La mia esperienza con l'allattamento non è stata delle più semplici.
Purtroppo sono stata costretta a interromperlo quando mia figlia Aurora aveva appena tre mesi e non a causa dell’esaurimento del latte.
È stata una decisione molto sofferta, ma gli avvenimenti che hanno provocato un puerperio estremamente drammatico mi hanno obbligata ad arrivare a questa conclusione.
Ho avuto un parto cesareo gemellare d'emergenza, il 19 ottobre 2012.
La gravidanza fu intensamente desiderata e cercata per diversi anni. Soffrivo di endometriosi, una patologia che colpisce l’apparato genitale femminile e crea delle aderenze cicatriziali fra i vari organi pelvici. Nelle forme più gravi, la malattia si espande al retto, agli ureteri, alla vescica: si trattava proprio del mio caso. Cinque anni prima avevo affrontato un intervento per debellare l’endometriosi, ma il chirurgo, oltre ad appurare le severe adesioni e constatare che era pericoloso rimuoverle, mi disse implacabilmente che un concepimento naturale sarebbe stato impossibile.
Ero affetta anche da una malformazione di origine prenatale: l’utero non era sviluppato completamente, era concavo invece che convesso; in sostanza, ne mancava quasi un centimetro rispetto alla norma, ma non fu necessario intervenire chirurgicamente per espandere la cavità. Per i ginecologi sarei stata in grado di sopportare una gravidanza, semmai fossi riuscita a concepire.
L'endometriosi diffusa che invadeva il mio ventre ostacolava l’incontro dell’ovulo con lo spermatozoo e di conseguenza l’eventuale annidamento dell’embrione, così ricorsi alla fecondazione assistita in vitro per favorire il concepimento. Al quinto tentativo finalmente arrivò la buona notizia, e che notizia: incinta di due gemelli! La preoccupazione principale riguardò la ristrettezza dell’utero. Si sarebbe allargato a sufficienza per accogliere due feti? I medici mi rassicurarono, sostenendo che comunque sarebbe stata una gravidanza monitorata, da concludere con un parto cesareo programmato all’ottavo mese. I bambini sarebbero nati leggermente prematuri, presso un policlinico bolognese dotato di un reparto di Neonatologia di livello avanzato.
Scoprii di essere incinta il 3 maggio 2012.
Inizialmente procedeva tutto con regolarità, a parte la terribile ansia che mi abbrancava. L’agitazione aumentava a causa degli eventi che si susseguirono in quel periodo in Emilia: le forti scosse di terremoto che devastarono la provincia di Modena e che avvertii prepotentemente la prima volta mentre dormivo e la settimana seguente in ufficio a Bologna, mi misero ulteriore inquietudine. Avevo paura: nell'anima sapevo che sarebbe stata l'unica volta nella mia vita che potevo essere gravida, la sola occasione, ricercata ormai da sei anni.
Giugno fu abbastanza movimentato. Cominciò la nausea e delle leggere perdite ematiche che mi suscitarono ancora più angoscia, al punto da recarmi urgentemente al pronto soccorso. Era tutto sotto controllo, i due embrioni stavano lì, saldi all’utero della loro mamma, con i cuoricini pulsanti di vita. Cercai di tranquillizzarmi ed evitare qualsiasi sforzo, chiedendo al medico di mettermi in malattia per qualche giorno.
L'estate procedeva veloce, sebbene quotidianamente contassi quanti giorni mancavano per arrivare a un periodo sicuro, cioè alla fine del primo trimestre che era considerato il più critico. A quel punto, a metà luglio, comunicai a tutti che ero in stato interessante.
Sembrava continuare tutto placidamente, e arrivai con serenità al quinto mese.
Di ritorno da una bella settimana di vacanza sulle Dolomiti con Stefano, sopraggiunse il primo disturbo notevole: i piedi si gonfiavano terribilmente. Addebitavo questo fastidio al caldo e alla cattiva circolazione linfatica dovuta al progressivo aumento di peso della pancia sugli arti inferiori. Il malessere peggiorava progressivamente. In settembre, in aggiunta ai piedi, si ingrossarono i polpacci, le ginocchia, le cosce. Ero goffa, faticavo a camminare.
