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lunedì 23 marzo 2015

"Ferita nell'anima e nel corpo. Una storia di bullismo". Donne si Raccontano.


Per "Donne si raccontano".
Arrivai al liceo quando avevo 14 anni e due mesi. 
L'emozione della scuola nuova, la prima scuola che fosse a più di due minuti di strada da casa, l'emozione di prendere l'autobus, da quel momento in poi, ogni mattina e ogni pomeriggio da sola, come una persona adulta
Fino a quel momento avevo percorso un sentiero prestabilito per tutti, poi, un anno prima mi ero trovata davanti ad un bivio e avevo fatto la mia scelta. Avevo deciso da me quale strada intraprendere e così quella mattina di settembre mi trovavo fuori da quell'edificio che sarebbe stata la mia casa per i successivi cinque anni. Lì, immobile, in mezzo a quell'immenso cortile, mi sentivo come un pulcino in mezzo ad un gruppo di galline fameliche e caotiche. 
Attesi con calma l'arrivo dell'unica persona che conoscevo. Arrivò 15 minuti dopo di me, in compagnia di una sua amica dell'asilo. Tirai fuori tutta la mia timidezza e aspettai che fosse quest'ultima a presentarsi. Quando finalmente aprirono le porte fecero aspettare tutti i nuovi nell'atrio, per poi smistarci, ognuno nella sua aula. Io e le mie due nuove compagne prendemmo subito posto in ultima fila, dritte davanti alla cattedra. 
Eravamo una classe di 30 persone. Molti venivano da fuori città, soli, senza conoscere nessuno. Altri avevano semplicemente avuto la sfortuna di essere stati inseriti in una classe diversa rispetto ai loro amici. E così, tra quei banchi beige e le sedie di legno scheggiate, iniziò la nostra camminata. 
I professori impiegarono meno di un mese a conoscerci, perlomeno a grandi linee. Quindi decisero di cambiare la disposizione dei posti: mi ritrovai in prima fila, a sinistra, accanto alla finestra, in mezzo a un ragazzo e una ragazza con cui, a parte qualche ciao, non avevo mai parlato. La strategia dei professori era mettermi in una posizione in cui mi sentissi spinta a partecipare durante le lezioni: stare davanti mi avrebbe impedito di vedere se qualcun altro già stava alzando la mano, visione che spesso mi faceva desistere dall'idea di alzare la mano io stessa; stare in mezzo ai due "somari" della classe mi avrebbe aiutato a pensare che forse non ero poi così stupida e che potevo rispondere ad alta voce alle domande poste durante una lezione invece di limitarmi a sussurrare tra me e me la soluzione al quesito per timore di dire una cosa che non stava né in cielo né in terra. 
Avevo già dato dimostrazione di essere preparata, diligente, curiosa, di aver voglia di imparare e studiare. Conclusi il primo quadrimestre con un solo sei stiracchiato, quello in matematica. Mi meritati un 9 nelle lingue e nelle materie umanistiche e un 8 in tutte le altre. Gongolavo per la mia prima pagella. Fino a che lessi il voto di condotta: un'assoluta novità per tutti noi. Avevo un 7. Sette era discreto. Neanche buono. Era poco più che un sufficiente. Mi confrontai con i miei compagni, chi 8, chi 9. Io l'unica con il 7 in condotta. 
Mi domandai perché: non interrompevo inutilmente le lezioni, non avevo fatto un solo giorno di assenza ingiustificata, non avevo mai saltato una verifica o un'interrogazione, non parlavo...eccolo il problema. Non parlavo. La strategia del cambio posti non aveva funzionato: non avevo il coraggio di offrirmi volontaria nelle interrogazioni, non avevo il coraggio di dimostrare che avevo studiato o che riflettevo su ciò che leggevo, a meno che non fosse durante un'interrogazione. Per questo mi ero meritata un 7 in condotta. 
