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martedì 31 maggio 2016

"RICORDO RICOSTRUITO" di Annalisa Fabbro



AMARCORD: 

In questo caso non si tratta di un vero ricordo ma di un ricordo "ricostruito".
Una storia non personalmente vissuta ma appartenuta sicuramente a qualcuno. 
Scesi lentamente, molto lentamente, dalla macchina. 
Lasciai che l'aria gelida mi sferzasse il viso, come lama d'acciaio sulla pelle. 
Guardai oltre il cancello chiuso, guardai quel lungo viale di terra battuta, guardai la siepe, i rami cresciuti selvaggiamente parevano farsi beffa anch'essi del tempo in cui tutto era stato perfetto. 
Il mio sguardo si posò sulla casa.
Il dolore era ancora troppo forte, una pugnalata dritta al cuore.
Bella era ancora bella, solo che il tempo pareva averle conferito un alone di mistero rispetto a come la ricordavo.
Le imposte chiuse come palpebre adagiate dolcemente su grandi occhi malinconici. 
L'edera, che un tempo ricopriva solo in parte una delle pareti laterali della casa, si era impadronita di quasi tutta la superficie del muro esterno giocando a nascondino fra le colonne sopra la scalinata d'ingresso.
Avrei voluto abbattere quel grosso lucchetto metallico che ostacolava l'ingresso cingendo le pesanti ante del cancello in ferro battuto. 
Avrei voluto tornare indietro nel tempo, ritrovarmi di nuovo ad ascoltare le favole di fronte a uno dei grandi camini di pietra, sfogliare i libri custoditi gelosamente in biblioteca, ritornare a nascondermi mentre sentivo le voci dei domestici chiamarmi a gran voce, osservare estasiata mia madre mentre si pettinava i lunghi capelli seduta di fronte allo specchio della piccola toilette francese prima di recarsi a qualche festa o all'opera come spesso accadeva durante i fine settimana. 
Ma sapevo che nulla sarebbe più tornato. 
Non ero più la stessa persona di allora, avevo smesso di esserlo quel giorno in cui l'orologio di mio padre si era fermato, irrimediabilmente rotto dalla follia umana. 
Si era fermato il tempo, lo spazio, tutto era stato avvolto da una grande bolla, come se l'aria improvvisamente si fosse consumata e noi avessimo trattenuto il respiro per non sprecare la poca aria che ci era rimasta rinchiusa nei polmoni. 
Ricordo mio padre seduto composto sulla grande poltrona in velluto quel pomeriggio di fine inverno inizio primavera, stava leggendo il giornale con i piccoli occhiali d'oro calati sul naso, l'aria assorta e gli occhi che si muovevano velocemente sulle piccole lettere nere come carboni impresse sulla candida pagina.
Improvvisamente il suono squillante del campanello echeggiò nel grande salone, rimbalzò da una parete all'altra, sinistro presagio di una sciagura imminente che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla nostra famiglia.
Poi le urla sguaiate, cattive, lo sbattere rabbioso di porte che si aprivano e si chiudevano, comandi feroci gridati da una stanza all'altra finché eccoli tutti insieme irrompere improvvisamente dentro alla nostra stanza. 
L'ultimo ricordo che ancora conservo nella mia memoria è quello di mio padre che appoggia il giornale lentamente sul tavolino di fronte a sé e si solleva piano.
In quel momento mi appare piccolo, quasi minuscolo, impotente nella sua fragilità di uomo inerme.
Viene spintonato in malo modo, mio padre inciampa, cade, gli sferrano un calcio, un lamento sommesso, urla, insulti, l'orologio si sfila, cade per terra con un tonfo sordo sul legno, qualche pezzo rotola lontano, qualcuno calpesta i vetri, improvvisamente i rumori si amplificano anche se sono sommessi, l'ora si ferma per sempre alle 17,10. 
Non so dire quanto tempo rimasi nascosta dentro a quella piccola cavità celata dietro alcuni scaffali in cui mi aveva fatto entrare mio padre poco prima che arrivassero a prenderlo e da cui avevo potuto assistere a tutta la scena senza essere notata, forse ore, forse addirittura giorni.
La paura mi aveva fatto rimanere in silenzio, immobile dentro al mio nascondiglio, ora lo so, da quel nascondiglio non ci sono più uscita, lì ho lasciato per sempre il mio cuore.
Vagai impaurita finché venni notata da una donna, mi riconobbe, conosceva la mia famiglia, si ricordava di avermi vista spesso stringere alla mia piccola mano quella del grande professore, del grande medico, del mio adorato papà. 
Mi nascose, lei che non era colpevole di essere ebrea, fino al giorno in cui un uomo mi prelevò dalla sua casa e venni imbarcata verso una destinazione a me sconosciuta e che solo più tardi compresi chiamarsi America.
Quando sbarcai avevo una nuova identità, non ero mai stata di religione ebraica.

ANNALISA FABBRO


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