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martedì 13 gennaio 2015

"FIABA DI NATALE" di Diana Mayer Grego


È arrivato presto l’inverno quest’anno. Questa notte la neve ha imbiancato la montagna, siamo appena i primi di dicembre, presto sarà Natale.
Le cime si nascondono timidamente dietro le nuvole. Dalla pianura si alza un leggero velo, respiro della terra umida con l’affacciarsi del primo sole. L’aria è limpida e le montagne sembrano vicine, ma io lo so che sono lontane e il mio cammino è ancora molto lungo, nulla in confronto al viaggio che ho fatto per arrivare fino a qui. Manca poco, presto sarò finalmente a casa.
Due stagioni sono passate da quando iniziai il mio viaggio, ero giovane, irrequieto, avevo voglia di conoscere il mondo. Ero nato e cresciuto in una baita nelle alte Alpi Carniche, la mia casa era a due piani, a vederla di fuori era carina, il pian terreno era rivestito di pietre e il piano superiore era ricoperto interamente in legno, con un grande balcone, dove la mamma d’estate esponeva i suoi bellissimi gerani rossi. Dietro la casa c’era la legnaia, dove il mio papà accatastava la legna per l’inverno. Appena entravi c’era un piccolo disimpegno a sinistra entravi nella grande cucina, dove la mamma cucinava sullo sparger d’inverno e con la cucina a gas d’estate. Come tutte le cucine di montagna avevano anche un piccolo divano per stare comodi al calduccio. A destra c’era il salotto, era più una stanza adibita a studio dove mamma e papà passavano il tempo al computer e la sera guardavamo tutti assieme la televisione sdraiati sul grande divano, in un angolo c’era il caminetto, io preferivo guardare lo scoppiettare della legna, la televisione m’interessava poco e passavo le ore davanti al fuoco, tanto che papà mi fece un piccolo divanetto per stare comodo, però d’estate quando il caminetto non era acceso, mi piaceva stare in mezzo a loro sul divano grande.
Al piano di sopra c’erano le stanze da letto, belle confortevoli con un buon profumo di legno e di lavanda. Si saliva solo per dormire. Sia sotto sia sopra c’era un bagno, quando ero più piccolo la mamma mi chiudeva dentro per castigo, pochi minuti che a volte mi parevano ore, altre volte mi perdevo a giocare con l’acqua, non era poi un castigo così terribile.
Mia mamma e mio papà erano persone umili, con un grande cuore, erano esemplari. Non mi mancava nulla, mangiavo a sazietà, il mio letto era sempre in ordine fresco d’estate e caldo d’inverno. D’inverno faceva molto freddo, come ora, ricordo con nostalgia le belle serate passate davanti al camino accesso, ho sempre avuto un certo timore del fuoco, ma quanto era bello sentir scoppiettare i ceppi nel camino. L’inverno non c’era molto da fare al mio paese, ma io con papà uscivo ogni giorno, anche nelle giornate di tormenta. Era molto coraggioso il mio papà, mi metteva il cappotto e via a fare scorribande sulla neve, quanti ruzzoloni e capriole facevamo. Rientravamo fradici e la mamma si arrabbiava tantissimo, aveva sempre paura che ci ammalassimo, io però non mi sono mai ammalato, papà invece sì.
