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domenica 29 marzo 2015

VERTIGINE di Chiara Minutillo.

Donne si raccontano

Percorsi un lungo tratto di strada, passando attraverso viuzze che si perdevano nel tempo e vicoli senza fine, delimitati da case di pietra rivestite di edera e ginestre. Da un lato dell’insenatura, le vecchie mura erano quasi completamente diroccate. Dall’altro lato, invece, erano ancora intatte. Discesi la scalinata che correva lungo il fianco della rupe, fuori dalla muraglia, arrivando al mare. Da lì, con un po’ di attenzione, mi arrampicai su piccoli gradini, la maggior parte dei quali erano naturalmente scavati nella roccia, fino ad una scogliera vicina. Il cielo grigio sopra di me si specchiava nel mare agitato. Riuscivo a sentire solo il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli e gli stridii dei gabbiani che volavano in cerca di cibo. Mi sedetti sulla roccia, guardando giù. Quattro o forse cinque metri sotto di me si trovava una seconda scogliera, ricoperta di arbusti verdi. Più in basso ancora il mare. Provai una strana sensazione di vertigine che mi percorse la spina dorsale, tanto profondamente quanto rapidamente come una scarica elettrica. Non era paura di essere lì sopra. Non era paura di cadere. Era lo stupore di lasciarsi andare, di scivolare giù e poi dondolare su un’altalena legata alle nuvole, sospesa su quella distesa infinita di acqua tanto dolce, tanto invitante, tanto avvolgente. Era l’impressione di sentirmi immortale, di andare alla deriva senza annegare, di vivere senza respirare. Era il timore di non provare più paura. Era l’emozione di sentirsi parte di tutto e di niente allo stesso tempo, di essere dimenticata dal tempo che scorreva inesorabilmente intorno a me, ma non dentro di me. Era la consapevolezza di gettarsi in caduta libera su una superficie che non sapevo come mi avrebbe accolta. Era l’idea di sentirsi qualcuno. Tutto appariva così piccolo da lì che mi sembrava di poter contenere nel palmo della mano le mura, la strada lastricata e le persone che vi camminavano. Tutte sensazioni di cui presi coscienza solo per un istante, placandosi poi per lasciare il posto a fugaci pensieri. L’altezza mi faceva paura, il fatto di non poter governare le mie azioni, di non poter tornare indietro dopo un passo falso mi metteva soggezione. Per la prima volta sentii, invece, la vertigine come qualcosa di positivo, di inebriante. Qualcosa di cui non potevo fare a meno. Sentivo le onde chiamarmi, schiantandosi con ancora più violenza, mentre il vento aumentava di intensità e piccole gocce di pioggia cominciavano a ticchettare debolmente sulla pietra accanto a me. Chiusi gli occhi per qualche secondo, giusto il tempo che serviva per esprimere il desiderio di essere parte di quel mare che tanto amavo. Amavo il suo profumo, la sua musica, i suoi colori. Amavo sentirlo, ascoltarlo, percepirlo. Riaprendo gli occhi notai piccoli lampi che illuminavano il cielo, creando bagliori di luce nell’acqua sottostante. Non avrei voluto andarmene, abbandonare il mio posto privilegiato su quella rupe, da cui potevo godere di uno spettacolo ogni volta diverso. Non sopportavo di lasciare l’unico posto che mi rilassava pur facendomi sentire totalmente impotente, ma quello era forse il momento adatto. Il tempo giusto per lasciarmi tutto alle spalle. Tutto, tranne quelle onde e il loro richiamo, a cui sarei tornata sempre, come un rifugio, come una torre da cui guardare giù e oltre l’orizzonte per provare la scossa che mi faceva sentire viva. La vertigine che mi faceva amare la vita.
Chiara Minutillo

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