Le ecografie andavano comunque bene, i feti erano vitali e sviluppati correttamente.
Durante l’esame morfologico, oltre ad annunciare che erano due femminucce, mi informarono che la placenta della bambina posizionata a sinistra era inserita molto in basso (placenta previa centrale); se non si fosse rialzata entro l'inizio del settimo mese, rischiavo di partorire prematuramente e sarei dovuta rimanere distesa per gli ultimi due mesi. Il parto era tuttavia previsto con cesareo, verso la trentaseiesima settimana di gestazione. La dottoressa rilevò inoltre che la bimba con la placenta bassa probabilmente presentava un piedino storto.
Proprio in quei giorni cominciai a percepire i primi calcetti della bambina collocata a sinistra. Avevamo stabilito i nomi: Aurora per la bambina col piede storto, Lucia per la bimba disposta a destra. La ginecologa mi comunicò che durante il parto avrebbero estratto prima Lucia quindi Aurora, così avevo la certezza chi fosse una e l’altra e mi sarei ricordata le sensazioni riscontrate con entrambe durante la gravidanza, con la loro attività fetale.
Con Lucia non avvertivo nulla. La sua placenta era inserita anteriormente, quindi formava una specie di cuscinetto che attutiva la percezione dei movimenti.
I primi di ottobre, alla fine del sesto mese, il ginecologo, valutando che la placenta non si era rialzata, mi mise in maternità a rischio. Per rimanere totalmente a riposo, mi trasferii da mia madre a Cesena.
A parte il gonfiore, stavo bene, ma la tragedia incombeva dietro l’angolo.
Il 16 ottobre andai all’ospedale per effettuare l’esame della curva glicemica, successivamente dal flebologo per il controllo alle gambe. Il rigonfiamento eccessivo mi preoccupava, temevo di avere dei disturbi alla circolazione sanguigna. Durante la mattinata mi stancai eccessivamente; inoltre il persistente caldo umido in quell’autunno inoltrato aggravava l’affaticamento.
Di ritorno a casa, sopraggiunse una forte emorragia, probabilmente causata dalla placenta previa della gemella situata nella sacca di sinistra; mi ricoverarono d'urgenza. I ginecologi tentarono di posticipare il parto, arrestando il dissanguamento e nel frattempo mi somministrarono il cortisone, che permette ai polmoni dei feti eccessivamente prematuri di svilupparsi. Purtroppo dopo tre giorni pervenne una nuova emorragia e dovettero intervenire perché la situazione stava diventando veramente rischiosa, sia per me che respiravo con difficoltà, sia per le bambine. Mi portarono in sala operatoria con la massima rapidità.
Dopo l'estrazione delle bimbe, furono costretti a praticarmi l'isterectomia, farmi molteplici trasfusioni di sangue, ricostruire un uretere, rimuovere le numerose aderenze dell'endometriosi.
Gli organi addominali erano appiccicati: utero, ovaie, tube, vescica, retto, ureteri. I chirurghi non distinguevano quale fosse l'utero e cosa vi era attaccato insieme. Sfortunatamente, in tale emergenza venne sezionato un uretere; riversavo fiumi di sangue senza che i dottori capissero da dove uscisse. Mi salvarono prodigiosamente, l'emoglobina nel corso dell'intervento scese addirittura a meno di tre punti, qualcuno si chiese come possa essere sopravvissuta, non riportando danni permanenti, in seguito a una batosta del genere. In quel caos, i sette chirurghi e anestesisti presenti in sala operatoria per quasi otto ore, riuscirono a conservarmi intatto un ovaio, pertanto non entrai in menopausa a soli 38 anni.
Le bambine nacquero alla ventottesima settimana, Lucia morì tre giorni dopo: la sua capacità polmonare era molto ridotta e aveva avuto delle emorragie cerebrali. Nemmeno una trasfusione la salvò. Forse è stato un bene per lei, con tutti quei traumi avrebbe riportato quasi certamente delle lesioni indelebili e avrei vissuto un’esistenza di rimorsi. Meglio rimanga un rimpianto sopito nel cuore.
