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sabato 31 gennaio 2015

"La stanza bianca" di Maria Romano.


Nella foto Michael sta spegnendo le candele, undici anni. Anne, sua sorella più piccola, gli sfiora il cappellino colorato e guarda intimidita la fotocamera, dietro, mio marito ha una faccia strana, è buffo e ha gli occhiali al contrario, affianco al suo corpo massiccio, ci sono io, sorrido. 
È bello rivedere il mio vero sorriso, ora al suo posto c'è solo uno spettro. 
È strano ricordare, fa male delle volte, sembra sia accaduto solo ieri, in verità, sono passati cinquant'anni. 
Ho trovato questa foto oggi, tra le pagine del mio diario, non ho pianto appena l'ho vista, il dolore è così forte che il male è cosa quotidiana qui, il pianto non risolverà le cose, non risolverà niente. 

Le pareti sono bianche, le stanze asettiche, c'è puzza di lacrime, e la certezza di dover morire da sola, è sempre nascosta dietro l'angolo e la notte si intrufola nei miei incubi.
Quel giorno Michael spense undici candele Blu, io, sua madre, gli preparai una torta, temevo non gli sarebbe piaciuta, invece, quasi la divorò. Ora dove sarà?
Anne, la piccola Anne, dai lunghi capelli biondi, desiderava ardentemente quel cappellino, alla fine gliene comprai uno identico, e il suo desiderio venne esaudito. 
Ora dove sarà?
Mio marito è morto, un anno fa. 
Cosa mi resta? Se non un misero foglio su cui scrivere e una vecchia fotografia della felicità? 
Vorrei capire dove ho sbagliato, vorrei comprendere, ma non ci riesco, ho in testa mille domande ma le risposte non arriveranno mai, ci sono domande che restano senza risposta.
Mi sveglio, più vecchia di un giorno. 
Sto appassendo, tutti, anche i fiori più belli, alla fine, muoiono.
Qui, all'ospizio di S. Lucia, ci sono statue di ossa, statue che, come me, rincorrono i ricordi, attendono, cercano risposte, aspettano persone che non rivedranno mai più. 
Eppure quel giorno non attesi un secondo, le comprai il cappellino. Pur essendo una pessima cuoca, gli preparai una torta, ho fatto di tutto pur di rendere i miei figli felici. 
Dove ho sbagliato?
La foto è immobile nella mia mano, eterno attimo di gioia.
Dalla finestra della mia stanza guardo persone passeggiare per le strade, libere. 
Io sono un leone in gabbia, un leone che si è arreso. 
Domani il sole sorgerà alto e chissà per quanto ancora potrò godere della sua luce.
Il diario ha ormai finito le sue pagine e i ho scritto abbastanza. Ho reso eterna la mia vita, con le parole.
Maria Romano

E' QUESTO L'AMORE, di Mirella Frascolla.

Sto cercando qualcuno
che mi spieghi l'amore
mentre aspetto che arrivi il tuo treno
qui, in piedi, tra la gente
che mi passa accanto.
Mi interrogo per capire.
E' questo sentirsi profondamente
in pace con se stessi,
questo trovare un riparo
dalla propria inquietudine e dalle paure,
questo vedere negli occhi dell'altra
lo stesso desiderio irrefrenabile,
la stessa gioia di stare insieme,
lo stesso impulso si stringersi,
avvolgersi, sfiorarsi con ogni parte del corpo?
Questa lotta con il tempo
che nei momenti dell'amore
si autosospende e sparisce nel nulla
perchè la prepotenza del cuore
non ammette il suo controllo?
Le parole affrettate, i sorrisi accennati,
le lacrime trattenute, gli abbracci inattesi
sono segno d'amore?
Chiudo gli occhi, quest'attesa è interminabile.
Il nostro rapporto a distanza è difficile,
partenze e arrivi lo delimitano,
ho il timore di sentirlo
sempre più fragile.
All'improvviso ti vedo da lontano,
non mi muovo, il tuo sguardo mi cerca,
il cuore comincia a impazzire,
sento solo il suo battito irrazionale,
la tua voce mi chiama
e penso alla tua presenza
che tra un istante avrò con me.
E questi attimi mi regalano
l'unica risposta che attendevo.

Michella Frascolla

IL BALLO di Irène Némirovsky, recensione di Mariagrazia De Castro


La breve e intensa vita di Irène Némirovsky inizia a Kiev nel 1903. Figlia di un ricco banchiere di origine ebrea nel 1913 si trasferisce a San Pietroburgo e poi, a causa della Rivoluzione russa, nel 1918 fugge con la famiglia in Finlandia e poi a Stoccolma. Nel 1919 la famiglia arriva in Francia. Scoppia la Seconda Guerra mondiale: il 13 luglio del 1942 verrà arrestata, deportata e morirà ad Auschwitz il 17 agosto de 1942.

Il ballo” è un romanzo breve scritto nel 1928 e pubblicato nel 1930. Protagonista è un’adolescente, Antoinette Kampf, che vive Parigi con i genitori.

Antoinette ora stava in piedi e si dondolava goffamente su una gamba. Era una ragazzina di quattordici anni, lunga e magra con il volto pallido di quell’età, tanto smunto da apparire agli occhi degli adulti come una macchia rotonda e chiara, priva di lineamenti, le palpebre socchiuse, cerchiate, la boccuccia serrata…

I suoi genitori fanno parte di quella schiera di personaggi tanto amati dall’autrice, quei parvenue arricchitisi, la cui massima aspirazione è accumulare oro e fortune da esibire nei salotti altoborghesi. Vivono così, in funzione della mondanità, e in questa corsa sociale all’accumulazione dimenticano quanto Antoinette abbia bisogno di un padre e una madre, di affetto e attenzioni. Cosa interessa loro se non, pateticamente, la gente che conta, quella con cui arruffianarsi nei salotti esclusivi, quella che ha avuto accesso a un gradino più elevato della scala sociale ed economica? Quella gente che tanto più velocemente ha scalato la classifica, quanto più progressivamente si è immiserita nei sentimenti.

I Kampf sbavano all’idea di un posto al sole nella società parigina, ecco che allora il colpo di genio suggerisce loro di organizzare un ballo in grande stile, un evento durante il quale i fiumi di champagne e il cibo raffinato e costoso si sprecheranno. Solo così potranno salire sul carro del vincitore e nella follia organizzativa, la smania di sembrare moderni e competitivi li porta a escludere la figlia Antoinette alla quale fisicamente verrà precluso l’accesso alla sua camera (che verrà messa a disposizione degli ospiti come bar). La povera Antoinette verrà relegata in un ripostiglio e verrà incaricata di consegnare gli inviti.

“..e tu, Antoinette, nel ripostiglio…è in fondo all’appartamento, ti addormenterai tranquillamente, non sentirai neanche la musica…”.

La distribuzione degli inviti alla massa di villani arricchiti e di basso profilo, a quelli che hanno fatto soldi a palate e che mangiano come porci, si presenta come una formidabile opportunità per Antoinette per mettere in atto la sua sottile vendetta, per vedere esaudito il suo sogno: trasformare la collera in giustizia, il torto in rivalsa.

L’euforia dei genitori per il ballo si trasforma in un grande smacco, in una sconfitta umiliante, diventano vittime di se stessi e della stessa comunità sociale in cui vivono.

Il Ballo è una sintesi perfetta tra i temi più cari alla Némirovsky: il livore verso gli altoborghesi con le tasche piene e i cuori vuoti, l’incapacità di amare di alcune madri, la bramosia di potere, la cupidigia e l’opportunismo.


E’ un racconto lucido e spietato in cui emerge la necessità fisica ed emotiva di Antoinette di differenziarsi rispetto a quella madre inutile,di ribellarsi rispetto a quella madre castrante, umiliante e problematica.

Emerge ancora la pulsione (anche sessuale) di Antoinette di “sfruttare” quell’occasione, in casa sua, per conoscere l’amore…

«Un ballo… Mio Dio, era mai possibile che lì, a due passi da lei, ci fosse quella cosa splendida, che lei si immaginava vagamente come un insieme confuso di musica sfrenata, di profumi inebrianti, di abiti spettacolari… Di parole d’amore bisbigliate in un salottino appartato, oscuro e fresco come un’alcova… e che quella sera venisse messa a letto, come tutte le sere, alle nove, quasi fosse un bebè… Forse alcuni uomini, sapendo che i Kampf avevano una figlia, avrebbero chiesto di lei […]».


