, un lamento è il massimo che riesco a fare, per un attimo il ritmo dello spaccalegna s’interrompe, “Forse mi ha sentito?” ma poi riprende il suo lavoro. Non ce la faccio più, mi trascino arrancando nella neve alta, ho scollinato, lo vedo «Papà!» provo a chiamarlo, ancora una volta la voce non esce, solo uno stridulo lamento, lui si ferma, è intento a raccogliere la legna, si alza, scruta l’orizzonte, sta guardando verso la strada, il mio papà, mi viene da piangere, quanto tempo ho desiderato rivederlo «Papà sono qui, non ce la faccio più!» vedo che si guarda attorno, ha sentito qualcosa, ma non riesce a capire che sono io o non mi vede, non ce la faccio ad alzarmi in piedi, mi sta prendendo lo sconforto. «Papà!» provo per l’ultima volta con tutto il fiato che ho in gola.
È in quell’attimo che si volta dalla mia parte e lo sento dire timidamente il mio nome «Buk?»
Lo sguardo smarrito e triste di mio padre si incontra con il mio debole e speranzoso. Lo sento gridare sempre più forte «Buk!» «Papà sono qui …» dalla mia gola esce un urlo strozzato.

«BUK!!!» vedo il suo volto illuminarsi di luce, lascia cadere la legna che portava sotto braccia e inizia a correre verso di me «Sofia! Sofia!!!» lo sento chiamare la mamma «Sofia è buk! È tornato!» vedo dopo un attimo la mia mamma apparire da dietro la casa, ha il suo vestito e il grembiule legato attorno alla vita, in mano tiene ancora lo strofinaccio per asciugarsi le mani, probabilmente stava preparando la cena, la sento gridare il mio nome, la sua voce è piena di gioia «Bok!» corrono verso di me, chiudo gli occhi e mi lascio scivolare nell’oblio, non sento più nulla solo in lontananza le loro voci chiamarmi. Sento le forti braccia di mio padre strapparmi alla neve, sollevarmi e correre con me in braccio. Dietro sento la mamma che dice «Presto portalo dentro!» mi abbandono nelle sue forti braccia.
C’è un gran trambusto
«Sofia presto chiama il dottore!»
«Sì! Tu accendi il fuoco, poggialo lì!»
«Buk! Buk!» sento che mi chiamano e le loro voci sono strozzate dal pianto e dalla gioia. Papà mi adagia sul divano, sento il morbido plaid sotto di me.
Quanto ho desiderato questo momento, respiro a fatica, la mamma si distende di fianco a me per scaldarmi, con un panno mi liscia il pelo e mi copre con la coperta, guardo verso il caminetto, c’è l’albero di Natale e sotto ci sono il mio divanetto e le mie ciotole.
Non mi hanno mai dimenticato.

Diana Mayer Grego


lunedì 12 gennaio 2015

DRASTICA-MENTE, racconto di Mary Skellington Greenwood.