Aurora fu assistita cinquanta giorni in Terapia Intensiva Neonatale, di cui un mese in incubatrice.
Io rimasi ricoverata per tre giorni in Terapia Intensiva Post-chirurgica, imbottita di antibiotici, calmanti, collegata a macchinari che monitoravano i valori vitali: respirazione, battito cardiaco, saturazione. Tutto il periodo a occhi spalancati. Il primo ricordo successivo all’intervento fu quando mi tolsero il respiratore dalla bocca, poi quando mi lavarono. In seguito, oblio. Appurai dalla cartella clinica che il vuoto di memoria durò all'incirca tre ore. Il respiratore venne rimosso alle 9 del mattino e a mezzogiorno vidi l’ora sull’orologio a muro, nel momento in cui un'infermiera venne a riferirmi che le bambine stavano bene. Successivamente, per l’intero soggiorno in quel reparto, non riuscii mai a dormire. Ero l'unica persona vigile fra quelle ricoverate, osservavo ogni cosa, la frenesia degli operatori sanitari, sentivo gli allarmi dei monitor collegati a me e agli altri pazienti. Udivo rumori inquietanti: una sorta di respiro rantolante che emetteva il macchinario, il suono d'allarme a campana da defunto se il sensore non rilevava il collegamento col dito. Un luogo infernale. Gli altri pazienti erano tutti moribondi, di una venni a sapere che la settimana seguente morì. In quel posto, il tempo era immobile, faceva un caldo assurdo o forse era una mia sensazione, in quanto registravo valori dell'emoglobina bassissimi. Io capivo ed esaminavo le situazioni, non mi sfuggiva nulla. Negli orari prestabiliti ricevevo molte visite, del mio compagno, di mia mamma, di parenti e amici. Sembrava che sfilassero tutti per salutarmi, come se stessi per morire. Io sapevo che avrei superato quel calvario, ero debole fuori, ma una roccia dentro, volevo vivere per le mie bambine, per conoscerle. Ogni giorno temevo l'arrivo della sera e soprattutto della notte. Di notte avvertivo delle fitte dolorose all’addome e chiedevo i calmanti, le droghe. Le iniettavano ma non bastavano, le richiedevo. Ne davano ancora, poi dicevano che non potevano proseguire. Provavo dolore perché ero bloccata, non potevo assolutamente alzarmi. Ero ferma nel letto ad acqua, conscia di essere stata menomata della parte più importante per una donna. Consapevole di non poter avere altri figli e del fatto che c'erano due scriccioli di un chilo che mi aspettavano in un’incubatrice ed erano private dell’abbraccio affettuoso della loro mamma.
La mattina del quarto giorno di permanenza in Terapia Intensiva, il medico di turno richiese una radiografia ai polmoni e arrivò l’annuncio che aspettavo con trepidazione: potevo tornare in Ostetricia; lì i ginecologi e gli urologi mi avrebbero rimesso in sesto e avrei potuto cominciare a visitare le mie bimbe ricoverate in Terapia Intensiva Neonatale.
Poco prima di essere trasferita, un operatore, col volto corrucciato, mi riferì che in sala d’aspetto c'era il mio compagno che doveva darmi una notizia. Io capii immediatamente cosa stava per riferirmi. Infatti, Stefano entrò in lacrime. Lucia era morta da due ore, arresto respiratorio. Impulsivamente, affermai di essere pentita di aver cercato così disperatamente di diventare madre, perché il mio corpo non era strutturato per resistere a una gravidanza, a maggior ragione gemellare. Poi, dichiarai con fermezza che Aurora sarebbe vissuta e che l'avremmo portata a casa, a tutti i costi.
Quasi contro la mia volontà, mi caricarono su una sedia a rotelle e mi condussero dalle bimbe. Vidi prima Lucia, imbacuccata in un lenzuolino decorato con orsacchiotti; giaceva all’interno dell’incubatrice spenta. Un cucciolo inerme, col viso emaciato di colore grigiastro. Uno strazio per il cuore.