L’entusiasmo adolescenziale di Antoinette è una forza straordinaria, intensa e coinvolgente che viene repressa e soppressa dal comportamento antiparentale dei genitori, ma prima ancora che diventi male di vivere, la contentezza negata si trasforma in bisogno di essere ripagata delle ingiustizie subite. Antoinette non lascia correre e quel sentimento duro da sopportare, la vergogna,alimenta la sua sofferenza ed ecco che punta alla vendetta per anestetizzare il dolore.

 Mariagrazia De Castro

giovedì 29 gennaio 2015

"Memorie di una ragazza perbene" di Simone De Beavoir, recensione di Mariagrazia De Castro.

Simone De Beauvoir, scrittrice e filosofa francese, compagna di Jean – Paul Sartre, modello concettuale per il femminismo moderno, a partire dal 1958 si dedicò alla sua autobiografia, uscita in quattro volumi: Memorie di una ragazza perbene (1958), L’età forte (1960), La forza delle cose (1963), A conti fatti (1972).

Il primo volume è il puntuale e rigoroso racconto dei suoi primi vent’anni, spesi alla ricerca della libertà, un lungo monologo interiore in cui si percepisce in modo tangibile lo scontro con il perbenismo borghese.

«Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail».

Cominciano i primi interrogativi di Simone su di sé, sui rapporti con i familiari, sull’ingresso nel mondo degli adulti. La complessità dell’esistenza comincia a farsi strada in lei. Crollano le certezze adolescenziali e intraprende la battaglia per la libertà.

La narrazione in prima persona è intensa e rievoca le esperienze di Simone, le persone che ha incontrato e i legami interpersonali profondi che instaura sul suo cammino di donna: una figura importante è la sua compagna di scuola preferita, Elizabeth Mabille, detta Zazà.

«Il giorno in cui entrai in quarta-prima – ero ormai sui dieci anni – il posto accanto al mio era occupato da una bambina nuova, una brunetta dai capelli corti. Aspettando la signorina, e alla fine della lezione, parlammo. Si chiamava Elizabeth Mabille, e aveva la mia età».

Nella descrizione di Zazà colpisce il suo essere anticonformista. Simone e Zazà sono il bianco e il nero: tanto Simone è educata, perbene, composta, rigida e inquadrata, tanto Zazà è vivace, disinvolta, autonoma e indipendente e per questo appare agli occhi dell’autrice come una bambina eccezionale.

Simone ammira Zazà per le sue doti e da questa sua profonda simpatia nasce un legame profondo, un’amicizia che influirà sul modo di pensare e comportarsi di Simone. Zazà è senza inibizioni, è spontanea e naturale; Simone è frenata dal perbenismo borghese di cui è intrisa la sua formazione.

Il rapporto di amicizia tra le due nasce sui banchi di scuola e si basa sulla stima reciproca, sulla condivisione degli interessi. Il legame tra le due è profondo, è una dipendenza affettiva nei confronti dell’altra, è una codipendenza che poggia le sue basi anche sul timore di perdersi. Devono stare insieme per non sentirsi sole (“Mi mancava lei”) ma anche per proiettare nell’altra la propria intima identità (“Non immaginavo nulla di meglio al mondo che essere me stessa”). E’ un legame terapeutico quello che lega Simone a Zazà, perché attraverso esso, Simone riesce a rompere quel guscio di bigottismo e ipocrisia che l’ambiente altoborghese le ha creato intorno.


L’amicizia fra le due subisce nel tempo un’evoluzione, percepibile nel ritorno in classe dopo la pausa estiva. Tra Simone e Zazà si instaura un legame fatto di confidenze profonde e totalizzanti, intime e terapeutiche, varie e ricche, complesse e complicate.

Zazà è passata nella vita di Simone e l’ha resa unica. Le ha lasciato qualcosa di sé, le ha portato via qualcosa e il loro intimo legame è la prova evidente che due amiche non si incontrano mai per caso.

Mariagrazia De Castro





LAS MENINAS di Diego Velasquez, di Mirella Frascolla.



LAS MENINAS di Diego Velasquez -1656 (La famiglia di Filippo IV o Le damigelle d'onore). 

Pittore spagnolo di grandissimo successo fuori dai canoni del barocco classico. In questo quadro sono ritratte figure di età diverse e l'attenzione è concentrata sulla piccola erede al trono illuminata da colori tenui e luminosi e attorniata da due damigelle che le dedicano rispetto e attenzioni totali. A destra un raro ritratto di nana e di un magnifico cane che viene stuzzicato da un bambino. La scena è complessa e sulla sinistra, in penombra, appare anche l'artista. Non si può non restare incantati dagli sguardi così vivi ed espressivi dei singoli personaggi e dalla cura quasi maniacale dello studio dei particolari: acconciature, abbigliamento, arredamento, niente è lasciato al caso. Si possono percepire le singole consistenze delle stoffe, delle pieghe, dei nastri, delle eleganti acconciature, della luce e delle atmosfere del luogo, persino il momento del giorno. Tutto è molto realistico.
Un quadro che non solo è opera d'arte ma anche importante documento storico e culturale.

"Il paese e il vento" di Cloe Sei.


Generalmente a quell'ora le strade del paese cadevano in uno strano torpore rotto solo dallo sbattere sulle pareti dei panni appesi alle corde.Quella era, però, una sera particolare e l'infuriare dello scirocco faceva addirittura schioccare, simili a colpi di frusta, i miseri bucati stesi ad asciugare. Accadeva spesso che il rumore dei panni cessasse all'improvviso per i bizzarri capricci del vento che a volte flagellava il paese per giorni e giorni, altre cessava all'improvviso, portando una quiete inattesa e di breve durata. E come il vento viene e va, anche le esistenze della gente del paese seguivano il gioco della vita loro malgrado agitate da folate improvvise, sconvolte da uragani violenti, rasserenate da bonacce insperate. E come le esistenze, anche gli umori collettivi mutavano, condizionati da questo o da quell'episodio, da questa o da quella diceria. 
Era l'ora in cui sedie e scannetti venivano riportati all'interno delle dimore ed in cui i rumori si spostavano nelle case insieme al vociare dei bambini. Solo un lontano scampanellio si avvertiva; erano le greggi che tornavano dal pascolo per riposare nelle grotte ricavate alla base delle mura di cinta del paese, a due passi dal mare che, immenso, si allargava senza confini.
Insolitamente, però, quella sera le sedie e gli scanni erano tutti nella piccola piazza del paese. Gli interni erano quasi vuoti, i pastori già rientrati. Era una di quelle sere durante le quali si fanno e si disfano le vite degli uomini, sino a quando non interviene la mano di Dio a rimettere le cose a posto.
La storia di cui vi narriamo è una storia di sempre. È la storia di una donna, forse non proprio come tante altre, ma pur sempre di una delle tante donne sparse nel mondo e perdute nel tempo... Questa che stiamo per narrare è, insomma, la storia di Ada.
TRATTO DA "Il paese e il vento" di Cloe Sei

"I legami spezzati" di Luisa Colombo.


Quella notte ebbe un oscuro presagio e rimase accanto alla nonna,
sulla poltrona. Voleva essere presente quando sarebbe giunta l’ora.
La mattina successiva Giovanna incrociò lo sguardo della nipote.
Maia intravide un barlume nei suoi occhi spenti, l’ultimo guizzo della
fiamma che la teneva in vita. Giovanna si sforzò di parlarle, poiché
non poteva più attendere. Maia si sedette sul letto accostando l’orecchio
alle sue labbra. La voce era flebile e incerta.
«Tuo padre… non ha...».
«Cosa stai cercando di dirmi?»
Antonio, quando vide la nipote accanto alla madre, la fulminò con
lo sguardo. Scrollò il capo e un ciuffo di capelli gli ricadde sulla fronte,
ma non fece alcun gesto per scostarlo. Anche lui si avvicinò alla
madre e prese una mano tra le sue, mentre gli occhi s’inumidirono.
Pur a malincuore lasciò che la nipote ascoltasse le parole che Giovanna
stava farfugliando.
«La verità.. tuo padre non è… devi cercarlo
Non riuscì a terminare la frase. I suoi occhi si chiusero per sempre.
Maia l’abbracciò e pianse come una bambina.
Le ultime parole risuonavano nella sua mente, con una eco di mistero. 
Avrebbe voluto saper ascoltare quanto nascosto nei suoi silenzi
molto tempo prima. Ora l’aveva persa per sempre.

Luisa Colombo

martedì 27 gennaio 2015

La toilette di Henri de Toulouse-Lautrec, di Mirella Frascolla.


