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venerdì 26 dicembre 2014

IL CORPO NUDO DELLE DONNE NELL’ARTE FRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO, di Emma Fenu.




Passano i secoli. Variano le ideologie, le forme di governo, i riferimenti culturali, le strategie di comunicazione. Si evolve il concetto di donna e il ruolo che le è proprio nella vita, nel mondo e nella Storia.

Ma l’interesse per le immagini di nudi muliebri, opere di innumerevoli pittori prima e fotografi poi, resta: mutano solo le proporzioni e le pose delle membra, i tratti del viso, la rotondità o la spigolosità delle forme.

Da sempre i corpi femminili sono non solo carne e sangue, ma strumento privilegiato per veicolare precisi messaggi, ammirati per le fattezze ma anche “territorio” in cui uomini hanno combattuto guerre e stipulato paci, dallo ius primae noctis fino agli stupri di guerra.

Seguitemi, ancora una volta, lungo i corridoi labirintici di musei nei quali vi conduco, invitandovi ad osservare i dipinti di bellezze desnude, realizzati nel corso del Medioevo e del Rinascimento.

Non si trattava solo di meri esercizi pittorici e di mero gusto estetico.


La Donna era un oggetto, non un soggetto: un oggetto idealizzato, pregiato, sofisticato e sfuggente, oppure minaccioso, eccitante, pericoloso e demoniaco. Ma, comunque, per definizione, un oggetto che, perché temuto, doveva essere sradicato da tutto ciò che non apparteneva alla sfera dell’irrazionale.

Le “figlie di Eva” sembravano trascinare con sé una condanna segreta: la maledizione di essere incomplete e, pertanto, di dover essere relegate ad una vita dedicata alla famiglia, alla maternità, alla consolazione e all’amore, quest’ultimo solo se nobilitato nel sacrificio e non nell’eros.

I valori maschili, patriarcali erano, al contrario, dominanti, perché connessi alla razionalità del Logos, da cui storicamente è derivato il potere.

L’essenza di tale prototipo del femminile, non percepibile nella sua interezza, si parcellizza in epifanie circoscritte, come un raggio di luce che attraversa un cristallo prismatico. Le immagini figurative ne sono divenute la rappresentazioni collettiva.


In età medievale, a seguito della diffusione della cultura derivata dal Cristianesimo, il corpo venne intenso come sacro tempio dell’anima, che doveva essere, ad ogni costo, preservato da impulsi carnali, forieri di grave peccato al cospetto di Dio.

Eppure gli impulsi continuavano ad esserci. Bisognava cercare un colpevole. Meglio UNA colpevole: la Donna, che sovente, nel periodo, personificava l’allegoria della Lussuria e, perfino, Satana, attraverso il ricorso ad una nudità cruda e morbosa che indugiava nella raffigurazione dettagliata degli attributi sessuali.

Nella donna, in colei che dischiuse il vaso di Pandora e offrì il frutto proibito, tutti i mali del mondo, in primis la morte, trovavano risposta e collocazione.

Soffermiamoci sui dipinti che ritraggono la progenitrice: Eva, prima della colpa, non conosce il pudore ed espone ingenuamente la nudità dei suoi seni acerbi da adolescente e la sua pancia, in cui non vi era stata contaminazione alcuna. Tuttavia, sovente, nella mano destra già impugna, se pur ancora inconsapevole delle irreversibili conseguenze, il pomo da cui la nostra Storia di esseri contingenti prese avvio, strappandoci, con morso, all’abbraccio dell’assoluto.


Poi, tutto sarebbe cambiato. Tutto.

Il Signore chiede ad Adamo: “Chi ti ha fatto conoscere che eri nudo? Non hai forse mangiato dell’albero che ti avevo proibito di mangiare?”. E Adamo risponde: “È stata la donna che mi hai dato per compagna che mi ha presentato del frutto dell’albero ed io ne ho mangiato“.