Infine da Aurora, vestita solo del pannolino microscopico, che si muoveva come una trottolina dentro all’incubatrice accesa. Era un supplizio vederle uscire i fili e i tubicini da quasi tutto il corpo: piedino, pancia, naso. Stava lì, spalancava gli occhioni scuri, agitava le mani, si portava perfino il ditino in bocca. E aveva una testa di capelli nerissimi e folti.
Era minuscola, 37 cm di lunghezza, tutta raggrinzita: la mia bimba bellissima!
L’infermiera mi propose di prenderla in braccio, ma rifiutai. Ero estremamente debilitata, avevo timore di procurarle delle infezioni. Mi limitai a osservarla e a sussurrarle qualche parola dolce, col naso attaccato al vetro del contenitore elettronico che le garantiva la sopravvivenza. Rimasi poco, la debolezza e il dispiacere mi avevano abbattuto a tal punto da desiderare solo di non esistere più.
Quando tornai in Ostetricia non pensavo minimamente di poter allattare, credevo che dopo quello shock chirurgico ed emotivo il latte non sarebbe arrivato. Invece, le ostetriche mi incoraggiarono a stimolare il seno col tiralatte. Non intendevo farlo, ero troppo demoralizzata, pensavo che anche Aurora non sarebbe sopravvissuta.
Poi, mi decisi. Immobile nel letto, con i cateteri uretrali e di drenaggio, la flebo, l’antidolorifico, altre sacche di sangue, mi feci consegnare quell’aggeggio elettronico di spremitura delle mammelle. Ne veniva poco, ma qualcosa sgorgava! Il trauma non aveva inibito la produzione del latte.
Purtroppo, non potevo nemmeno fornirglielo, perché quando ero stata ricoverata in terapia intensiva circolava fra i pazienti un'infezione batterica e forse l’avevo contratta. Così, durante quelle giornate da incubo, era consigliabile che non andassi a visitare la mia bimba di un chilo, e se lo facevo, dovevo stare a debita distanza e indossare indumenti sterili: camice e mascherina per scongiurare qualsiasi contaminazione. Dovetti aspettare quasi un mese per prenderla in braccio e praticarle la marsupio terapia.
Il sesto giorno dal parto, una sera mentre cercavo di dormire, avvertii sgocciolare un liquido dal petto, la camicia da notte si stava bagnando: usciva una secrezione lattea.
Da allora lo tirai più assiduamente. Dal punto di vista fisico stavo leggermente meglio, anche se mi dimisero dopo due settimane dal cesareo. Innanzitutto dovettero rimuovere i punti di sutura, ne avevo parecchi, e farmi una radiografia vescicale per verificare se l'uretere si stesse rimarginando. Non volevo tornare a casa con un catetere.
Il latte lo toglievo sia in camera che in Neonatologia.
Le operatrici della Banca del Latte lo congelavano in attesa di sapere se fossi stata infettata. Mi fecero quattro tamponi per avere la certezza che fossi negativa.
Intanto somministravano ad Aurora, dapprima per via parentale poi con una sonda inserita in gola, il latte donato dalle mamme che ne producevano in sovrabbondanza.
Quando uscii dall’ospedale, il 3 novembre, noleggiai un tiralatte professionale in farmacia.
Facevo la spola fra l’appartamento di mia madre e Neonatologia, due volte al giorno. Estraevo il latte tre volte in ospedale e due a casa. Alla notte non riuscivo. Dovevo dormire, recuperare energie in seguito al terribile intervento e alla fatica fisica ed emotiva di restare tanto tempo in un posto come Neonatologia: un limbo, dove la vita della mia unica figlia stava appesa a un tubicino per la nutrizione, un tubicino per respirare, un monitor che suonava in continuazione per l’ossigeno, il cuore, la saturazione... un incubo! Lo stesso tormento che avevo vissuto venti giorni prima presso la Terapia Intensiva Post-chirurgica.