La toilette di Henri de Toulouse-Lautrec, 1896 olio su cartone.
Care amiche vi propongo un quadro di un altro grande pittore del favoloso ottocento. Nato da famiglia nobile ebbe la sfortuna di avere due incidenti domestici che gli bloccarono la crescita delle gambe e lo resero nano. Egli non fu solo pittore ma anche illustratore e litografo. Fu quello che noi definiremmo oggi uno dei primissimi pubblicitari della sua epoca. Si dedicò alla rappresentazione degli stili di vita bohèmienne della Parigi di fine 800 e ritrasse molte donne. Lo affascinavano le prostitute dei bordelli parigini, le ballerine dell'Opera, le frequentatrici del bel mondo e le donne comuni.
In questo quadro è ritratta una ragazza di spalle in una posa certo inusuale e in ambiente che nessuno all'epoca avrebbe preso in considerazione: la sua camera e gli oggetti necessari alla sua toilette personale. La posizione della giovane donna non ci permette di vedere il suo viso ma si tratta pur sempre di un nudo parziale e quindi discreto. L'atmosfera è tranquilla e rilassata, nessun imbarazzo, nè malizia, nessun giudizio da parte di chi guarda. Solo l'immagine di una quotidianità parigina da fissare e trasmettere al pubblico.
Mirella Frascolla

Intervista ad Alessandra Ponticelli, autrice di “Un solo colpevole” (a cura di Rosaria Andrisani)


Ciao, lettori di Passione Lettura! Oggi siamo in compagnia di Alessandra Ponticelli, una persona dai molteplici interessi, che ha dedicato e dedica, tuttora, ai suoi impegni un’autentica e sincera passione.


Ve la presento, con questa mia intervista in cui scoprirete il valore dell’operato, ma soprattutto, la modestia e la profondità d’animo di Alessandra.


1- Ciao Alessandra e benvenuta tra noi! Vuoi presentarti ai nostri lettori?


Ciao! Grazie per avermi accolto. Mi chiamo Alessandra Ponticelli, sono nata in provincia di Arezzo, ma vivo a Firenze da più di trent’anni. Dopo aver insegnato per molti anni lingua e letteratura francese nei licei, oggi mi dedico quasi esclusivamente alla scrittura.


2- Quando è nata la tua passione per la scrittura?


Circa sette anni fa, quando mi sono resa conto che essa rappresentava per me uno strumento catartico, l’unico mezzo che avrebbe potuto aiutarmi a superare il tragico evento che ha segnato la mia vita, cioè la perdita improvvisa del mio unico figlio, portato via a diciotto anni da una gravissima malattia.


3- Hai partecipato a diversi premi letterari, ne hai vinti altrettanti; come definiresti il tuo percorso di scrittrice fino a oggi?


Ti ringrazio per questa bella domanda. Credo di poterlo definire un viaggio. Sì, sicuramente, un viaggio. Un percorso interiore, non sempre facile, che mi ha dato la possibilità di ascoltarmi e di trasformare le emozioni in parole. Come ho già detto altre volte, c’è sempre qualcosa di noi in ciò che scriviamo, perfino quando costruiamo delle storie che nulla hanno a che fare con le nostre esperienze personali.


4- Ci parli del tuo libro, “Un solo colpevole”?


Come si può capire dal titolo, si tratta di un Giallo, nonché del mio primo romanzo. L’idea è nata circa quattro anni fa. Quanto alla trama, essa è assolutamente frutto della mia fantasia, non ispirandosi ad alcun fatto di cronaca realmente accaduto. E’ la storia di una giovane di nome Adele che, dopo molti anni vissuti a Parigi, ritorna in Romagna, a Solaria, il paese natio, alla ricerca di se stessa e della verità sull’uccisione dei genitori avvenuta vent’anni prima. Il ritorno della ragazza risveglia nel paese antiche paure mal sopite e diviene la chiave per mettere in moto la riapertura delle indagini sul duplice delitto. Le minacce di cui Adele sarà vittima indurranno l’abile e tenace maresciallo Caputo a far luce sull’antico omicidio. La collaborazione di un giovane e determinato giornalista lo aiuterà a scavare dentro un baratro di orrori, facendolo arrivare alla scoperta del colpevole.


5- Hai anche scritto uno spettacolo teatrale, “Chiaro come il cielo”; come definiresti questa tua esperienza?


Un’esperienza indimenticabile, soprattutto sul piano emotivo. Lo spettacolo nasce, infatti, dal desiderio di ricordare mio figlio, la sua breve vita, attraverso musica e poesia. Note e versi, su un palcoscenico volutamente spoglio, per ripercorre, idealmente, il suo viaggio terreno. Ringrazio, ancora, l’attore Carlo Delle Piane e la cantante Anna Crispino che, con la loro grande bravura e sensibilità, hanno permesso la realizzazione di questo progetto.


Grazie ad Alessandra Ponticelli per aver trascorso del tempo con noi!


(intervista a cura di Rosaria Andrisani)


domenica 25 gennaio 2015

"Finchè le stelle saranno in cielo" di Kristin Harmel. Recensione di Chiara Minutillo.



Ogni sera Rose, ormai anziana e persa nei ricordi della sua gioventù, si siede davanti alla finestra e osserva. Osserva il mondo là fuori farsi sempre più scuro, il cielo dipingersi di varie tonalità di azzurro, blu, cobalto e poi rosa, rosso, arancione e quando il sole lascia spazio alla luna, Rose cerca. Cerca le stelle a cui ha dato dei nomi delle persone che porta nel cuore.

Hope ha trentasei anni, una figlia adolescente che dice di odiarla, una pasticceria che sta per esserle portata via perché sommersa dai debiti e un marito che l'ha lasciata per una donna più giovane. Come se tutto ciò non bastasse, proprio nel momento in cui degli investitori si interessano alla sua pasticceria, Hope riceve un biglietto da Rose, la quale, in un momento di lucidità, chiede alla nipote di recarsi a Parigi per capire cosa è successo alla sua famiglia negli anni della guerra. E soprattutto per adempiere a una promessa fatta decenni prima.

Annie ha dodici anni e porta dentro di sè sofferenze e perdite troppo grandi per qualsiasi ragazzina della sua età. Il suo rapporto con Hope è decisamente instabile, ma Annie sa che in fondo sua madre è disposta a tutto per vederla felice. Sa che le basterà insistere solo un altro po' e Hope si deciderà a compiere quel viaggio che cambierà per sempre le loro origini, la loro stessa essenza e la loro vita.
Rose, Hope e Annie, nonna, nipote e pronipote. Tre donne alla ricerca di un segreto che racchiude le loro stesse esistenze e le loro origini sepolte negli anni della guerra.

Un libro commovente, dai tratti storici, che tratta uno dei temi più caldi della storia umana: l'olocausto. Attraverso la storia di queste tre donne veniamo a conoscenza di ciò che il nazismo significò, non solo per gli ebrei che vivevano in Germania, ma anche per quelli della Francia e del resto d'Europa. Scopriamo un segreto della storia che nei libri scolastici raramente viene raccontato, ma che in quegli anni così difficili servì a salvare la vita di moltissime persone. Un libro che fa riflettere sul valore della fede, della speranza e dell'amore. Un libro importante per non dimenticare.

Chiara Minutillo

"Come nasce una scrittura", di Mirella Frascolla



Come nasce una scrittura?
Bastano una panchina e un giardino
o una sedia e un tavolino,
un cielo e un tempo a disposizione,
un pensiero catturato,
un silenzio complice.
Uomo o donna,
giovane o anziano,
non è questo che importa.
Ad una scrittura basta poco
per nascere:
pensieri in quantità
di parole scelte dalla mente
e selezionate con cura dal cuore.
Tutti desiderano essere
i protagonisti di una scrittura:
dal chicco di grano
al granello di polvere.
Lei non esclude nessuno,
perchè dovrebbe?
Quando una scrittura nasce
non preavvisa,
freme e si agita per uscire allo scoperto.
Al suo nascere la raggiungono
le emozioni, le sensazioni, i ricordi,
gli unici doni che lei sa dispensare.
E la sua durata nel tempo
è stabilita solo da chi legge,
può vivere per sempre
o morire in un istante.


Mirella Frascolla

venerdì 23 gennaio 2015

"Lettera a mia madre" di Benedetta Barilli.




Primo quadro, con campitura in bianco, simbolo di purezza e, nelle culture orientali, della scomparsa. Dipinto il giorno dopo che mia madre aveva concluso la sua vita.
"Lettera a mia madre".
Tutto ciò che, in vita, non le ho detto, frasi d'amore, che, per timidezza e insicurezza nei suoi confronti, non ho mai osato esternare. Per me,dipingere,è come scrivere.
Benedetta Barilli

Intervista a Lucia Serracca, autrice del libro “Specchi d’acqua” (a cura di Rosaria Andrisani)

Cari lettori di PL, oggi siamo in compagnia di Lucia Serracca e vogliamo conoscere meglio lei, il suo libro e la sua passione per la scrittura. E ora lasciamo la parola a lei!