Ricordo una volta che ebbe la febbre molto alta e la mamma non voleva che entrassi nella sua stanza, aveva paura che mi contagiasse, ma io piagnucolai parecchio e lei cedette, funzionava sempre! La mamma aveva il cuore buono e non è mai riuscita a resistere ai miei occhioni languidi, devo ammettere che a volte ne ho approfittato per ottenere quello che volevo.
Anche quella volta cedette e mi aprì la porta, entrammo, la stanza era molto buia, sentivo il respiro affaticato di papà, sentivo l’odore delle medicine e del sudore, mi spaventai! Papà stava molto male, la mamma gli metteva le pezze di acqua fresca sulla fronte. Io mi distesi ai piedi del letto e non mi mossi più di lì, ogni tanto papà mi chiamava con la voce tremolante e mi sorrideva. Io scattavo in piedi e mi avvicinavo alla sua mano, lui debolmente poggiava me la sulla testa per un attimo poi tornava inerme, era molto debilitato. Io ero felice perché sapevo che la mia presenza gli faceva bene. Mamma si ostinava a volermi far uscire, ma io facevo peso morto, uscivo solo per mangiare e andare al bagno, dopo due giorni, mamma cedette e iniziò a portare da mangiare a entrambi in camera. Io non mangiavo finché non vedevo che anche papà mangiava, così facendo lui si sforzava di prendere qualche cucchiaio di brodo caldo, poi mi diceva «Visto? Ho mangiato, ora mangia anche tu.» se si limitava a due cucchiai io, non aprivo bocca e mi lagnavo, così lui mangiava ancora un po’, poi mamma mi diceva di mangiare ed io obbedivo, lei mi stava vicino e mi carezzava la testa. Ricordo le sue carezze piene d’amore, quanto mi sono mancate in questi mesi. Ogni volta che ci ripenso, mi vengono le lacrime agli occhi, ma non piango, sono fiero.
Alla fine papà guarì. Riprendemmo la vita di sempre. Quando andavamo al bar del paese, papà raccontava a tutti di quanto ero stato bravo durante la sua malattia, era orgoglioso del suo ragazzo. Allora tutti gli amici si congratulavano con me, chi mi faceva un puffetto sulla frangia, chi mi dava una pacca sulle spalle, mi faceva sentire grande e amato, ero uno di loro.
Al bar venivano anche piccoli amici come me, e mentre i grandi chiacchieravano bevendo vino, noi giocavamo alla lotta e ci correvamo dietro, a volte eravamo così irruenti che ci dovevano richiamare all’ordine, nei casi peggiori ci separavano e ci mettevano in castigo ognuno vicino alla sedia del proprio papà. Mi divertivo molto a uscire con papà.
Anche con la mamma uscivo, ma lei non si rotolava come papà, diceva che era una signora e non stava bene fare il clown. Quando uscivo con lei, facevo il bravo, sapevo di renderla felice, andavamo a fare la spesa, io mi annoiavo al supermercato e preferivo aspettarla fuori, non mi allontanavo mai dalla porta e poi il paese era piccolo e mi conoscevano tutti. Così mentre aspettavo la mamma, salutavo cordialmente tutti quelli che passavano, qualcuno veniva vicino e mi faceva un puffetto sulla frangia. Avevo una frangia irresistibile!