Facevo leva su tutte le mie forze, sopportavo, ma internamente c'era una bestiaccia che avanzava, malgrado ancora non me ne rendessi conto.
Quotidianamente consegnavo circa 120 cc di latte. Poco, ma sufficiente per le dosi minime che assumeva Aurora.
Verso metà novembre, quando la bambina arrivò al peso di 1,3 kg, la tolsero dall’incubatrice. Ormai aveva raggiunto le 32 settimane ed era capace di respirare autonomamente.
Le infermiere mi insegnarono a "maneggiare" un frugoletto tanto piccolo: cambio, doccia, bagnetto e finalmente provai ad attaccarla al seno. Ci stava pochi minuti, poi si addormentava. La pesavo prima e dopo la poppata. A volte prendeva nulla, altre 5 o 10 grammi. Il personale sanitario mi incoraggiava moltissimo. Si continuava l'allattamento col biberon ed eventualmente, se si addormentava, con l’inserimento della cannula. Era un delirio: molte volte andava in apnea, bisognava rianimarle la respirazione pizzicandola oppure le posizionavano sul viso una mascherina di aria.
Intanto la produzione di latte aumentava. Ne consegnavo fino a 200 cc al giorno. Le eccedenze venivano congelate e conservate presso la Banca del Latte.
Mi sentivo sempre più resistente ed energica, malgrado avessi un corpo estraneo nell’addome: uno stent uretrale che sosteneva l’uretere danneggiato in attesa fosse rimarginato completamente.
Ma l'umore rasentava la tristezza. Non avevo pace, nutrivo sensi di colpa per non aver portato a termine la gravidanza, per la morte di Lucia, per la prematurità estrema di Aurora.
In quei giorni inoltre appresi un dettaglio che mi procurò ulteriore amarezza: alla nascita erano stati scambiati i nomi delle bambine. Lucia era diventata Aurora. Me ne accorsi leggendo il referto di Lucia: la neonata aveva il piede storto. Malgrado tale sospetto balenasse nella mia mente già da quando mi comunicarono i pesi delle bimbe (dall’ultima ecografia risultava una differenza di mezzo chilo fra i due feti), rimasi comunque perplessa e giudicai l’avvenimento come un segno del destino. Forse in questo modo potevo averle entrambe con me, unite in una sola persona.
L'8 dicembre finalmente dimisero Aurora.
In accordo con Stefano, decisi di rimanere a Cesena: così mi sarei dedicata totalmente ad Aurora e mia madre mi avrebbe assistito per il resto delle faccende, consentendomi di riposare il più possibile.
Ero terrorizzata, che non mangiasse, che non respirasse, che morisse.
Pesava 1,9 kg, 45 cm. di lunghezza, piccolissima. Dormiva di continuo. Tentavo di attaccarla al seno, ma resisteva solo pochi minuti. Perciò continuavo a tirarmi il latte, giorno e notte; le davo esclusivamente il mio senza ricorrere a integrazioni. Ogni volta impiegava persino due ore per mangiare 30/40 cc al biberon. Non facevo in tempo a cambiarla, allattarla e addormentarla, che era già ora di fare un'altra poppata. Andava avanti così ogni giorno, per sette volte nell’arco delle ventiquattro ore.
La controllavo incessantemente, soprattutto nelle ore notturne, che respirasse. Pertanto, dormivo pochissimo e lentamente l'esaurimento nervoso progrediva, in modo subdolo. Addirittura, un pomeriggio ebbi un'allucinazione uditiva: mentre riposavo, con lei a fianco, avvertii i segnali acustici dei monitor che controllavano Aurora quando era ricoverata. Credevo di essere impazzita.
Manifestavo scatti di ira verso chiunque e apparivo malinconica, senza vitalità. Passai un Natale molto triste. Dovevo essere contenta di avere la mia bambina a fianco e tanti amici e parenti che mi aiutavano in questo momento difficile.
Vedevo solo nero, non avevo più aspettative dal futuro né desideri. Riuscivo soltanto a occuparmi di Aurora e a togliermi il latte.
