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lunedì 12 gennaio 2015

DRASTICA-MENTE, racconto di Mary Skellington Greenwood.

Pioveva. La pioggia cadeva ininterrottamente dal cielo notturno, battendo sui tetti. Gocce d’acqua rumorose che cadendo sui vetri lindi delle finestre carezzandoli e morendo infrangendosi sull’asfalto caldo al passaggio di veicoli, hanno vita breve. Veicoli pieni di anime, pieni di storie, pieni di progetti, pieni di sogni. Ognuno aveva un sogno a cui far fronte, a cui aggrapparsi, a cui credere: per questo si sceglieva come meta New York. Nella Grande Mela, nessun sogno sembrava troppo irrealizzabile. E anche per chi le speranze erano pressoché nulle, quella città offriva almeno l’opportunità di crederci. Perché se non si avevano ambizioni, sogni, era difficile poter credere di vivere. Si moriva dentro senza nemmeno accorgersi di avere già un piede nella fossa. Non era facile vivere la sua vita e Jeremy lo sapeva benissimo. Lo sapeva anche quella sera, quando guardando fuori dal finestrino del taxi, le luci passavano nei suoi occhi come mille lucciole imbestialite. C’era una puzza strana nell’abitacolo posteriore del veicolo: un odore acre. Il conducente fumava eccessivamente. Con il mozzicone quasi finito, accendeva il cilindro di tabacco nuovo e sembrava affogare i suoi pensieri, eliminandoli dal suo corpo mentre buttava fuori nuvole di fumo grigio. Ogni tanto rivolgeva la parola a Jeremy, ma lui sorrideva distrattamente, senza degnarlo di una risposta. Quasi come se ciò che avesse da dire non interessasse al giovane, che con la faccia spiaccicata contro il finestrino grondante e le mani sul vetro, guardava fuori con l’aria sognante di chi ha visto il regalo tanto attesto sotto l’albero la mattina di natale. Le luci cittadine erano quasi familiari e i mille volti sconosciuti che passavano random di fronte al suo sguardo frugante portavano la mente del giovane a vagare. Vagare senza meta. A creare storie, a creare profili psicologici attribuiti ad ogni volto. Era da sempre uno dei suoi giochi preferiti. Nel mentre che si ricomponeva, seduto comodamente sul sedile dell’auto, passavano nella mente alcuni dei momenti più felici della sua infanzia. Gli unici. Poiché dopo i dieci anni, vuoto totale. Pensava sempre molto volentieri a Febe. La piccola Febe. Una ragazzina coraggiosa e determinata che era stata la sua più cara amica da bambino. Poi l’incidente. Poi il trasferimento. Poi il niente. Poi il buio. Ricordava sempre con un sorriso i giochi che lo rendevano felice: come contare le macchine bianche che passavano mentre Febe contava le nere, inventare favole con protagonisti gli strambi personaggi che abitavano in periferia. A volte pensava addirittura di convincersi di essere nato nella sua città. Non ricordava se era la verità, o se il motivo di tale convinzione era che, probabilmente, i suoi occhi, che ancora sapevano vedere e leggere, avessero intravisto il nome di quella metropoli scritto da qualche parte. Non ricordava nemmeno i suoi genitori. Le loro voci, i loro volti, i loro modi di fare. Non ricordava nemmeno la casa dove era nato. A tratti flash di pareti azzurre carta da zucchero e una sedia a dondolo di legno bianco. Ma Febe la ricordava. Benissimo. Ricordava i suoi occhi nocciola. Il neo dentro l’iride caramellata. Il modo di intrecciarsi i capelli. Una treccia di lato e l’altra parte spettinata, con ciuffi che penzolavano sulle spalle. Jeans strappati e camicette colorate. Uno dei due dentini davanti spaccato diagonalmente e qualche simpatico difetto di dizione. Si, Febe la ricordava benissimo. 
- La prego, al prossimo isolato si fermi – dice il ragazzo, scuotendo la testa e toccandosi i capelli castani, con espressione visibilmente tesa sul volto. –Devo assolutamente fermarmi – Il conducente, senza dire una parola, asseconda la richiesta del giovane, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. In fondo non fa altro che il suo lavoro: percepisce il suo guadagno e spera in una mancia. Tutto lì. Del resto, bellamente, se ne frega.

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