Pioveva. La pioggia cadeva ininterrottamente dal cielo notturno, battendo sui tetti. Gocce d’acqua rumorose che cadendo sui vetri lindi delle finestre carezzandoli e morendo infrangendosi sull’asfalto caldo al passaggio di veicoli, hanno vita breve. Veicoli pieni di anime, pieni di storie, pieni di progetti, pieni di sogni. Ognuno aveva un sogno a cui far fronte, a cui aggrapparsi, a cui credere: per questo si sceglieva come meta New York. Nella Grande Mela, nessun sogno sembrava troppo irrealizzabile. E anche per chi le speranze erano pressoché nulle, quella città offriva almeno l’opportunità di crederci. Perché se non si avevano ambizioni, sogni, era difficile poter credere di vivere. Si moriva dentro senza nemmeno accorgersi di avere già un piede nella fossa. Non era facile vivere la sua vita e Jeremy lo sapeva benissimo. Lo sapeva anche quella sera, quando guardando fuori dal finestrino del taxi, le luci passavano nei suoi occhi come mille lucciole imbestialite. C’era una puzza strana nell’abitacolo posteriore del veicolo: un odore acre. Il conducente fumava eccessivamente. Con il mozzicone quasi finito, accendeva il cilindro di tabacco nuovo e sembrava affogare i suoi pensieri, eliminandoli dal suo corpo mentre buttava fuori nuvole di fumo grigio. Ogni tanto rivolgeva la parola a Jeremy, ma lui sorrideva distrattamente, senza degnarlo di una risposta. Quasi come se ciò che avesse da dire non interessasse al giovane, che con la faccia spiaccicata contro il finestrino grondante e le mani sul vetro, guardava fuori con l’aria sognante di chi ha visto il regalo tanto attesto sotto l’albero la mattina di natale. Le luci cittadine erano quasi familiari e i mille volti sconosciuti che passavano random di fronte al suo sguardo frugante portavano la mente del giovane a vagare. Vagare senza meta. A creare storie, a creare profili psicologici attribuiti ad ogni volto. Era da sempre uno dei suoi giochi preferiti. Nel mentre che si ricomponeva, seduto comodamente sul sedile dell’auto, passavano nella mente alcuni dei momenti più felici della sua infanzia. Gli unici. Poiché dopo i dieci anni, vuoto totale. Pensava sempre molto volentieri a Febe. La piccola Febe. Una ragazzina coraggiosa e determinata che era stata la sua più cara amica da bambino. Poi l’incidente. Poi il trasferimento. Poi il niente. Poi il buio. Ricordava sempre con un sorriso i giochi che lo rendevano felice: come contare le macchine bianche che passavano mentre Febe contava le nere, inventare favole con protagonisti gli strambi personaggi che abitavano in periferia. A volte pensava addirittura di convincersi di essere nato nella sua città. Non ricordava se era la verità, o se il motivo di tale convinzione era che, probabilmente, i suoi occhi, che ancora sapevano vedere e leggere, avessero intravisto il nome di quella metropoli scritto da qualche parte. Non ricordava nemmeno i suoi genitori. Le loro voci, i loro volti, i loro modi di fare. Non ricordava nemmeno la casa dove era nato. A tratti flash di pareti azzurre carta da zucchero e una sedia a dondolo di legno bianco. Ma Febe la ricordava. Benissimo. Ricordava i suoi occhi nocciola. Il neo dentro l’iride caramellata. Il modo di intrecciarsi i capelli. Una treccia di lato e l’altra parte spettinata, con ciuffi che penzolavano sulle spalle. Jeans strappati e camicette colorate. Uno dei due dentini davanti spaccato diagonalmente e qualche simpatico difetto di dizione. Si, Febe la ricordava benissimo. 
- La prego, al prossimo isolato si fermi – dice il ragazzo, scuotendo la testa e toccandosi i capelli castani, con espressione visibilmente tesa sul volto. –Devo assolutamente fermarmi – Il conducente, senza dire una parola, asseconda la richiesta del giovane, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. In fondo non fa altro che il suo lavoro: percepisce il suo guadagno e spera in una mancia. Tutto lì. Del resto, bellamente, se ne frega.

Diario di viaggio a Roma di Chiara Minutillo.