Dopo Santo Stefano presi appuntamento al Centro di Igiene Mentale in quanto durante il ricovero mi avevano fatto assumere uno psicofarmaco stabilizzatore dell'umore. Volevo interromperlo, invece lo psichiatra durante la visita mi diagnosticò la depressione post-partum.
Oltre a non sospendermi il medicinale, affermò che se non avessi allattato avrei potuto cominciare una cura con un antidepressivo più efficace per guarire velocemente e riprendere in mano la mia vita, con positività.
Ma non intendevo rinunciare ad allattare, anzi per produrre più latte prendevo addirittura una farmaco che stimolava l’ormone della prolattina.
Alla fine dell’anno dovetti fare un'integrazione con l’artificiale: in diverse occasioni Aurora non aveva bevuto dal biberon tutto il mio latte e l'avevo dovuto buttare. Era una frustrazione enorme gettare il latte tanto faticosamente ottenuto. Correvo contro il tempo e le quantità: biberon, "mungitura", nanna, cambio pannolino; sostenevo il ritmo proprio per un soffio. Quello che tiravo bastava solo per la poppata successiva.
Subivo le pressioni dei miei familiari che insistevano affinché estraessi il latte più spesso, che ne favorissi l'incremento con tisane, finocchi, fieno greco.... ma ero stremata e il senso di colpa aumentava a dismisura.
Il 31 dicembre vennero degli amici e festeggiammo il Capodanno. Ero un po' più allegra. Subito dopo il brindisi di mezzanotte crollai dal sonno. Quella nottata non ebbi voglia di togliermi il latte, continuai a dormire. Pure Aurora non si svegliò strillando. La alzai io alle 5 perché erano trascorse sei ore dall’ultima poppata e, per una neonata di due chili, era un lasso di tempo troppo lungo. Mentre Stefano le dava il biberon, io tiravo il latte. Però avvertivo molto fastidio a un seno. Si era aperta una ragade, sanguinava. Interruppi immediatamente e telefonai in Neonatologia per un consiglio. I medici e le infermiere erano sempre disponibili telefonicamente per accompagnare i genitori di bimbi prematuri nel faticoso periodo del post dimissioni. Mi prescrissero una crema specifica per rimarginare la piaga.
Rimasi quasi 12 ore senza estrarre il latte in quella mammella. Il pomeriggio del primo gennaio mi insorse un ingorgo mammario. Richiamai in ospedale e mi indicarono di fare impacchi caldi e spremere il petto manualmente. Non so quanta acqua calda ci versai sopra con la doccia, tanto da sbloccare l'ingorgo e ricominciare con attenzione a tirarmi il latte anche in quel seno.
All’inizio di gennaio portammo Aurora dall'oculista. Ci dissero che poteva avere un distacco della retina, disfunzione che affligge i bambini immaturi che assumono l'ossigeno.
Mi cadde il mondo addosso. Immaginavo la mia bimba cieca, totalmente dipendente: era calato definitivamente il sole per me. Cominciai a soffrire di ansia, attacchi di panico, tachicardia, sudorazioni, pensavo di avere un infarto in corso, non riuscivo più ad addormentarmi alla notte e nemmeno a fare riposi diurni. Credevo che sarei morta, che forse sarebbe stato meglio: nessuno ne avrebbe sofferto, perché ormai ero diventata un fardello per tutti.
Non demordevo con l'allattamento tradizionale, sebbene Aurora si attaccasse al petto a malapena. Questo comportava maggiore sforzo per me. Infatti, dopo averle offerto il seno per mezz'ora ed aver appurato che aveva ingerito pressappoco 30 grammi, dovevo fornirle il biberon con la restante quantità, tenerla sveglia per farle bere tutto, quindi tirare di nuovo il seno per avere ancora latte a disposizione per la poppata seguente.
Come se non bastasse, si era guastata nuovamente la ragade, ricomparso l'ingorgo ed ero sempre più depressa e stanca, in quanto erano già dieci notti che non dormivo, percepivo in continuazione le palpitazioni.