1- Benvenuta Lucia! Vuoi presentarti ai nostri lettori?

Con piacere. Mi chiamo Lucia Serracca, vivo in Toscana, e precisamente a Certaldo in provincia di Firenze, che, tra l’altro, ha dato i natali a Boccaccio. Però sono Toscana solo al 50%, da parte di madre, poiché mio padre era salentino, della provincia di Lecce, vicino S. Maria di Leuca. Sono laureata in Biologia e lavoro presso l’Università di Siena. So che sembrerà strano: una biologa che si spaccia per scrittrice… In verità la passione per la scrittura si è manifestata molto presto, poiché ho conseguito la maturità classica, ma sono sempre stata attratta anche dai meccanismi della vita, in tutte le sue manifestazioni. Infatti “biologia” significa, come tutti sanno, studio della vita.

2- Perché hai deciso di scrivere “Specchi d’acqua”? Cosa ti ha ispirato?

Finora la mia è stata una scrittura di genere. Il mio romanzo precedente, non pubblicato, è un thriller storico e ho anche scritto racconti noir. “Specchi d’acqua” è il mio primo tentativo di scrittura non di genere. Da tempo, infatti, pensavo a una storia che avesse delle donne come protagoniste assolute, una storia che parlasse di uno stato di profonda alterazione, di eventi che all’improvviso sconquassano la vita come uragani e lasciano senza fiato, senza capacità di reazione. La mia intenzione era analizzare quali meccanismi psicologici, quali passaggi mentali dovuti a un disagio grave, oggettivo, possono portare a un graduale annullamento di sé, di tutto quello che una persona è stata, fino al momento in cui l’evento accade. E, quindi, quali possono essere le condizioni capaci di condurre a una sorta di resurrezione.Volevo parlare di donne che “ce la fanno” senza bisogno dell’intervento del principe azzurro che le salva con un bacio, della solita storia d’amore che spalanca le porte del cielo e fa dimenticare tutti i mali, tutti i dolori. E, infatti, le mie due protagoniste trovano dentro di sé la forza di reagire, nella loro essenza più profonda, nella loro capacità creativa. Gli uomini che stanno loro accanto sono molto importanti, ma non sono gli artefici della rinascita. Sono due artiste, una scrittrice fotografa e un’attrice, ma sono profondamente convinta, senza scomodare Virginia Woolf, che ogni donna, se le viene data l’opportunità, possa esprimere in molti modi la propria creatività e che questo rappresenti una delle chiavi di volta dell’esistenza. “Specchi d’acqua” racconta anche la nascita, faticosa e contrastata, di un rapporto di amicizia molto profondo tra due donne assai diverse, anche per età, ultracinquantenne la scrittrice, quasi trentenne l’attrice. Un rapporto madre-figlia? Forse, ma si tratta di un tipo di relazione in cui, alla fine, anche i ruoli si scambiano, a conferma dell’infinita capacità femminile di accogliere il diverso da sé e di generare, attraverso sensibilità ed empatia, una vita nuova. Anche senza mettere al mondo figli. Volevo, inoltre, proporre una storia che spezzasse una lancia a favore dell’amicizia femminile, così vilipesa, da più parti ritenuta impossibile, poiché sono assolutamente certa, per esperienza personale, che costituisca una forza dalle infinite potenzialità.


3- Parlaci della tua esperienza di scrittura.

Scrivere “Specchi d’acqua” è stata un’avventura entusiasmante. Al di là di ogni risultato, della eventuale pubblicazione o di possibili lettori, la scrittura è un’esperienza che basta a se stessa. Mentirei se dicessi che non speravo di vedere pubblicato il mio romanzo o che non m’importa delle impressioni che suscita. Al contrario, mi auguro con tutta me stessa che il mio libro riesca a “parlare” a ogni persona che avrà voglia e possibilità di leggerlo. Ma il tempo che ho passato in compagnia di Francesca e Costanza, le mie protagoniste, è stato intriso di felicità a prescindere da ogni altra considerazione. La scrittura ha bisogno di solitudine, a volte di isolamento. La costruzione del racconto, la scelta del respiro che deve avere, delle frasi con cui esprimere un concetto o descrivere un paesaggio o un’azione, delle singole parole necessitano di concentrazione, dedizione, di uno sguardo particolare dentro se stessi. Chi scrive sente su di sé la storia che si sta dipanando sullo schermo del suo computer, vive in simbiosi con i propri personaggi e quando li lascia per mantenere il minimo indispensabile della vita di relazione, o anche solo per dormire, non vede l’ora di tornare a interloquire con loro. È stato un viaggio, per questo parlo di avventura, un’esplorazione della capacità (che spero di aver avuto!) di ideare e realizzare un racconto che mi permettesse di affrontare gli argomenti che mi stavano a cuore, come ad esempio lo scempio ambientale del nostro territorio e di renderlo interessante.


4- A quale personaggio del tuo libro ti senti più legata e perché?

È molto difficile per me rispondere a questa domanda. Credo che, per chi scrive, ogni personaggio abbia delle caratteristiche che glielo fanno amare. Sono molto legata a entrambe le mie protagoniste. Tra l’altro, il personaggio di Costanza è ispirato a una persona reale, una giovane attrice intelligente e bravissima, che seguo e stimo molto. Però, se proprio devo esprimere una preferenza, dico Francesca. Prima di tutto perché, oltre che scrittrice, è anche fotografa e io sono un’appassionata di fotografia. Creare questo personaggio, perciò, mi ha permesso di parlare di una delle espressioni che, dopo la scrittura, amo di più. L’immagine di copertina di “Specchi d’acqua”, infatti, è una mia foto. Francesca, inoltre, mi è più vicina come età e come modo di concepire l’esistenza. In lei si riassumono molte mie esperienze. In definitiva, mi somiglia.


5- Definisci con tre aggettivi “Specchi d’acqua”.

Anche questa è una domanda difficile! Vediamo… prendo in prestito qualche definizione che mi ha regalato chi lo ha letto: avvincente, viscerale, delicato.


6- Scriverai ancora?

Sì, certo. Sto già lavorando a un noir, che assorbe molta della mia attenzione: questo genere di racconto deve funzionare come un congegno perfetto e… non è semplice. Ma non ho abbandonato l’intenzione di scrivere altre storie, infatti sto raccogliendo molti appunti anche per una raccolta di racconti. Dato che svolgo un altro tipo di lavoro, spero di avere tempo e modo di dedicarmi a questa attività che sta diventando sempre più importante nella e per la mia vita.

Auguro a Lucia che la sua passione per la scrittura sia sempre così profonda!


(intervista a cura di Rosaria Andrisani)


"Troppo fiera, troppo fragile-Il romanzo della Callas", recensione di Chiara Minutillo





Tutti la conosciamo come la Divina. Ma quanto in realtà era Terrena Maria Callas? Nelle sue lettere e nei suoi diari, la cantante lirica forse più famosa del mondo, descrisse la sua infanzia da bambina bruttina, grassottella e in perenne competizione con la sorella Jackie; parlò del suo amore per la musica, della sua scalata verso il successo, il matrimonio con il Commendator Meneghini e la relazione con Aristotele Onassis. "Brutta ma vincente" era il suo motto. E per essere sempre vincente, la Callas non poteva che essere Terrena: capricciosa, orgogliosa, testarda, pretenziosa. Soltanto quando cantava era in grado di trasformarsi: "davanti al piano diventava una dea, non apparteneva più al mondo umano e volava in altra dimensioni, che solo i suoi occhi erano in grado di scorgere". Grazie alla sua determinazione Maria Callas raggiunse presto il successo, prima ad Atene, poi in Italia, in America e in Francia. "Traviata", "Norma", "Macbeth", "Lucia di Lammermoor", la Callas continuò a conquistare tutte le opere, una dopo l'altra. Erano soprattutto le prime due, Traviata e Norma, i suoi cavalli di battaglia. Ma il desiderio di gloria e di fama, la consapevolezza di essere una delle cantanti liriche più ambite e di non avere rivali che le tenessero testa, la portarono alla rovina, come lei stessa ammise molto tempo prima: "il destino mi ha posto cosi in alto, che la caduta sarà terribile".
Per quanto sia partita un po' scettica, per via dell'autore che ha dato vita al libro, sono rimasta piacevolmente colpita dalla fluidità del racconto. Basandosi su testimonianze dirette e sulla raccolta di lettere e diari della Divina Callas, Signorini racconta la vita e la carriera della cantante, fino alla sua morte, presentandola mentre toglie ogni traccia di stereotipo. Maria Callas diventa, nel romanzo, anzi, si presenta, come la donna che realmente era quando non si trovava sul palco: narcisista, egoista, determinata, disposta a tutto pur di raggiungere quel successo per il quale aveva tanto faticato. La sua voce era (ed è) ciò che incantava tutti, facendo dimenticare i suoi difetti. Forse, umanamente parlando, Maria Callas non era quel mito a cui tutti pensavamo. Ma per la sua voce, per ciò che ha saputo donare con la sua musica, lei rimarrà sempre la Divina. Chi la sentiva nei vari teatri in cui si esibiva rimaneva estasiato, colpito nei sentimenti. A lei erano riservati 30 minuti di applauso dopo ogni atto. Sono indescrivibili i brividi che corrono lungo la schiena, la pelle d'oca che suscita sentirla cantare nell'atto finale de "La Traviata", quando in fin di morte e distrutta dalla tisi, Violetta recita il suo amore ad Alfredo, o ancora in "Aida", al momento di essere murata viva con il suo amato, o nel modo incredibile in cui riesce a far rivivere la scena della pazzia in "Lucia di Lammermoor" e in "Macbeth". Ciò che evocava con la sua voce la rese la Divina. Ciò che decise di 
intraprendere nella sua vita la rese la Terrena. Ma una cosa positiva, Maria Callas l'aveva: manteneva sempre le sue promesse. Aveva promesso (per ripicca, più che altro) a sua madre che sarebbe diventata qualcuno, la stella della lirica, che il suo nome greco sarebbe uscito dalla Grecia per diffondersi in tutto il mondo. Come sempre, Maria Callas mantenne la sua promessa.

