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mercoledì 25 marzo 2015

"Polaroid" di Viviana Minori


Un materasso poco accogliente, cuscini troppo morbidi e lenzuola sgualcite ma bianche, con un bordino verde acqua marina. Una finestra davanti a lei che delimita lo spazio tra pubblico e privato: questa volta rimane privato; la serranda è abbassata ma non troppo per lasciar filtrare un po’ di luce del mattino. Un’atmosfera rilassata che poco si allinea con i pensieri nella sua mente, se avessero voce sarebbe davvero un gran caos: giocano a ping-pong nella testa senza mai segnare un punto. Sente la pesantezza del fianco che preme sul materasso, questa sensazione la riporta alla realtà ed inizia ad analizzare ogni particolare presente nella camera; non è la prima volta che la guarda, forse la prima che la osserva. È sempre stato così, osservava le cose quando sentiva che piano piano queste prendevano il volo anche se spesso era cieca al richiamo del cambiamento, non aveva un buon rapporto con il movimento involontario delle cose e delle persone. Più in generale con il movimento dello status quo. Una finestra aperta (è caldo), una tenda dal tessuto sottile e velato color bianco, un armadio imponente e scuro in cui regna il completo disordine con cassetti aperti, mezzi aperti dai quali sbucano stoffe ed abiti da signora: non è la sua camera. Il tour continua, cambia posizione e questa volta è la schiena ad essere il punto d’appoggio, i capelli sul viso che nel movimento fluido hanno seguito il naso e la bocca: un mobile stile anni ottanta, dello stesso colore dell’armadio con cui confina, nel quale è incastonato uno specchio che riflette la luce della finestra. Rimane nella parte alta della stanza, nella parete sulla sua testa c’è un quadro grande, sproporzionatamente grande, composto da stoffe che raffigurano una donna, forse un uomo. Torna con lo sguardo davanti a sé e si scorge nello specchio dell’anta semichiusa dell’armadio: la pelle è bianca, lei dice che adora il senso chic che le dona quel colorito pallido, e la posizione delle sue gambe ricorda quella di un ingranaggio: una distesa, l’altra sopra piegata. Insieme alla sua figura, accanto, vede quella di lui che dorme; in quel momento il ping-pong si fa concitato, la pallina passa dalla dolcezza al fastidio, dall’armonia del momento alla proiezione, poco soddisfacente, del futuro prossimo. Rimane qualche secondo a guardare il riflesso cercando un modo per vedere dall’esterno tutta la situazione, per cercare la giusta distanza così difficile da raggiungere. Lei non rientra nella schiera delle persone per cui A e B sono due punti che si congiungono in maniera lineare, per questo ogni ragionamento è particolarmente contorto e, sospetta lei, completamente partorito dall’emisfero destro. Lui si muove in maniera impercettibile nel letto, il respiro cambia e questo invita il viso di lei a mettersi di fronte a quello di lui, naso contro naso, sperando che tutto rimanga così inalterato. Solo in quel momento percepisce dei rumori, capisce che c’è vita oltre quella finestra: un eccello che canta (ripensa al passero solitario che vide la prima volta dalla finestra accanto, in un giorno di pioggia, mentre volava basso tra i palazzi alti), il clacson di una macchina, voci di persone vicine che parlano tra loro; cerca di mettersi in ascolto con maggiore attenzione ma non riesce a comprendere, a distinguere le parole: sembra una cacofonia poco armonica, una lingua sconosciuta. Non è abituata al suono della città, solitamente dalla finestra della sua camera entrano versi di animali, voci di bambini e una luce forte; gli unici momenti in cui ricorda nitidamente i rumori della città sono stati quando, da bambina, fu costretta a trascorrere diverse notti in ospedale e puntualmente, al mattino presto, veniva svegliata dal ronfo prepotente dei camion della nettezza urbana. Era così strano vedere le finestre con le tapparelle bianche abbassate dalle quali scorgeva l’alba davanti a sé e sulla sua visuale incontrare diversi bambini che dormivano profondamente. Il pensiero vola veloce, sembra quasi immobilizzare in una sola scansione due immagini a confronto: lei da bambina, malinconica e impaurita; lei da adulta, diversi anni dopo, in una stanza a Berlino, grintosa e curiosa; amava ascoltare il suono della sua città. Forse dovrebbe entrane nel fotogramma una terza immagine, quella di quel momento, e sicuramente ricorderebbe la luce morbida, la schiena solitaria e il respiro del sonno in risalita. Tira il fiato, lo fa dolcemente e vede che i suoi non sono gli unici occhi che scrutano. Un sorriso accennato da lui, una mano che si stropiccia gli occhi assonnati e subito dopo il suo corpo si allunga e scompone, stiracchiandosi come un cucciolo dopo un lungo letargo. Era il secondo risveglio di quella mattina, non aveva dormito in quella stanza, anche se si era assopita subito dopo il suo arrivo un paio d’ore prima: svegliarsi due volte nel giro di poco è come ricevere in dono una doppia chance dalla vita, hai due momenti per iniziare la giornata in modo positivo e consapevole. Uno sguardo intenso la guardava e dentro gli occhi le parole che spesso vengono taciute, lasciate in aria; lei si avvicina, lo bacia, si mette in ginocchio sul letto e capisce che è ora di abbandonare l’alcova. Il discorso della giusta distanza le risuona spesso in testa, è quasi un mantra; crede che la distanza fisica venga prima di quella mentale, che questa sia l’esatta conseguenza dello spazio che intercorre tra lei e l’oggetto del desiderio impossibile. Poggia i piedi sul pavimento chiaro e fresco, va in bagno per sciacquare il viso e darsi un tono autoritario: deve uscire da quella casa. In salotto un divano morbido e sgualcito accoglie la sua borsa, le sue scarpe lasciate distrattamente sotto un tavolino stile giapponese e il suo vestito nero che la fascia come un sari indiano: prende tutto, lo saluta e sbatte alle sue spalle la porta di casa. Scendendo le scale interne del palazzo ha come l’impressione di respirare meglio, che il pericolo sia scampato anche se non sa bene decifrare queste sensazioni: di quale pericolo parliamo? Cosa la spaventa? Il monologo interiore non smette mai la sua produzione ma in quel momento, mentre apre il portone dell’atrio e vede la luce del giorno decide di zittire quella voce, almeno per qualche momento. Subito il bagliore è talmente accecante che ha una sensazione fisica sgradevole, di dolore agli occhi, è passata dalla penombra alla luce piena in pochissimo, senza gradualità, senza preparazione. Le è accaduto come quando si è in ritardo ad un appuntamento e si scivola via dal letto con talmente tanta velocità che si cammina ancora addormentati. La camminata è vigorosa, la falcata verso la macchina che l’avrebbe allontanata ricordava, a mente sua, quella di una Valchiria ma qui, invece di scegliere i combattenti più valorosi caduti in battaglia e portare in salvo le loro anime, abbandonava il campo. Apre la macchina, quel giorno ha una Fiat cinquecento vecchio modello, molto vintage, che la fa sentire speciale ed osservata; le piace particolarmente guidarla, riesce a dare prova della sua destrezza nella guida di ogni tipologia di auto, e inoltre il suo narcisismo latente viene soddisfatto: chi non si gira a guardare una macchina d’epoca? La apre, si siede, apre il tettuccio perché le piace sentire il vento estivo tra i capelli, mette in moto la macchina, accende una sigaretta, la prima della giornata che va sempre gustata con particolare cura, e parte.

Viviana Minori

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