Anche questa avventura finisce qui. Così, tanto velocemente quanto è iniziata. E pensare che la sera prima di partire non ero nemmeno riuscita a prendere sonno. Erano le due di notte e ancora mi rigiravo nel letto, senza pace, come una bestia in gabbia. Non so a cosa fosse dovuta cosi tanta agitazione, ma solo un'ora prima di cercare di addormentarmi, mi ero addirittura sentita male. All'improvviso la mia camera mi sembrava una scatola chiusa, pareva che si restringesse un poco ogni minuto, fino a che poi si sarebbe chiusa completamente su di me. Ogni traccia di inquietudine è poi svanita nell'esatto momento in cui sono scesa dal treno il giorno seguente, per lasciare il posto a meraviglia e stupore. Mi trovavo finalmente in una delle città più belle e interessanti, artisticamente e storicamente, del mondo. Stavo finalmente facendo la mini vacanza che aspettavo e sognavo da tempo. Ero con tre delle mie più care amiche. Non vedevo l'ora di calarmi totalmente nell'atmosfera magica di Roma. E credo di esserci riuscita perchè dopo tre giorni il mio accento bresciano è parzialmente sparito per fare spazio alla cadenza romana. Ho persino scordato i ritmi frenetici della mia città, alzandomi un po' più tardi al mattino, facendo colazione con tutta la calma che mi era consentita, camminando per le strade senza la fretta di andare di qua e correre di là, ma anzi, prendendomi tutto il tempo per passeggiare, osservare, pensare, riflettere, ricordare le lezioni di arte e storia al liceo quando mi trovavo davanti ad un monumento, una scultura, un quadro. E ovviamente riservando anche del tempo per fotografare. Penso di aver fatto concorrenza alle centinaia di cinesi e giapponesi che c'erano a Roma. Ho scattato circa un migliaio di foto in tre giorni. Ho camminato per quasi settanta chilometri per rimanere senza parole davanti all'imponenza del Colosseo e della Basilica di San Pietro, per innamorarmi del Pantheon e dell'Altare della Patria, per visitare la Chiesa di Santa Maria in Trastevere e sentirmi talmente piccola davanti alla bellezza delle pitture e delle statue che ne decorano il soffitto, che non ho potuto fare a meno di sedermi, naso all'aria, a contemplare quell'immenso e minuzioso lavoro. Ho visitato posti di cui ricordavo di aver letto in alcuni romanzi, che ovviamente ora dovrò rileggere, perchè senza dubbio li vedrò con un occhio diverso. Potrò davvero sentirmi parte di essi. Sono entrata all'Hard Rock Cafè e ho girogavato per quasi un'ora in una libreria Feltrinelli per trovare un libro che potesse essere custodito come ricordo di Roma, scegliendone uno dal titolo piuttosto eloquente: "Addio Roma". Ho bevuto il caffè in una caffetteria-libreria, dove ho acquistato per soli tre euro una vecchia edizione di due romanzi che amo. Ho adorato ogni singolo angolo di questa città così immensa. Camminare su Ponte Sisto, osservare la pace del fiume Tevere in questi giorni, mi ha fatto provare una sensazione di totale abbandono alla forza di questa città sentimentalmente così ricca. Come se solo respirarne l'aria, sentire l'odore dell'acqua che scorreva sotto di me, osservare il cielo limpido, con il suo sole che creave riflessi dorati nel Tevere, potesse farmi pensare di essere parte di una realtà che in verità non mi appartiene. Avrei voluto che questa vacanza fatta di cultura, divertimento, risate e anche pianti, non finisse mai. Perchè le emozioni che Roma è riuscita a risvegliare in me sono talmente tante, così intense, così vere, che mi pento di non aver conosciuto prima questa città. Quello che mi ha lasciato dentro è davvero indescrivibile. Ho voluto scattare fotografie, comprare due libri, acquistare una maglietta e un paio di bacchette per la batteria all'Hard Rock Cafè. Tutto per ricordarmi di questa vacanza. Ma in realtà non ne avrei avuto bisogno. Perchè tutti questi oggetti possono rovinarsi, andare perduti, rompersi, diventare inservibili. Ma le emozioni no. Quelle rimangono. Restano anche quando i ricordi sbiadiscono o si affievoliscono. Restano quando gli oggetti materiali non sono più in grado di far rivivere ciò che la mente custodisce. I sentimenti non se ne vanno, perchè a differenza delle cose fisiche non possono rompersi, non possono diventare inservibili. Le emozioni rimangono perchè sono immortali.
Chiara Minutillo

La guerra divide, la vita le fa amiche: “Sognando Jane Austen a Baghdad”, di Emanuela Zanardini.




May insegna letteratura inglese in un’università di Baghdad, per un corso rivolto a sole ragazze. E anche se tutto ciò che la circonda è la guerra, sottoforma di bombe, militari e paura, lei esce di casa tutti i giorni per parlare di democrazia, diritti umani e Jane Austen alle sue alunne. Bee fa la giornalista a Londra, e il suo pane quotidiano è la “guerra” casalinga nel gestire tre figli, un marito troppo dedito al lavoro e le riunioni di redazione. May e Bee non potrebbero essere più diverse. Cultura, religione, chilometri, tutto le separa. Eppure, quando per un’intervista si mettono in contatto, diventano amiche. Si raccontano le loro giornate, e poco alla volta i racconti di May diventano una sorta di diario dell’Iraq di oggi.

Tutto questo, e molto di più, è Sognando Jane Austen a Baghdad (ed.Piemme), storia vera dell’amicizia nata nel 2005 tra May Witwit e Bee Rowlatt, e culminata col loro primo incontro nel 2008. Sin dalla prima pagina è difficile restare indifferenti: il linguaggio cambia riga dopo riga e dalla formalità iniziale passa via via ai toni dell’amicizia più pura e sincera. Dalle quasi 400 pagine del libro fuoriescono moltissimi spaccati di due donne contemporanee: non solo la guerra, ma anche il lavoro, la casa, i figli e la maternità, i vissuti emotivi che comportano entrambi gli stili di vita… ma, soprattutto, l’ansia e l’attesa di poter lasciare un paese dove corruzione e bombe distruggono la vita e i sogni di chiunque.

Ripensandoci, la differenza tra noi non potrebbe essere più netta, con io che me ne andavo a New York la settimana scorsa, prendevo l’aereo senza bisogno di alcun visto, per puro divertimento e basta (…) – dice in un passaggio la britannica Bee all’amica ancora immersa nella guerra – . Ti racconto tutte le cose belle che faccio sapendo di sbandierarti sotto il naso una libertà che non puoi avere, solo perché sei nata lì. E’ la lotteria delle nazionalità. Mi chiedo come sarà quando ci incontreremo”.
Dove vivono le due donne oggi?

