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sabato 10 gennaio 2015

"Carla aveva un dolore", racconto di Martino Sgobba.

Carla rigirava fra le mani la spazzola. Inseriva e disinseriva l’impugnatura. Era un oggetto che adoperava da tanti anni, da quando era ragazza e non sapeva che sarebbe giunto il tempo in cui i suoi lunghi capelli neri non avrebbero trovato qualche quadrante sui seni. Tormentava la spazzola, si guardava allo specchio e ripeteva a se stessa la lunga storia raccontata all’uomo che ora era disteso nel suo letto. Era stupita di come il suo corpo fosse stato celebrato. Bistrati dal desiderio, gli occhi tristi erano tornati alla nera bellezza di quando, da ragazza, sfidava gli sguardi dei passanti, militi ignoti del desiderio. La bocca si era lasciata aprire e derubare di ogni gemito. I seni si erano lasciati vendemmiare a piccoli morsi dappertutto e anche nella parte del dolore e dell’ansia. 
Sorridendo della nudità del suo corpo, che sentiva ancora più scrutato di quello della figlia sedicenne, cominciò a far scorrere la spazzola. Colpo dopo colpo, lentamente e con forza, così come, dopo la prima disordinata frenesia della reciproca esplorazione, era stata posseduta. Ma, per quanto si sforzasse, Carla non riusciva a non pensare alle parole che, dopo l’amore, non aveva saputo trattenere. Aveva ricordato ciò che per se stessa non aveva mai depositato in una storia o, almeno, in una cronaca delle gioie e dei i dolori, degli entusiasmi e delle delusioni. Non aveva nascosto nulla e non si era accorta che il suo racconto si era nutrito di lacrime, di silenzi, di abbracci sempre più forti, di mani sempre più strette. Poi alla fine delle parole, quando ciascuno era tornato ad essere il proprio corpo, lui le aveva chiesto un dono, quel dono. A quella richiesta, Carla aveva capito di essersi messa completamente a nudo, di aver consegnato la trama della sua esistenza a quell’uomo.

Senza essersi mai davvero conosciuti, si erano rincontrati, dopo tanti anni, seduti vicini in una biblioteca di provincia, a fingere di ascoltare una comune amica che si romanticava nella lettura di liriche sdolcinate, secrete dalla noia cisposa di una donna diventata sedicente poetessa per mancanza di figli da accudire. Avevano sorriso imbarazzati e spontaneamente erano usciti per una lunga passeggiata di silenzio e di pensieri. Solo rare domande, per lo più disertate da risposte. L’esistenza si presenta anche con un certo modo di camminare, di smorzare una frase, di offrire il volto allo sguardo. Le parole possono essere soltanto punteggiatura di un discorso di corpi che infine si riconoscono prendendosi per mano.
Alla fine del silenzio, come un secco colpo di frusta, lui le aveva detto: - “Qual è il tuo dolore? Il mio è quello di aver sprecato molto”. Carla si era arresa. Anche lei aveva sprecato molto: aveva travolto madri, padri, uomini, aveva concesso meno di nulla o più di troppo. Si era lasciata trascinare e sprofondare e, poi, era riuscita a trovare una salvezza sentita come colpa e sempre provvisoria. Carla sentiva che lui parlava di altri abissi, ma anche della stessa fatica di lasciarseli alle spalle e della stessa paura di non esserne ancora fuori.

Nello specchio, lo vide rivestirsi.
La richiesta di quel dono cominciò a bussare forte nel suo cuore, nella sua testa, nel suo ventre, nelle sue mani. Tolse l’impugnatura della spazzola e, dalla cavità rimasta libera fece cadere una striscia di color argento opacizzato dagli anni. L’ultima dose di eroina, quella che aveva deciso di non amare più, l’aveva nascosta lì. Non l’aveva più usata, perché il suo ragazzo le era morto fra le braccia. Quella morte l’aveva salvata. Quella cartina era rimasta a scorrerle fra i capelli per venti lunghi anni. Un dolore ripetuto infinite volte. Prese quel dolore e lo donò alle mani che poco prima l’avevano ascoltata e accolta. Quelle mani lo avrebbero gettato via, sotto le ruote di un automobile o in fessura polverosa di marciapiede. Poi sarebbero tornate a sciogliere i capelli di Carla.

Martino Sgobba

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