Chiara Minutillo

giovedì 22 gennaio 2015

Martirio di Sant'Orsola di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, di Mirella Frascolla.



Martirio di Sant'Orsola di Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Dipinto a olio su tela eseguito nel 1610 e conservato presso la galleria di Palazzo Zevallos a Napoli
Per una volta vi parlo di un quadro che ho potuto vedere da vicino e che mi ha ipnotizzzata. Caravaggio è famoso per la sua pittura realistica, in questo consiste la sua grandezza e la sua fama: aver rappresentato personaggi religiosi come persone comuni nel loro vivere quotidiano senza per questo volerne sminuire la sacralità. Un anticonformista per eccellenza, un rivoluzionario del racconto delle Sacre Scritture. 
Sant'Orsola è avvolta da una luce accecante, bianca come può essere quella di un potente riflettore che sembra puntato su di lei per metterne in risalto l'azione: una giovane donna che osserva spaventata il suo corpo ferito. Gli uomini sono poco illuminati, si percepisce il moto continuo intorno a lei ma si tratta di figure secondarie ritratte in penombra. Gli scorci prospettici dei loro corpi sono incredibili. La fantasia dell'artista era visionaria ma la forza della sua visione paralizza lo spettatore. L'impressione è quella di essere davanti a una scena di cui si possono sentire le voci, i rumori e la confusione dell'evento. La drammaticità della scena resta negli occhi e nel cuore.
Mirella Frascolla

mercoledì 21 gennaio 2015

Intervista a Rosa Bizzintino, autrice del libro “Mille bolle”, a cura di Rosaria Andrisani.

Cari lettori di Passione Lettura, oggi conosciamo meglio Rosa Bizzintino, autrice di “Mille bolle”, un libro di favole dalla scrittura scorrevole e chiara, che allieterà i più piccoli, ma piacerà anche ai grandi perché, in fondo, ognuno di noi, a volte, vuole ritornare un po’ bambino. La gallina Cloe, l’anatra Lilly, la capretta Belà, il bambino di nome Mirto e tanti altri personaggi ci accompagneranno in questa magica raccolta di racconti e ci apriranno le porte del regno della fantasia. Ma ora lascio la parola a colei che ha scritto il libro… 

1- Buongiorno Rosa, vuoi presentarti ai nostri lettori?

Buongiorno a tutti, sono Rosa Bizzintino autrice del libro " Mille bolle"; mi presento brevemente cercando di non 
prendermi troppo sul serio perché è nato tutto quasi per gioco anche se, devo precisare, la vocazione e la passione per la scrittura l'ho sempre avuta, fin da adolescente. Nella mia breve carriera, spero possa continuare, di scrittrice, ho pubblicato cinque libri, di cui tre sono libri di poesie e due dedicati ai bambini. Il primo libro per bambini si 
intitola "Le avventure di Elsa" edito da Albatros; poi di seguito tre libri di poesie, insieme ad altri autori, editi da 
Pagine ed infine "Mille bolle" di cui sono anche illustratrice. Alcune mie poesie hanno ottenuto dei riconoscimenti e sono stati inserite in diverse raccolte antologiche. Poi ho avuto il grande piacere di partecipare come autrice alla 
collana antologica "Acqualuna della Luna e altre Storie" promossa dall'Associazione Luna Nera il cui ricavato è 
stato devoluto a favore dell'Ospedale Meyer di Firenze.

2- Per quale motivo hai deciso di scrivere favole?

Ho deciso di scrivere favole perché credo che in me coesistano la bambina che sono stata e la donna attuale; quindi mi riesce abbastanza facile immedesimarmi nelle storie che scrivo, anche se esse sono di fantasia.

3- Il tuo libro "Mille bolle" cosa ha significato per te?

"Mille bolle" è stato molto importante per diversi motivi. Primo fra tutti, perché sono anche l'illustratrice; poi perché credevo e credo nella bontà del racconto breve per interessare i piccoli lettori.

4- Ogni breve favola del tuo libro ha una morale; vuoi spiegarne il concetto?

La morale, nel mio libro, vuole richiamare l'attenzione del lettore su quelli che sono i temi, forse, più attuali del nostro tempo.

5- Definisci il tuo libro con una frase.

Non ho una frase per definire il mio libro; spero che piaccia, incuriosisca e che il lettore si ricordi di me.

Grazie all'autrice Rosa Bizzintino per le sue risposte.
(intervista a cura di Rosaria Andrisani)
http://www.passionelettura.it/interviste-passione-lettura/intervista-rosa-bizzintino-autrice-del-libro-mille-bolle/

"Una fidanzata per papà" di Fabiola d'amico.