La fuga

Non so cosa mi saltò in mente quel giorno! Era primavera inoltrata, avevo gli ormoni in subbuglio, una gran voglia di conoscere il mondo al di fuori del piccolo paese dove ero nato. Così, quando vidi il furgone delle consegne delle bombole del gas, che sarebbero servite per l’estate, decisi di mollare tutto . Volevo andare a conoscere la città. Ovviamente non avrei potuto chiedere un passaggio esplicitamente, quindi salì nel retro del furgone e mi nascosi dietro la pila di bombole, dove non potevo essere visto.
Percorremmo tanti chilometri ed io di tanto in tanto sbirciavo fuori dal finestrino, ero eccitato da questa nuova avventura, guardavo curioso il paesaggio cambiare, avevamo lasciato alle spalle le amate montagne e ci stavamo dirigendo verso la pianura. Il furgone si fermò più volte ed io stetti molto attento a non farmi trovare, ero terrorizzato ogni volta che l’uomo del gas saliva per prendere le bombole, non sapevo come avrebbe reagito alla vista del clandestino.
Passammo tutta la pianura e vidi diversi paesi, erano tutti uguali, c’erano case, strade e stradine, bei giardini con tanti amici come me che giocavano felici all’aria aperta, c’era la Chiesa, il cimitero. Non mi sono mai piaciuti i cimiteri, c’era troppa puzza di fiori marci mi veniva la nausea ogni volta che la mamma mi ci portava, in compenso c’erano tanti gatti ed io mi divertivo molto a rincorrerli, e ogni volta finiva che la mamma mi sgridava perché in cimitero non si deve giocare, è un posto serio, dove dormono le anime dei morti. Io non capivo queste cose, però ubbidivo.
Tornando al paesaggio vidi che c’era la macelleria, il nostro macellaio mi era molto simpatico, lo riconoscerei fra mille, ha un buon odore e ogni volta che andavamo a fare compere dal lui, mi faceva un regalo.
I paesi si susseguirono ed erano tutti uguali, un po’ ne fui deluso, chissà cosa mi aspettavo, avevo lasciato la mia casa per conoscere il mondo e il mondo era esattamente come casa mia.
Ero così assorto dai miei pensieri che non mi accorsi che il furgone si era nuovamente fermato. Il portellone si aprì e la luce entrò abbagliandomi, non feci in tempo a nascondermi, udì un urlo. «Che ci fai tu qui!?»
Il tono della voce era minaccioso, mi rannicchiai in un angolino, non vedevo nulla accecato dal sole che entrava prepotente. La figura entrò e si fece avanti urlando. «Vattene! Esci da qui!»
Ero terrorizzato, ebbi paura che mi volesse picchiare e così preso dal panico, mi lanciai fuori dal furgone. Feci un balzo e mi ritrovai su una strada, era diversa da quelle che conoscevo. Io ero abituato alla terra con la ghiaia, che però quando saltavo mi faceva un po’ male, questo suolo invece era liscio grigio, non ne avevo mai calpestato uno, era piacevole.
Dopo un secondo di sgomento iniziai a correre velocemente, dietro di me sentivo ancora le grida dell’uomo del gas. Non capivo dov’ero, d’un tratto sentì uno stridio, mi voltai e vidi davanti a me una macchina molto grande che stava per investirmi, mi spaventai e corsi ancora più forte per sfuggirle. Sentì provenire dalla parte opposta lo stesso rumore accompagnato dal suono del clacson, mi girai e provai a tornare indietro, mi sembrò impossibile era piano di macchine e tutte stridevano minacciose, vedevo che gli uomini all’interno dell’abitacolo gridavano, ma non sentivo nulla di quello che dicevano, i loro occhi e i loro gesti erano minacciosi. Mi rigirai più volte su me stesso senza lasciare la posizione dove mi trovavo, mentre le automobili sfrecciavano intorno a me. Ma com’era possibile? Perché non si fermavano? Eppure mi vedevano.
Guardai in tutte le direzioni, ci fu un momento in cui non passarono le macchine, allora iniziai a correre verso i campi, corsi a perdifiato, volevo allontanarmi più possibile da quell’incubo, ad un certo punto dovetti fermarmi perché mi sembrò che il cuore mi scoppiasse nel petto. Ebbi bisogno di riprendere fiato, la strada con le automobili l’avevo lasciata da un pezzo e mi trovai dentro un campo. Finalmente stavo camminando sulla terra.
Rimasi fermo e spaventato per molto tempo, in mezzo al campo, mi sentivo al sicuro. Nel frattempo si stava facendo sera e avrei dovuto trovare un posto dove dormire. Mi guardai attorno e non c’era nulla solo distese interminabili di campi, in dietro non potevo tornare, lì c’era la strada ed era pericoloso. Dovevo trovare un bar, lì avrei potuto trovare sicuramente degli amici che mi avrebbero aiutato a tornare a casa, ero appena partito ed ero già pentito di quest’avventura.