Genesi, 3, 11-12


Dopo la cacciata dall’Eden, la nostra progenitrice, ormai dannata, è dipinta dai tratti compendiari di Masaccio mentre, ben conscia della vergogna delle proprie carni colpevoli, si presta a celare pube e mammelle, mentre Adamo si limita a portarsi una mano al volto.


La donna, pertanto, era ritenuta complice del demonio, in quanto bruciante di incontrollabile passione e desiderosa solo di sedurre l’uomo per traviarlo, ancora una volta, ancora mille altre volte. Sarà la Madonna, una madre Vergine nata senza l’onta infamante del peccato originale, infatti, a schiacciare la testa del serpente, prima tentatore e, in seguito, complice di Eva.

Tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, i canoni della bellezza femminile cambiarono radicalmente. Si passò da figure muliebri pallide, diafane, dai seni appena accennati, a dame in carne, con fianchi larghi, candide curve generose, e visi dalle labbra e dalle gote pittate di vermiglio.

La maggior parte dei committenti e degli artisti del tempo non erano certo immuni al fascino delle fattezze delle donne e sfruttarono i soggetti sacri come un pretesto per eccitare la sensualità.

La nudità, in ambito cristiano, divenne, così, sempre più ambivalente: sia emblema della santità, della purezza e della mortificazione del proprio corpo, sull’esempio di Cristo sulla croce; sia simbolo di lussuria e lascivia.


Solo nel XVI secolo esordì il nudo con valenza impudentemente erotica, anche se accettato solo in quanto riconducibile ad una precisa allegoria o alla riproduzione figurativa di episodi mitologici.

Tuttavia, le figure femminili non furono più neoplatoniche espressioni del divino, quali la celeberrima Venere di Botticelli, un’asessuata creatura celeste, dalle linee geometriche perfette, che sdegna l’agitarsi tumultuoso delle umani e basse passioni, o le prestanti figure, sovrumane e distanti, dai tratti di matrice classica, che si devono al genio di Michelangelo.

Ed ecco, quindi, l’apparire di donne vere, come la Venere di Urbino, opera di Tiziano: una fanciulla immersa in un’atmosfera densa di colori caldi, con uno sguardo languido e un’espressione di beata sonnolenza, che pare formulare un dolce invito all’astante.

Non dimentichiamoci che è necessario imparare il linguaggio dei simboli iconografici di una data epoca, per dare parola alle opere d’arte.

Se veniamo invitati in casa di meri conoscenti, il marito potrebbe mostrarci le foto della sua consorte, magari un primo piano o uno scatto che la ritrae durante una vacanza. Ma se esibisse un’immagine in cui la donna disvela un seno, riterremo il comportamento insolito.


Nel Rinascimento, invece, il gesto femmineo appena citato non aveva una valenza erotica paragonabile a quella attribuitagli nei nostri giorni.

Circa 28 anni prima dell’opera di Tiziano, precisamente nel 1506, Giorgione ci fornì uno dei primi esempi di ritratto di una fanciulla che, con grazia, discosta la camicetta e mostra un seno scoperto. Non si tratta dell’effige di una meretrice né di una cortigiana, bensì di quella di una promessa sposa, probabilmente di alto lignaggio, che esprime, in tal modo, le sue doti di virtù e castità e la sua intenzione di addivenire ai propri doveri di madre.

Esporre una sola mammella era, pertanto, un esplicito riferimento alle Amazzoni, che secondo il mito, si univano sessualmente agli uomini solo per generare figli, non per assecondare sconvenienti voglie e basse pulsioni erotiche. Niente di pericolosamente sensuale, dunque, in tali immagini più volte reiterate, ma un sottomesso adeguarsi al proprio ruolo sociale di moglie.

Chi scorge una differenza tra spirito e corpo non possiede né l’uno né l’altro”.
Oscar Wilde

Emma Fenu

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