“Papà! Papà. Papà. Papà sveglia. Sveglia papà. Sveglia. Papà!”
Klain infilò la testa sotto il cuscino nel tentativo disperato di non sentire quella vocina fastidiosa che gli ronzava in testa. Uno spiffero d’aria lo raggiunse costringendolo a sollevare una palpebra.
Si ritrovò a fissare un occhio simile al suo. 
“Papà! Sveglia”.
Tornò a chiudere gli occhi. Un incubo. Stava vivendo un incubo.
“Dobbiamo andare a pattinare”.
“Basta, Danielle. Sono sveglio, impossibile dormire quando urli il mio nome ogni tre secondi!”.
Le parole gli uscirono dalla bocca impastate. E gli rimbombarono in testa nonostante le avesse sussurrate. Che mal di testa. Tutta colpa del brandy bevuto la sera prima. O forse colpa della conversazione avuta con Ethan. 
Merda, era un uomo non un giovanotto che pensava con la parte bassa del suo corpo! Già aveva il suo daffare a convincere Simòne che poteva affrontare le chiacchiere, in più ci si mettevano anche i parenti a rompergli le palle sollevando dubbi su di lei. 
“Simòne, sei sveglia?” mormorò Danielle. 
Dopo l’animata conversazione avuta con il suo più intimo amico, avrebbe potuto andare a dormire nella sua camera ma il desiderio di ripetere l’esperienza della notte prima era stato troppo grande. Così si era infilato nel letto con le due donne della sua vita e aveva chiuso gli occhi cullato dal respiro di entrambe.
“Simòne?”
Doveva salvarla? 
Una risata sommessa e piccoli balzi sul letto lo costrinsero a sollevare la testa. Dicendo addio al sonno, aprì gli occhi. 
Simòne con capelli tutti scarmigliati era china su Danielle e le faceva il solletico. Meraviglioso.
Gli sembrò che persino il mal di testa scemasse. 
“Basta, basta! Devo fare pipì” disse la piccola scattando fuori dal letto.
Le bastarono due salti per arrivare al bagno della camera. Pochi attimi per fargli venire un’idea. Scivolò al centro del letto e finalmente la toccò. Simòne gli sorrise timidamente. 
Lasciò scivolare la mano sotto il pigiama. Era calda e morbida.
“Buongiorno”.
“Ciao!” rispose lei sistemandosi una ciocca dietro l’orecchio.
“Andiamo via subito?” domandò Danielle dall’altra stanza.
“Ieri hai fatto pupù?” le chiese continuando a guardare Simòne e avvicinandosi sempre di più. Era quasi su di lei. 
Un risolino gli giunse da oltre la porta socchiusa. 
“Mica ho due anni papi! Si dice cacca e no non l’ho fatta”.
“Allora prendi il tuo giornaletto e attendi. Non ti muovere ok?”
“Uffa, papà!”
Klain si abbassò verso il collo scoperto. Era sull’orlo di un precipizio. Lei era sotto di lui. Poteva toccarla, baciarla…
“Fanne tanta, piccola” mormorò posando le labbra sulla pelle infuocata. Le lambì il tratto sotto il lobo. Sapore di vaniglia e cannella. 
Lei s’inarcò verso di lui.
“Klain, smettila!” gli sussurrò posando le mani sulle braccia. Lo stava toccando. Era una sensazione bellissima.
“Vado a fuoco, Simòne. Solo un tuo bacio può salvarmi” disse risalendo la guancia.
“Non ho un buon alito la mattina appena sveglia!” replicò lei cercando di sfuggirgli.
“Neanche il mio sa di menta, ma che c’importa? Baciami Simòne” la implorò leccandole un labbro.
“Danielle…” protestò ancora lei.
“Non ci disturberà o potrà dire addio al suo sedicesimo compleanno!”
Lei rise spostando le mani sulle sue braccia e fin dietro il collo. 
Klain si mosse sopra Simòne facendole sentire la sua eccitazione.
“Baciami!” tornò a dirle guardandola negli occhi.
E in quel momento lei sollevò appena il volto e si avvicinò a lui. Gli sguardi incrociati, le labbra finalmente unite. Lambì la bocca di Simòne mentre il fuoco scorreva dentro di lui.
Affondò in lei con foga quasi volesse divorarla.
Strusciò di nuovo contro di lei.
“Papà, anche io posso baciare così Carson? Finora gli ho detto di no!”
La voce di Danielle penetrò la cortina del piacere, paralizzandolo. Tutto il suo corpo si pietrificò tranne il cuore che sembrava impazzito. Cazzo! Gridò nella sua testa. 
La passione scomparve dagli occhi di Simòne. Un guizzo di ilarità brillò in loro. Scivolò sul letto. Si passò una mano tra i capelli corti e respirò. Un altro respiro. Un altro ancora. 
“Papa?”
Si girò verso la figlia inchiodandola con il suo sguardo. Gli puntò il dito contro e a voce alta disse: “Punto primo, Simòne è la mia fidanzata, anche se lei non vuole ammetterlo. Punto secondo tu non bacerai quel Carson o rompo le gambe a te e poi a lui. Punto terzo non avrai le tua festa di sedici anni!”
“Sedici anni? Ok, ma quella per i miei sette anni l’avrò?” esordì la piccola incrociando le braccia al petto.

Il mio primo libro. Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”, di Emma Fenu.


Ho esitato, davanti al titolo che sovrasta l’articolo che vi accingete a leggere.
Molti sono i primi libri che hanno cosparso di parole i capitoli della nostra esistenza, come molti sono i primi baci che hanno accarezzato la nostra pelle.
Su quale libro urge, dunque, soffermarsi ora?
Vi è un primo che ci venne letto la sera, con la testa che affondava nel cuscino, quando ancora le lettere dell’alfabeto erano figure aliene, schierate, una dopo l’altra, come passeggeri stipati in piccoli vagoni separati da spazi bianchi, in un treno che giungeva a destinazione tramite la voce narrante del papà o della mamma.
Vi è un primo che ricevemmo in regalo, scartato con bramosia e suggellato da una dolce dedica.
Vi è un primo, infine, che leggemmo senza ausilio esterno, vittoriosi e felici, dopo aver avuto accesso al magico codice, i cui simboli, posti in avvicendamento sulla carta, lentamente si disvelavano… e la storia aveva inizio.

Le notti della mia infanzia, profumate di sapone di Marsiglia, sprigionato dalle lenzuola rosa, esordivano con le prime righe tratte da un tomo datato, riportante le Fiabe raccolte dai Fratelli Grimm.
Tuttavia, dopo una manciata di secondi, prendevano forma e colore altre storie, attinte dalla memoria, che mi proiettavano in distese infinite di piante di pomodori, dietro a corse con i piedi nudi, sulla terra fertile e umida, e fra sassaiole che coinvolgevano bande di ragazzini spettinati. Ogni sera mio padre componeva una parte della sua autobiografia, solo per me.

Fu mia madre, invece, a donarmi il mio primo libro, in occasione del mio terzo compleanno. Si trattava della versione cartacea di un cartone animato, all’epoca da me preferito, ossia “Heidi” di Johanna Spyri, che narra le vicissitudini della bimba dalle guance scarlatte, che si struggeva di nostalgia per i suoi monti della Svizzera, costretta dentro le mura di una lussuosa dimora di Francoforte. Alcuni giorni fa ne ho acquistato una versione edita nel 1953, in inglese. Il primo libro non si scorda mai.

Ma la svolta epocale della mia vita di essere contingente, avido di scoperta e di assoluto, fu il primo libro che lessi, agli esordi della scuola primaria, a sei anni appena compiuti: “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, un classico intramontabile.
Ho amato le sorelle March, tutte, come sorelle con cui ricordare e confrontarsi, come esseri pensanti, liberi dai vincoli della carta, dotati di pregi e difetti, che osservano lo svolgersi delle medesime vicende tramite il filtro della propria peculiare prospettiva.
Tuttavia, per Jo avevo una predilezione. 
Adoravo quella ragazza dall’indole ribelle e passionale, capace di ideare storie per intrattenere la famiglia, anche quando l’eco della guerra diventa silenzio assordante, anche quando le tenebre gelide della morte calano, inesorabili, e di battersi per il suo sogno, con ostinazione e anticonformismo, fino a diventare una nota scrittrice.

“Jo era molto occupata in soffitta, perché le giornate di ottobre cominciavano a farsi fresche e i pomeriggi erano corti. In quelle due o tre ore, durante le quali il sole si attardava con il suo calore sull’alta finestra, Jo, seduta sul vecchio divano, scriveva rapidamente, con le sue carte sparse sopra un baule”.

Desideravo essere Jo, da bambina. Non sono diventata Jo, ma me stessa, la quinta sorella March, come lo sono tutte coloro, Donne, anche se non più “piccole”, che hanno letto con trasporto il libro, apprendendo l’immenso fascino celato nell’intimo segreto delle piccole cose, quelle che vale la pena di assaporare e, tramite la scrittura, condividere.


Emma Fenu





martedì 20 gennaio 2015

Una scrittrice si presenta: Cristina Cumbo.

La mia passione per la scrittura è nata quando ero piccola. Adoravo i compiti in classe di italiano perchè nei temi riuscivo ad esprimere meglio me stessa e le mie idee. Sono sempre stata molto timida e scrivendo riuscivo appunto a comunicare in maniera migliore. Per un aspirante scrittore è necessario soprattutto leggere tantissimo. Io ho sempre adorato farlo e sono perennemente in compagnia di qualche nuovo romanzo. Ho invece iniziato a scrivere i miei due romanzi per gioco. Volevo dare vita ai personaggi che avevo disegnato. Non mi sembrava corretto farli rimanere immobili su un solo foglio di carta e poi avevano già iniziato a popolare le mie fantasie. Ho soltanto finito per liberare delle "storie" che scorrevano come film nella mia mente.

I Quattro Principi di Sàkomar 
Il Regno dell'Acqua" e I Quattro Principi di Sàkomar 
Il Risveglio

"Ritratto di donna con ermellino" di Leonardo da Vinci, di Mirella Frascolla.


Ritratto di donna con ermellino di Leonardo da Vinci dipinto ad olio su tavola tra il 1485 e il 1490. Questa volta parliamo di un genio assoluto, maestro indiscusso del Rinascimento la cui opera ha segnato indelebilmente tutta la cultura europea. Leonardo concentra la sua attenzione nel mostrare tutta la delicatezza di questa giovane donna oltre che nel volto aristocratico e delicato, nel gesto della mano in primo piano. Una mano affusolata che nel movimento appena percettibile delle lunghe dita, sta per accarezzare il vivace ermellino. E' uno dei primissimi ritratti dedicati espressamente allo studio della psiche femminile, non solo ornamento e figura passiva ma personalità dotata di grande fascino e volontà. Lo sguardo della fanciulla è concentrato su un punto ben preciso alla sua sinistra, non una semplice posa statica ma una scena che fa intuire la relazione di affetto tra i due soggetti. Si tratta di un raro esempio per l'epoca di un'immagine dedicata ad una donna in compagnia di un animale inusuale, cioè non da compagnia. L'immagine incanta per la perfezione nel rapporto tra bellezza, grazia e natura.