Camminai a lungo, ero molto stanco e affamato, inizia a rendermi conto della cavolata che avevo fatto a lasciare il mio paese, la mia casa e la mia mamma e mio papà.
Al confine fra un campo e un altro vidi un capanno degli attrezzi, era molto simile alla nostra legnaia. La finestra era aperta, senza vetri, decisi di saltare dentro e ripararmi per la notte, l’indomani avrei cercato un bar.
Mi addormentai sfinito e quella notte sognai le carezze della mia mamma, seduti sul divano davanti al caminetto acceso, il salotto era inondato di una luce tenue e avvolgente, tutto era tinto di colori arancio.
Quando aprì gli occhi, speravo di essere fra le mie coperte e che tutto quello che avevo vissuto il giorno prima fosse stato solo un brutto sogno.
Invece ero nel capanno degli attrezzi di chissà chi, in un campo sconosciuto, lontano da casa chissà quanto, solo, stanco e affamato.
Mi lasciai prendere dallo sconforto e mi riaccoccolai nella speranza di trovare un po’ di calore, in realtà era quasi estate e non faceva freddo, avevo tanto freddo nel mio cuore. Piano piano spunto il sole, dovevo agire e trovare al più presto un bar, lì mi avrebbero aiutato e anche dato da mangiare.
M’incamminai e passai i campi, vidi che erano tutti costeggiati da una stradina di ghiaia, dovevo seguire quella traccia e poi avrei fatto meno fatica a camminare lì piuttosto che sulla terra arata, sprofondavo ad ogni passo.
La stradina terminò e mi ritrovai nuovamente sull’asfalto grigio, memore della brutta esperienza del giorno prima fui assalito dall’ansia di trovarmi nuovamente fra le macchine, lo stridio dei freni e i clacson mi rimbombavano ancora nelle orecchie. Avevo imparato la lezione, ero molto vigile, mi guardavo con sospetto intorno, appena passava una macchina, mi buttavo giù nei campi.
Nel capanno trovai un secchio pieno d’acqua, prima di partire bevetti molto. La sete non si placava, avevo bisogno di trovare acqua e cibo, ma soprattutto dovevo trovare il bar.
E lo trovai, solo che non fu per nulla quello che credevo, appena entrato, mi resi conto che le persone erano ostili. Iniziarono a gridarmi di uscire, di andarmene, non capivo. Cercavo solo aiuto per tornare a casa invece mi trattavano male.
Un omone prese una scopa e iniziò a minacciarmi, mi spaventai molto e indietreggiando uscii dal locale. Ero molto triste e mi sedetti a un angolo, mi veniva da piangere, ricordavo i bei momenti passati nel bar del mio paese con mio padre sempre pronto a difendermi, non capivo perché lì nessuno mi volesse bene, era come se avessero paura di me, invece ero io ad avere una paura fottuta. Iniziò a piovere.
Rimasi per molto tempo sotto la pioggia, tutto bagnato, seduto sullo scalino, non sapevo cosa dovevo fare, dove dovevo andare, una signora uscì dal bar e mi vide, penso che gli feci molta compassione e mi disse di seguirla, io in silenzio mi misi dietro di lei e con la testa bassa andai con lei, mi fece accomodare nel suo garage, mi portò da bere e da mangiare, mi diede una coperta e mi chiuse dentro. Per un attimo ebbi il terrore di essere nuovamente prigioniero come lo ero stato nel furgone, ma ero troppo stanco e affamato per ribellarmi, mangiai tutto fino all’ultima briciola e poi mi avvolsi nella coperta e mi addormentai in un sonno profondo.
Dormì per molte ore, quando mi svegliai, bevetti l’acqua rimasta, per fortuna la signora gentile me ne aveva lasciata tanta. Mi guardai attorno e non c’era molto nel garage, degli scaffali pieni di cose strane, qualche vaso di pittura molto puzzolente, l’odore mi toglieva il fiato, iniziai a girare per tutto il perimetro della stanza, ero irrequieto, non mi piaceva essere prigioniero, avevo paura. Piano piano la mia paura si trasformò in un terrore che mi paralizzava. Chissà cosa mi avrebbe fatto? 
All’improvviso la serranda si alzò e la luce entrò prepotente nella stanza, senza pensarci nemmeno un attimo scattai e scappai fuori. Sentì la signora gridare, non sembrava minacciosa, ma ero troppo spaventato e iniziai a correre. Ricordai dell’esperienza vissuta fuori dal furgone, quindi mi fermai un attimo per vedere se arrivavano macchine, per fortuna la strada era deserta e così ripresi a correre. Corsi così forte e per così tanto tempo che solo dopo molto tempo mi resi conto di aver lasciato alle spalle la cittadina, alzai lo sguardo e vidi in lontananza le montagne.