A metà gennaio, al culmine della stanchezza, del nervoso, della preoccupazione per la mia salute fisica e mentale, corsi con urgenza al Centro di Igiene Mentale e il medico, vedendomi in quelle condizioni, mi prescrisse un blando sonnifero compatibile con l'allattamento per aiutarmi almeno a riposare un poco. Le notti seguenti dormii qualche ora, ma di giorno comunque vagavo come uno zombie, nervosa, col batticuore.
Intanto, il latte cominciava a scarseggiare e a perdere di qualità.
Quando lo tiravo, in alcune occasioni ne veniva pochissimo, altre più di 100 cc, ma aveva una consistenza acquosa, di un colore trasparente. Aurora piangeva sebbene le fornissi la quantità stabilita. Perciò facevo delle integrazioni con quello in polvere, il mio non la sfamava sufficientemente. C'era chi mi consigliava di interrompere l’allattamento, chi pretendeva che continuassi, chi mi accusava che volevo smettere per potermi imbottire di antidepressivi. Ero disperata. Comprendevo che per Aurora era più importante avere una mamma sana di mente piuttosto che il mio latte; mi trovavo in un grande dilemma, rinunciare significava fallire nel compito basilare di madre.
Il lunedì successivo andai dalla psicologa dell'ospedale e, ravvisandomi in quello stato pietoso, sostenne che dovevo smettere, avevo già dato il massimo. Mi accompagnò da una ginecologa che mi consegnò le famose pillole per bloccare l’attività mammaria.
Quattro compresse suddivise in due giornate e addio al latte, anche se prima del suo completo arresto mi venne un altro ingorgo mammario. Lo curai con impacchi bollenti stesa in vasca da bagno. Per poco non svenni a causa dell’abbassamento di pressione provocato da quel trattamento casalingo.
In seguito, assunsi lo psicofarmaco più potente, ricominciai a dormire, malgrado per un altro mese la depressione fu pesantissima, dimagrivo a vista d'occhio, perdevo i capelli, non desideravo uscire di casa, pregavo affinché mi venisse un accidente mentre dormivo.
Ho avuto tanti aiuti: mamma, zie, compagno, amiche, cugini, conoscenti, le mamme e le operatrici del Centro Famiglie di Cesena, le ostetriche, gli psicologi di Neonatologia e del Consultorio, le addette del Consultorio di Cesena, l'insegnante di Yoga che mi ha fatto rilassare, tutto il personale di Ostetricia e Neonatologia, la psicologa di Bologna che telefonava per consolarmi e spronarmi a reagire. Se sono viva e guarita è grazie a tutti loro. Mi sono venuti a trovare, mi hanno tenuto compagnia, fatto parlare, sfogare il dolore e soprattutto trascorrere il tempo. Non volevo mai stare sola. Alla mattina mi svegliavo sperando di arrivare subito a sera e alla sera, mettendomi a letto, pregavo affinché non giungesse la mattina.
Aurora è stata molto brava e mi ha agevolato nel recupero completo dell’entusiasmo: da marzo ha cominciato a dormire tutta la notte e da allora la strada è ricominciata a risalire. Miglioravo, avevo iniziative, voglia di uscire e fare esperienze da condividere con la bambina, meno timori, coraggio.
Ora, che sono trascorsi quasi due anni, quel tragico 19 ottobre voglio ricordarlo come il giorno dell'anno in cui è nata mia figlia. Non ho nessun rammarico per aver allattato solo tre mesi. Anzi, credo sia stato un prodigio che in quelle circostanze negative io abbia avuto il latte e abbia avuto soprattutto la forza di donarglielo.
Ho dovuto scegliere: ho scelto di guarire! Da gennaio 2013 Aurora è stata alimentata con l'artificiale; è una bimba che nel suo primo anno di vita si è ammalata solo una volta, dorme regolarmente, è vispa, allegra, attenta. E credo mi voglia bene malgrado non ci sia stato il contatto col mio seno.
Chiara dall'Ara
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