Mirella Frascolla

Stralcio tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra




Capitolo 1 - SETTIMO GIORNO 
Camaguey ci accolse nell’ora più calda del giorno dimostrando una rara riluttanza all’indolenza tipica di queste zone. Il sole incandescente che ci aveva sfinito lungo la strada riarsa ci stava aspettando in questa cittadina brulicante di vita all’inverosimile, nonostante l’ora, nonostante il caldo. Stagliate su un cielo di smalto cobalto le solite, piccole case nei colori delle caramelle o dei gelati incorniciavano le viuzze ed erano allo stesso tempo il fondale di un palcoscenico dove tanta vita si rappresentava. 
Fummo bloccati da una folla di volti sorridenti, di mani affaccendate e di passi insolitamente veloci. Ci offrirono, seppure con minore insistenza, i soliti sigari fasulli. Dal crocevia dove ci trovavamo potevamo vedere la sagoma imponente del Grand Hotel elevarsi ben oltre i tetti della città. Così, da lontano, sembrava un gigante placido adagiato sopra le case. Non aveva niente di particolarmente attrattivo. 
A causa del blocco della via dovemmo entrare dal retro della costruzione, attraverso un cortile secondario dal quale passavano, di norma, coloro che all’hotel lavoravano e i fornitori. Ci inerpicammo sulla scala angusta e buia, svoltammo ora a destra ora a sinistra, in un labirinto di stretti corridoi e di tristi cortiletti pervasi da un odore pungente di disinfettante che feriva l’olfatto e quell’altro senso, ben più importante, che non ha un nome preciso, ma che è quello che registra le impressioni e le sensazioni che corrono sotto la nostra pelle. 
Sentivo una sorta di velata delusione salire da dentro, quando finalmente ci si aprì dinnanzi agli occhi la hall del Grand Hotel vista di spalle, data la posizione della porta da cui vi accedemmo. 
Mi stupii dell’atmosfera che aleggiava nel grande salone arredato con mobili d’epoca in legno scuro, del bancone della reception, anch’esso in legno, delle tende bianche di pizzo, della grande scala che portava ai piani superiori e del magnifico ascensore lustro di ottone che scampanellava ogni volta che si apriva la porta, mostrando un giovane sorridente. Il ragazzo in divisa portava una giacchetta a righe perfettamente intonata con lo spirito primo Novecento di quel luogo. Ma, più di tutto, pensai che un posto così si sarebbe potuto leggere in un libro. 
Fui felice di esserci. Mi sedetti sulla poltrona, vi sprofondai con agio e, guardandomi intorno, immaginai altri tempi e altre comparse in quello stesso luogo. Forse immaginai la stanza che sarebbe stata nostra di lì a poco e una forte curiosità frammista a un’ansia infantile si impossessò di me. La stanza era il nostro luogo, pensai, il nostro rifugio, l’unico terreno dove potevamo liberamente saggiare i pensieri l’uno dell’altro, dove potevamo ridere, parlare, conoscerci. La stanza era il territorio della conquista della nostra non dichiarata intimità. Il breve tempo, l’esiguo spazio che potevamo condividere. Liberi. La stanza era la nostra casa. Entrambi lo sapevamo, ma nessuno dei due lo avrebbe ammesso. 
Dai miei pensieri segreti mi risvegliò bruscamente la voce di Adolfo. 
"Forza, alzati, andiamo a ricevere il cocktail di benvenuto", disse con uno dei suoi sorrisi soddisfatti. 
"Arrivo subito", risposi. Cercai con lo sguardo Guglielmo che si trovava all’estremità opposta del grande salone, intento a leggere gli orari del ristorante esposti su un grosso cartello. Mi alzai. Mentre mi avvicinavo a lui pensai in un lampo fugace a quanto era cresciuto, con il passare dei giorni, il bisogno di contatto. Gli fui a fianco. 
"Hai una sigaretta?", chiesi. La estrasse piano e me la porse con quel gesto sicuro che avevo imparato a conoscere bene. Mi guardò dritto in volto con uno sguardo determinato che pareva arrivare direttamente dalle profondità dei suoi pensieri.
"Sono un po’ stanco, credo che mi fermerò in stanza a riposare. Naturalmente, dopo aver gustato il cocktail di benvenuto", disse.
Paolo, che si era avvicinato rollando nel contempo una sigaretta con l’abilità di un equilibrista, si inserì nel discorso apostrofandolo con tono ironico: "Ne avrai di tempo per riposare! Per ora è meglio che ti rassegni all’idea di uscire alla scoperta di questo luogo". 
Francesca, che ci aveva raggiunti, insistette a sua volta e anch’io lo incitai. Guglielmo cedette alle nostre pressioni con un velo di lieve delusione dipinto sul volto. In quel preciso istante mi resi conto che non avevo capito, che non avevo voluto capirne le parole. Il messaggio silente, che dal suo cuore era salito ai suoi occhi per riversarsi nei miei, era rimasto sospeso a mezz’aria nella speranza di essere colto. Ma io non lo avevo fatto. Quanto volutamente o quanto inconsapevolmente non so dire. (...)
Brano tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra

lunedì 19 gennaio 2015

"Il fantasma di Lemich", di Anna Maria Benone.



SINOSSI

Dopo una serie di sofferenze e fragilità, Lilia decide di affrontare il suo passato ritornando alle sue origini, nella sua amata terra: il Salento. I luoghi, i colori, gli odori, i sapori, risvegliano in Lilia antichi frammenti di memoria che si intrecciano tra le righe di un taccuino che le appartiene. Riga dopo riga Lilia riscopre se stessa e il vero senso dell’amore, abbandonando nel vento del sud ciò che per anni l’aveva ingabbiata: il fantasma di Lemich.



Questo è l’amore, ti stringe dentro e porta via

come un breve, intenso soffio di vento.

Non è impaurito dalla sua stessa ombra.

Questo è l’amore!

Non ha parole,

non ha menzogne

solo petali di luce

di una rosa senza spine.



Ci sono cose che si possono dire, altre per le quali è meglio tacere, altre, specchio di queste, che è necessario custodire per non morire in un pallido stagno mosso da onde immobili. Il silenzio e il tempo sono i guaritori di irrisolte risposte. Spesso si attende e si cerca qualcosa che non c’è, ma che nell’invisibile cresce rigogliosa alla ricerca di un nuovo risveglio. Ognuno di noi ha dentro di sé un fantasma, il fantasma di Lemich....
L’amore incompiuto, l’amore compiuto, l’AMORE nel breve, preciso, conciso, incisivo romanzo di Anna Maria Benone. Un particolare intreccio in una fabula da scoprire...

"I suoi occhi mandavano lampi" di Francesca Fattizzo.


I suoi occhi mandavano lampi.
I tuoi, assenti.
Lei mi scherniva,
squadrava,
disprezzava.
Tu, indifferente
riempivi l'animo di male.
Non con me,
non con lei.
Mai con nessuna di noi.

Riesci con gli occhi ad aggrapparti a qualcosa,
o scivoli via come l'acqua,
come la vita?

Francesca Fattizzo

domenica 18 gennaio 2015

"Il colore viola" di Alice Malsenior Walker, recensione di Mary Skellington Greenwood.

Il romanzo, dal titolo originale The Color Purple, è stato scritto da Alice Malsenior Walker, scrittrice statunitense e attivista per i diritti delle donne afroamericane e delle donne gay, vincendo anche il premio Pulitzer per la sua opera, premio che ogni scrittore ambisce di vincere.
E’ stato anche tradotto in tantissime lingue, ed è anche l’opera più famosa della Walker.

