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martedì 17 maggio 2016

"RICORDO DI UN MOMENTO DI INFELICITA'" di Emilia Di Giovanni



Un vicolo buio 
di una città vuota
in una notte nera.
Un’ombra cammina: 
un pianto a dirotto.
Portoni serrati,
una finestra richiusa.
Un cuore spezzato nel vuoto di tenebre. 
L’ombra di un cane respinto:
era di un Paese lontano.

Proprio ieri sera per pura casualità ho scritto le suddette parole, che non possono certo essere definite versi. Sono pensieri scaturiti dal ricordo di un momento di grande infelicità. 
Ero in un paesino di montagna delle valli bergamasche, a mille chilometri di distanza dalla mia città. Vivevo la mia prima esperienza professionale e avevo con me le energie e l’entusiasmo di chi inizia un percorso esaltante. Affrontavo tutto con estrema leggerezza, senza riconoscere la fatica e i sacrifici. Una sera,però, questa carica emotiva è venuta meno e ha ceduto il posto a un sentimento di vuoto assoluto, di profonda tristezza e di solitudine. In quel paesino, dove l’inverno iniziava molto preso, la giornata era breve e per il freddo ci si chiudeva presto in casa. Mi ero comunque abituata a vedere le stradine svuotarsi molto rapidamente ,mentre poche luci fioche le illuminavano. La gente spariva come per incanto, ciascuno nella propria casa a cercare il caldo. In una di quelle sere mi rivedo sola camminare e piangere sonoramente a singhiozzi senza alcun controllo. Qualcuno dovette persino sentire il mio pianto. Avvertii sopra di me una presenza aprire una finestra, per poi richiuderla con un tonfo quasi a sbatterla con fastidio. In quel momento di solitudine non potevo curarmi di nulla. C’ero solo io con la mia infelicità, gli occhi nascosti degli altri per me non esistevano come io non esistevo per gli altri. Che cosa era accaduto a spezzare la mia energia? A produrre questo effetto devastante erano state delle parole dure, pronunciate quasi in tono aggressivo in un dialetto stretto, parole poco comprensibili, ma non al punto da non capire che dovevo solo andare via in fretta, perché quella casa che cercavo in affitto non poteva essere mia. Avevo commesso un grave reato: ero nata in una città del Sud. Dalla soglia di quella casa, a cui avevo bussato su indicazione di qualcuno, fui costretta ad allontanarmi in fretta senza replicare. Provai un sentimento di smarrimento e di paura. Ad aprire la porta era stata una donna, ma dietro di lei era comparso immediatamente un omaccione con dei lunghi baffi e parlando presto aveva assunto un tono minaccioso. Eppure di fronte aveva solo una ragazzina poco più che ventenne. Chissà quali sensazioni di timore e di minaccia quella giovane donna aveva potuto suscitare in lui. Quell’uomo lo riconoscerei ancora oggi, non posso dimenticarlo, come non posso dimenticare il dolore sconfinato e il sentimento di umiliazione e di sconfitta di quella sera.
E’ una semplice memoria, che risale a un passato non remoto e di certo non al Medio Evo,ma la stupidità umana, che non conosce limiti né di tempo né di spazio, vivrà sempre nelle tenebre e non conoscerà mai la luce della Rinascita. E’ un ricordo mesto, tuttavia privo di rancore. Per il rancore non può esserci spazio per quell’affetto che a distanza di anni mi lega ancora a tanti cari amici bergamaschi.

EMILIA DI GIOVANNI

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