Mai avrebbero immaginato che la loro corrispondenza arrivasse a tanto: questo libro, è anche il frutto di un progetto (finanziato in parte dalla casa editrice Penguin) che ha permesso a May di fuggire dalla guerra e rifugiarsi in Inghilterra, dove tutt’oggi vive col marito. Anche Bee Rowlatt continua la sua vita di sempre: curatrice di reportage per la BBC, il suo sito ufficiale èwww.beerowlatt.com.

Emanuela Zanardini

"STRADA DI CHI SOGNA CAMMINANDO SU GOMITOLI" di Maria Romano.


Vi giungerò a piedi
Calpesterò pezzi di vetro e sanguinerò
Tanto lungo sarà il cammino che a metà strada mi fermerò
E guarderò i passeri in cielo
Poi sfilerò gomitoli di lana
E senza sosta proseguirò il sentiero.

Maria Romano

L'arte di Benedetta Barilli.



Il mio quadro non rappresenta una figura femminile, ma, ridotto al minimalismo puro, il concetto della femminilità orientale. Ho attinto ai colori intensi dei loro sari, ai particolari preziosi dei loro abiti, gioielli,...luci, sensazioni. Colori,che ho attinto guardando diversi libri fotografici.Un viaggio nel loro mondo.Che non vedrò, personalmente.

Benedetta Barilli

'Donne che amano troppo'' di Emma Fenu.

''Donne che amano troppo'', quando si tenta di lenire la paura dell'abbandono con un tentativo, esasperato, di controllo Donne che amano troppo, amore, donne, libri, Robin Norwood libreriamo.it

Sono cresciuta nella convinzione che l’amore non fosse mai troppo.

A volte troppo poco, certo.

Ma, in sostanza, incommensurabile, come quello di un Dio Padre e di una Dea Madre, di cui i genitori sono lo specchio tangibile e il modello da imitare.


La misura dell’amore è amare senza misura”.
Sant’Agostino


Non a caso, se pur inconsapevolmente, da adulta, destinai i tre anni del mio Dottorato di Ricerca all’analisi della figura di Maria Maddalena, la quale, secondo l’ibrido creato da Papa Gregorio Magno, è la prostituta che ha ottenuto il perdono da Gesù Cristo in virtù del suo “aver molto amato”, divenendo, perfino per i monaci maschi, esempio di devozione.

La mia tesi era farcita di citazioni intertestuali, come molti dei miei scritti, del resto, e si concludeva con una, che riassumeva non soltanto lo studio antropologico, iconografico e teologico al quale mi ero dedicata, ma, soprattutto, il mio percorso di Donna, prima ancora che di ricercatrice:


Sono nata non per odiare, ma per amare”.
Antigone, Sofocle


Eppure "amare troppo" si può. E’ un errore che spesso si tinge di rosa, connaturato con l’essenza femminile che, talvolta, colma i vuoti dell'anima con infauste accoglienze.

“Amare troppo”, dunque, si può, ma, talvolta, non si deve.

Non si deve, se ciò implica la giustificazione di un compagno inadeguato e il conseguente desiderio di redimerlo e guarirlo dai tormenti dell’anima, mettendo a repentaglio la propria salute e calpestando la propria autostima.

Non si deve, se non si tratta di un sentimento positivo, ma di una malata ossessione, che tenta di lenire la paura dell’abbandono con un tentativo, esasperato, di controllo.

Non si deve, se non si è capaci di accettare che la prima relazione costruttiva deve essere instaurata con se stesse, quale premessa essenziale affinché si possa, in seguito, essere compagne felici ed equilibrate.

In occasione dell’approssimarsi del 25 Novembre, giornata designata per la lotta contro la violenza sulle donne, in merito alla quale ho già accennato nello scorso intervento, vi invito a rileggere un libro, “Donne che amano troppo”, edito negli anni ’70 dalla psicologa americana Robin Norwood, eppure tutt'oggi ricco di interessanti spunti di riflessione sulle dinamiche psicologiche che si possono originare nelle menti delle vittime di relazioni logoranti.

Donne che amano troppo sviluppano relazioni in cui il loro ruolo è quello di comprendere, incoraggiare e migliorare il partner; questo produce risultati contrari a quelli sperati: invece di diventare grato e leale, devoto e dipendente, il partner diventa sempre più ribelle, risentito e critico nei confronti della compagna. […] Il suo insuccesso è totale: se non si riesce a farsi amare neppure da un uomo così misero e inadeguato, come può sperare di conquistare l'amore di un uomo migliore e più adatto a lei?”.

Emma Fenu