STRALCIO.
Per le vie della città vagammo senza una meta precisa, lasciandoci attrarre ora da un suono singolare, ora da un colore più intenso, ora dal taglio sghembo di una via che si dipartiva da quella che stavamo percorrendo, ora da un sorriso più accattivante sul volto di un uomo o dalla sua ruga più espressiva. Così facendo, giungemmo in una piazza rettangolare dove le auto non circolavano. Territorio di gioco di bimbi felici i cui aquiloni si impennavano nel cielo turchino dell’ora che precede l’imbrunire. I gialli e i rossi, le luci calde e le ombre fonde, ritagli di quella stoffa che il sole adopera per cucire il tramonto, si alternavano sui quattro lati del sagrato.
Vagabondando pigramente, ci eravamo trovati in quel luogo denso di colore e di vivace e semplice felicità.
Pensai a quanto un viaggio sia inseguimento del caso, eppure, in fondo, essenza stessa di una ricerca precisa che non conduce ad altro che a se stessi. Quanto meno di noi portiamo via partendo e allontanandoci da noi stessi, tanto più di noi incontreremo lungo le strade che percorreremo.
Le grida dei bambini non riuscirono a coprire la musica che fuoriusciva a fiotti dal minuscolo portone della chiesa, la cui facciata era ancora accesa da un ultimo raggio ritardatario. Ipnotizzati, ci lasciammo attrarre nell’oscurità fresca, dove la melodia allegra contrastava violentemente con la sacralità del luogo. Musica leggera? Pensai.
“Sembra più un concerto rock che l'Ave Maria!”, disse ad alta voce Paolo. E Paolo di musica se ne intendeva.
Bisogna lasciarsi andare per entrare nello spirito profondo di questo popolo e capire le sue espressioni. La musica è la sostanza stessa della natura di questa gente. In essa vengono sintetizzati i fondamenti della sua cultura, i principi che muovono la vita. Con il ritmo delle note vengono dipinti i giorni e le notti di tutta l’esistenza. Perché stupirsi, quindi, di un inno sacro travestito da canzonetta?
Guglielmo ascoltava in silenzio. Indossava una maglietta rossa e se ne stava ritto in piedi, le braccia conserte, dietro l’ultimo banco. Aveva lo sguardo fisso all’altare.
“Preghi?”, gli domandai piano.
“Pensi che non possa farlo?”, mi rispose serio. E il discorso cadde, inciampando rovinosamente sui punti interrogativi.
Maria Cristina Sferra
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