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venerdì 27 marzo 2015

LA SCONOSCIUTA di Carlesca Le Sorelle

DONNE SI RACCONTANO 

LA SCONOSCIUTA

Lo sbuffo del treno e la condensa di vapore riempì l’aria cristallizzandola in attimi umidi.
Mi fermai e chiusi gli occhi. Volevo conservare quegli attimi. Per sempre.
Di lì a pochi momenti, sarei salita su quel treno e sarei andata in un’altra città, per ricominciare.
Ancora una volta.
Com’era difficile, ora. Lo avevo fatto per così tanto tempo, per quanti anni? Dieci, dodici? Non ricordavo più. Ogni volta era sempre più difficile, ogni volta andarmene era più difficile.
C’erano di mezzo le persone che conoscevo e che avevo conosciuto e una parte di me era cambiata, avevo condiviso qualcosa con loro e con loro avevo trascorso dei momenti, che ora aggredivano un delirante rimorso.
Sentivo una parte di me refrattaria alla partenza, a quell’ennesima fuga fatta di addii, di promesse e di improbabili ritorni.
Loro non sapevano chi fossi, né da dove venissi. Ero stata per loro una perfetta sconosciuta che aveva risieduto nella loro città e pian piano conosciuto una parte di essi al parco, in lavanderia, allo studio medico, al bar, alle poste, al supermercato.
La loro iniziale diffidenza era stata sostituita da una graduale cordialità con momenti di amicizia senza scopi reconditi. Forse qualcuno, due o tre di loro, all’inizio mi avevano visto come una facile preda pronta a cadere nella solita trappola della “fanciulla in cerca d’amore", ma feci desistere le loro ardite passioni dicendo che ero già sposata. Una mezza verità, in fondo. Ero sposata indissolubilmente con il mio lavoro e con la mia professione.
Loro non sapevano chi fossi. Né cosa facessi. Alle loro domande rispondevo con finta noncuranza e tagliavo corto.
Ero brava a fingere e a dire bugie. Costruivo interi castelli di sabbia con l’espressione più candida del mondo. Mi pagavano per questo.
Non immaginavano con chi avevano a che fare. Parlavano con un mostro che portava la gonna e non lo sapevano.
Un mostro capace di uccidere a comando e su commissione, senza mezzi termini e pentimenti. Un mostro che non conosceva pietà e misericordia. La mia parcella era scritta col sangue di poveri cristi che i miei committenti si premunivano di estirpare in ogni modo e con ogni mezzo.
Io ero l’ubbidiente manovale che faceva il lavoro sporco, mentre gli altri si divertivano ai party o nelle cosce di qualcuno.
Non ho mai avuto una vita mia e né l’avrò mai. Non ho documenti, né possedimenti. Non ho macchine, né gioielli.
Ma so quando è tempo di andare via, quando il cerchio si stringe. Ed ora il nodo era più stretto.
Adesso, su quel treno sentivo i graffi di quella vita negata che mi alitava sul collo. Ero stordita, avvilita, esausta.
Volevo soltanto fuggire per non arrivare mai. Da nessuna parte. Perdermi all’infinito.
Il treno si avviò ed i miei pensieri si mescolarono alla condensa del vapore che allargandosi avviluppava persone e luoghi, in una morsa invisibile.
Prima di arrivare a destinazione, il capotreno fece i soliti controlli di rito, chiedendomi il nome ed i documenti.
“Le auguro buona permanenza, signora Morton” mi sibilò ghignando, guardandomi con una luce particolare negli occhi.
Carlesca Le Sorelle

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