Il ritorno

Le mie montagne, il mio cuore ebbe un sobbalzo, emozione mista a gioia. Era in quella direzione che dovevo andare per tornare a casa. Ero felice, non avevo più bisogno di nessuno che mi aiutasse, dovevo solo intraprendere il mio cammino del ritorno.
Quel giorno camminai tantissimo, preso dall’entusiasmo di aver trovato la strada di casa. Ero stanco e avevo tanta fame, dovevo trovare un posto dove fermarmi per la notte, iniziava a tramontare il sole. Vidi in lontananza un casolare, forse una stalla, arrivato trovai un abbeveratoio per gli animali, senza pensarci un attimo mi buttai quasi dentro per bere, la mia gola era asciutta, mi riempii la pancia d’acqua, era comunque un sollievo. Mi guardai in giro nella ricerca di cibo, la porta della stalla era aperta, entrai facendo molta attenzione, avevo capito che da quelle parti erano ostili con i forestieri, in un angolo trovai un secchio piano di latte, non era come una bella bistecca ma avrebbe placato la mia fame per un bel po’. Le mucche erano pacifiche, mi nascosi e attesi che il contadino venisse a ritirare il latte, sapevo che poi non sarebbe più tornato fino al mattino dopo e io avrei potuto dormire tranquillo, così fu.
Mi feci un piccolo giaciglio con la paglia e mi addormentai. Alle prime luci dell’alba mi sveglia, bevetti ancora tanta acqua e m’incamminai. Passarono diversi giorni di cammino e bevetti e dormì dove capitava, mi trovai anche a rovistare nei cassonetti per mangiare, avevo lasciato la mia casa per scoprire il mondo e mi ritrovavo a essere un barbone.
L’estate era finita, ormai era iniziata la stagione delle piogge ed era sempre più difficile trovare un riparo asciutto, avevo perduto molti chili, mi guardavo specchiandomi nelle pozzanghere e mi vedevo smunto, sporco e infreddolito, le mie montagne erano sempre più vicine, mangiavo quello che trovavo per le strade, qualche rarissima volta qualcuno mi allungava qualche pezzo di pane. Ero umiliato e abbacchiato, quando la sera mi addormentavo agli angoli delle strade, mi consolavo ricordando i momenti felici assieme alla mia mamma e al mio papà nelle belle serate dove si stava insieme tutti accoccolati sul divano. Mi addormentavo sognando le carezze di mia madre che mi rimboccava le coperte per assicurarsi che io sia coperto nelle lunghe notti d’inverno, sognavo mio padre quando giocava con me a rincorrerci. Chiudevo gli occhi sognanti e mi chiedevo. “Chissà se dopo tanto tempo si sono dimenticati di me? Chissà se gli manco così quando loro mancano a me?”
Le lacrime scendevano copiose lungo le mie scarne guance, mi addormentavo ogni sera pieno di nostalgia.
La mattina appena sorgeva il sole riprendevo tutta la mia tempra combattiva e ripartivo per il mio cammino, giorno dopo giorno macinavo chilometri che mi separavano dalla mia casa.


Manca poco

E mentre pensavo a tutte le peripezie dei mesi passati anche oggi avevo fatto molti chilometri.
Sono sempre più stanco e cammino a fatica, ma tengo duro, manca veramente poco. Da qualche giorno ho intrapreso la salita, riconosco gli odori, i profumi, salgo su per la strada che porta verso il mio paese, ho deciso che non seguirò tutta la strada è troppo lunga, taglierò su per il bosco, anche se è caduta molta neve, penso che nel sottobosco sarà comunque facile camminare. Arriverò a casa da dietro, però risparmierò alcuni giorni di cammino.
La decisione di intraprendere questa scorciatoia non è stata molto produttiva, la neve in realtà è molto alta anche nel bosco, faccio molta fatica ad avanzare, sprofondo ad ogni passo e sono gelato, non sento più gli arti e le vesciche sono sempre più sanguinanti.
Questa notte per dormire scaverò una buca che mi proteggerà dal freddo, questa secondo i miei calcoli dovrebbe essere l’ultima notte fuori di casa. Sono molto eccitato all’idea che domani arriverò a casa, dopo tanta strada percorsa e tutte le brutte avventure che mi sono accadute. “Sono anche spaventato, mamma e papà si ricorderanno di me? Saranno arrabbiati e mi puniranno?” È un rischio che mi piacerà correre, assaporo il calore del caminetto e la coperta calda mentre mi addormento congelato nella neve. Quella notte sogno di andare con papà a tagliare l’abete nel bosco, mentre torniamo a casa con il “bottino” ci investe il profumo dei dolci appena sfornati dalla mamma, poi tutti assieme passiamo il pomeriggio ad addobbare l’albero, io sono un po’ goffo, ma li aiuto come posso e loro ridono a vedermi portare i gingilli per tutta la casa.
Domani sarà la vigilia di Natale.