TRAMA

Celie è una ragazza afroamericana che vive nel Sud degli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo. Il padre la violenta dall’età di quattordici anni, facendo in seguito sparire il frutto di quegli stupri: due figli, un maschio e una femmina, dandola poi in moglie ad un uomo che la vuole solo come serva e levatrice dei propri figli, poiché vedovo. L’uomo, di cui si scopre il nome man mano che il romanzo va avanti, aveva prima avuto delle mire per Nettie, sorella di Celie, ma il padre delle ragazze ha preferito dare lui Celie, perchè Nettie troppo giovane e intelligente, rispetto alla sorella. Celie, per sopravvivere alle barbarie subite in casa di suo marito, sceglie di non ribellarsi, ma di subire, parlandone solo con Dio a cui scrive lettere senza ricevere risposta alcuna. A Nettie è andata decisamente meglio: è riuscita a scappare e Celie non sa dove si trovi, ma non ha dubbi sulla forza della sorella, ecco perché si preoccupa il giusto di ciò che può succederle, anche se dentro di lei c’è comunque il desiderio di vederla, abbracciarla, stare con lei. Stessa forza presente anche in Sofia, moglie di Harpo, figlio maggiore di suo marito, chiamato con l’appellativo di Mister.
Mister è innamorato di una donna, Shug, che piomba nella vita di Celie come un fulmine a ciel sereno, come un uragano, come un mare in tempesta: dopo un primo momento di diffidenza, tra le due donne nasce un rapporto che va aldilà dell’amicizia, aldilà dell’amore, finendo per innamorarsi. E’ grazie a Shug che Celie trova le lettere di Nettie, sua sorella, che in tutti quegli anni Mister aveva pensato bene di nascondere alla moglie ed è da quelle stesse lettere che Celie apprende che Nettie è viva, sta bene ed è diventata una missionaria. Una missionaria in Africa a fianco di un pastore, sua moglie e dei loro figli adottivi, che assomigliano in tutto e per tutto a Celie. Gli stessi occhi grandi, la stessa pelle, la stessa bocca. Lettere in cui Nettie confida a Celie che quei bambini che ha allevato tutta la sua vita, non sono che i suoi nipoti. I figli di Celie. Attraverso queste lettere Celie può “assistere” alla crescita dei suoi figli, prima di poterli abbracciare finalmente assieme a sua sorella.

Non voglio svelarvi più di ciò che ho già svelato, ma se avete visto il film, che non è poi così nuovo, sapete come sia la storia. E forse ero rimasta anche l’unica a non aver letto il libro! Ero forse l’unica ignara di questa storia!

L’edizione che ho avuto modo di leggere suppongo sia di quelle economiche, di quelle con le copertine di cartone, ma morbide, al costo di 9,50€.
La figura riportata sulla copertina rappresenta una scena del film, difatti si può riconoscere benissimo il profilo di Woopi in maniera del tutto nitida.
Sono 313 pagine scritte in maniera comprensibile e lo stile di scrittura, seppur in certi passaggi l’abbia trovato un po’ crudo, mi è piaciuto molto.
Mi è piaciuto anche la modalità in cui concettualmente è stata proposta la storia, sotto forma di lettere: in primis a Dio, senza ricevere alcuna risposta; e poi lettere ricevute da Nettie e inviate da Celie.
La lettera è una modalità di scrittura che mi piace molto, perché permette di scrivere e poter esprimere ciò che si pensa senza dogmi e vergogna, senza dover seguire degli schemi ben precisi.

Devo ammettere che quando leggo di donne maltrattate, donne sottomesse, donne violentate, ho sempre una morsa alla gola; un po’ per solidarietà femminile, contando che ancora oggi, nonostante gli anni che corrono siano quelli di Ipad e cellulari super tecnologici, pare che la bestialità degli uomini sia rimasta al neolitico e ovviamente un po’ per tanta rabbia che ho dentro. Come se fossimo noi donne a permettere certi abomini sulle bellissime persone che siamo.
L’uomo da sempre si sente superiore, questo è un qualcosa con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno, ma non dobbiamo permettere a nessuno di metterci i piedi in testa, questo mai.

E’ un libro che consiglio a tutte le donne, perché permette di comprendere come fossero abituate a vivere neanche troppi secoli fa le nostre antenate, amiche, sorelle e cosa erano disposte a perdere e provare, o cosa erano disposte a sacrificare per non essere e sentirsi sottomesse.
Come oggi, anche allora, c’era chi aveva del carattere da vendere e chi no.
Niente di nuovo, insomma.
Anche se i tempi sembrano essere cambiati, a me non sembra poi così tanto!


Mary Skellington Greenwood

tratto da https://snidgetphoenix.wordpress.com/2015/01/17/il-colore-viola-di-alice-malsenior-walker/

sabato 17 gennaio 2015

"La Felicità" di Mirella Frascolla.




Ho imparato a mie spese
che per assaporare la felicità
bisogna smettere di cercarla.
Non esiste attimo più sfuggente nella vita.
E' lei che decide se far visita o no
se restare o se far male.
A chi spetta prima o poi
non è dato saperlo.
Niente illusioni,
essa sfiora e passa avanti
lasciando più aliti di vento
che tracce sull'asfalto.
E' negli occhi che trova
il suo luogo di appartenenza,
essi brillano come non mai,
per poi trasferirsi nel cuore e nello stomaco.
La tristezza è sua nemica?
No, semplicemente più presente e generosa,
non si assenta volentieri.
Ricordi l'ultima volta che sei stato felice?
Nessuno lo domanda,
troppo intima la ricerca nei ricordi,
a volte troppo lontana.
E' felice chiunque voglia amare
chi coltiva il meglio di sè
per donarlo agli altri.
Nel tempo che scorre tuttavia
diventa sempre più fugace.
Da sempre preferisce
la compagnia dei piccoli,
loro sanno coccolarla nei giochi e nei sogni
e farle spazio nella voce di ogni sorriso.




Mirella Frascolla

venerdì 16 gennaio 2015

"Il mio cuore è tuo", di Marianna Mineo



SINOSSI
Chloe è follemente innamorata del suo compagno Luke, ha una famiglia che l'adora e un lavoro che le piace. 
Le sembra di toccare il cielo con un dito. Ma il giorno del suo compleanno Luke la lascia sostenendo di non essere più innamorato di lei. La vita di Chloe cambia di colpo, succede l'inaspettato e dovrà affrontare tutto da sola, perde anche il lavoro. Promette a se stessa di non innamorarsi mai più, per lei gli uomini non esistono. Chloe conosce Nick. Per lui sarà un vero e proprio colpo di fulmine, per lei no. Sarà difficile conquistarla. Lei ha creato una barriera insormontabile nel suo cuore che non permette a nessuno di oltrepassare.
Paura di amare ancora.
Paura di soffrire ancora.


ESTRATTO
«Mollami.» faccio in tempo a contrappormi, tocco terra con i piedi, ma sento lo stomaco in gola. Tutto l'alcol che ho bevuto questa sera sta per essere eliminato. Corro verso il bagno, mi calo e vomito. Vomito e piango a dirotto. Mi siedo per terra tra le lacrime, poggiandomi sul pavimento il calore del mio corpo contro i mattoni freddi mi fa venire un brivido lungo la schiena. 
Ho la bocca amara, aspra. Sono disgustata. 
Sento Nick che parla con Helena.
«Resto io con lei.»
«E con Maya che farai? Che le dirai?» lo interroga lei.
«Non mi importa, credimi, voglio solo andare da Chloe, lei ha bisogno di me, adesso.»

Entra, apre delicatamente la porta e si siede anche lui. 
«Come stai?» mi chiede prendendomi la mano.
«Adesso che ci sei tu, meglio» mi avvicino al suo petto e lo stringo forte a me. 
«Perché ti sei ubriacata?» mi chiede. 
Perché non volevo ricordarmi di te tra le braccia di Maya. 
«Perché sono una stupida, lo sai» dico distogliendo lo sguardo dal suo. Non riesco a guardarlo negli occhi sapendo che non gli ho detto tutta la verità. Prende il mio viso tra le mani e mi fissa. 
«Perché lo hai fatto?» ripete.
Quando mi guarda con questi occhi mi ipnotizza. «Volevo dimenticare questa serata, volevo dimenticare il pensiero che mi tormenta da quando Maya è arrivata» dico tutto d'un fiato. 
«Cosa ti tormenta?».
«La paura di perderti è sempre più grande» dico solo. 
Ripenso all'uomo della discoteca e mi allontano di colpo da Nick. Mi guarda interrogativo. Come se mi stesse chiedendo perché continuo a fargli del male. 
«Cosa succede?» mi chiede, asciuga le lacrime che mi scorrono sul viso e aspetta paziente 
la mia risposta. Chiudo per un attimo gli occhi. 
«Al pub qualcuno stava per violentarmi» dico secca. 
I suoi occhi si riempiono di lacrime, sono occhi pieni di rabbia. 
«Cazzo» urla. Sferra un pugno al muro e si porta il viso tra le mani. 
«Tu dov'eri?» dico singhiozzando. 
Ricordo i miei occhi che cercavano i suoi, senza trovarli, d'istinto avvicino il mio corpo al suo e lo avvolgo in un abbraccio. Le sue nocche sono arrossate e un po'graffiate. 
«Eri con lei, avete fatto sesso, vero?» chiedo tristemente. 
E attendo questa risposta con ansia. 



Brano tratto da "Il mio cuore è tuo" di Marianna Mineo