La vigilia

Mi sono alzato presto, fa troppo freddo e ho paura di morire assiderato, il sole non è ancora spuntato, sarà meglio che mi metta in cammino, sono molto stanco e cammino a fatica, ci impiegherò tutta la giornata per raggiungere casa, ho gli arti tutti anchilosati, mi fa male tutto, la schiena è in pezzi, sono tutto bagnato, ho ghiaccioli di neve dappertutto, la gola è secca, e sono diversi giorni che ho anche una brutta tosse, respiro a fatica.
Sto risalendo l’ultimo tratto di salita, tra pochi metri uscirò dal bosco e vedrò la mia casa.
Sento in lontananza il rumore dell’accetta che spacca la legna, è il mio papà sicuramente che sta preparando la legna per accendere il caminetto, il mio papà. «Papà!»

Devo fare ancora uno sforzo per scollinare, poi riuscirò a vederlo e lui vedrà me. Provo a chiamarlo ma la voce non esce, un lamento è il massimo che riesco a fare, per un attimo il ritmo dello spaccalegna s’interrompe, “Forse mi ha sentito?” ma poi riprende il suo lavoro. Non ce la faccio più, mi trascino arrancando nella neve alta, ho scollinato, lo vedo «Papà!» provo a chiamarlo, ancora una volta la voce non esce, solo uno stridulo lamento, lui si ferma, è intento a raccogliere la legna, si alza, scruta l’orizzonte, sta guardando verso la strada, il mio papà, mi viene da piangere, quanto tempo ho desiderato rivederlo «Papà sono qui, non ce la faccio più!» vedo che si guarda attorno, ha sentito qualcosa, ma non riesce a capire che sono io o non mi vede, non ce la faccio ad alzarmi in piedi, mi sta prendendo lo sconforto. «Papà!» provo per l’ultima volta con tutto il fiato che ho in gola.
È in quell’attimo che si volta dalla mia parte e lo sento dire timidamente il mio nome «Buk?»
Lo sguardo smarrito e triste di mio padre si incontra con il mio debole e speranzoso. Lo sento gridare sempre più forte «Buk!» «Papà sono qui …» dalla mia gola esce un urlo strozzato.

«BUK!!!» vedo il suo volto illuminarsi di luce, lascia cadere la legna che portava sotto braccia e inizia a correre verso di me «Sofia! Sofia!!!» lo sento chiamare la mamma «Sofia è buk! È tornato!» vedo dopo un attimo la mia mamma apparire da dietro la casa, ha il suo vestito e il grembiule legato attorno alla vita, in mano tiene ancora lo strofinaccio per asciugarsi le mani, probabilmente stava preparando la cena, la sento gridare il mio nome, la sua voce è piena di gioia «Bok!» corrono verso di me, chiudo gli occhi e mi lascio scivolare nell’oblio, non sento più nulla solo in lontananza le loro voci chiamarmi. Sento le forti braccia di mio padre strapparmi alla neve, sollevarmi e correre con me in braccio. Dietro sento la mamma che dice «Presto portalo dentro!» mi abbandono nelle sue forti braccia.
C’è un gran trambusto
«Sofia presto chiama il dottore!»
«Sì! Tu accendi il fuoco, poggialo lì!»
«Buk! Buk!» sento che mi chiamano e le loro voci sono strozzate dal pianto e dalla gioia. Papà mi adagia sul divano, sento il morbido plaid sotto di me.
Quanto ho desiderato questo momento, respiro a fatica, la mamma si distende di fianco a me per scaldarmi, con un panno mi liscia il pelo e mi copre con la coperta, guardo verso il caminetto, c’è l’albero di Natale e sotto ci sono il mio divanetto e le mie ciotole.
Non mi hanno mai dimenticato.

Diana Mayer Grego


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