Un 7 in una qualsiasi materia avrei potuto recuperarlo velocemente, ma se la mia sensazione era corretta e quel voto in condotta derivava dalla mia timidezza e insicurezza, non sarebbe stato così facile portarlo ad essere un 9 o un 10. 
Il quadrimestre successivo, infatti, non solo quel maledetto sette divenne un semplice otto, ma anche tutti gli altri voti si abbassarono drasticamente. Dopo la consegna della prima pagella avevo trovato, in agguato, pronto ad assalirmi, l'epiteto che mi avrebbe accompagnata fino agli esami di maturità: "vegetale". Questo ero, un vegetale, incapace di esprimersi, di pensare autonomamente, di essere indipendente. 
Quando l’insegnante mi apostrofò in quel modo, ridendo, avevo cambiato posto in aula per la terza volta: ero ancora in prima fila, ancora in mezzo a due compagni di classe, ma questa volta proprio davanti alla cattedra. Una posizione da cui era impossibile non sentirsi addosso gli occhi di tutta la classe, che mi scrutava e sghignazzava ripetendo quella parola che mi aveva fatta sentire una fallita. Una fallita a quattordici anni. 
Quel giorno decretò l’inizio del fiume di battute che avevano dormito a lungo sulla lingua dei miei coetanei. Fu l’inizio dell’ondata di scherzi, di cui io ero sempre al centro, che erano rimasti fino a quel momento semplicemente nascosti nelle loro menti. Inizialmente erano scherzi da prima elementare, di quelli per i quali si può anche ridere. Poi cominciarono quelli più pesanti, accompagnati da risate, insulti e scherni. Solo una volta un compagno di classe provò a picchiarmi, ma fu fermato da un altro ragazzo che gli disse che “alzare le mani per ottenere, magari, solo una denuncia non è necessario”. 
Cominciai a pensare che mantenere un alto profilo scolastico potesse aiutarmi a guadagnare il rispetto dei compagni e dei professori. Ma se in aula riuscivo a inghiottire l’amarezza con le lacrime e l’umiliazione, a casa non ci riuscivo. Mi bastava aprire la porta per sentire tutto ciò che mi premeva dentro scoppiare fuori. Passavo tutto il pomeriggio e la sera sui libri, senza riuscire a concentrarmi. Leggevo parole di cui non capivo il senso. Il mattino mi alzavo senza entusiasmo, poco prima delle sette uscivo di casa, tempo di attraversare la strada per raggiungere la fermata dell’autobus e venivo colta da tremendi crampi allo stomaco
Il più delle volte cercavo di resistere, facevo finta di nulla, salivo sull’autobus, entravo in aula, subivo le mie torture e me ne tornavo a casa. Ma c’erano giorni in cui non potevo fare altro che tornare sui miei passi, stendermi nel letto e aspettare di calmarmi
Cominciai a soffrire di attacchi di panico, che mi assalivano all’improvviso. Le emicranie di cui soffrivo dall’età di tre anni, si fecero più intense, durature e frequenti. Per quanto non prendessi mai insufficienze, i miei voti non mi soddisfacevano, non rappresentavano quello che ero realmente in grado di fare e di dare. 
Terminai il primo anno con un’assurda media del 6.5. Decisi che l’anno successivo mi sarei buttata ancora di più nello studio, ne avrei pagato il prezzo, ma forse così mi avrebbero lasciato in pace. Cominciò il secondo anno, da 30 alunni eravamo rimasti in 25. Ricominciarono le difficoltà, con i professori e con i compagni. Rientravo a casa da scuola alle tre del pomeriggio, mangiavo qualcosa e iniziavo a studiare. Studiavo per cinque ore, mi interrompevo per cenare e poi tornavo a studiare altre tre ore. Andavo a dormire puntando la sveglia alle tre di notte, mi alzavo e studiavo fino alle sei, poi mi preparavo per uscire. Il sabato e la domenica le mie compagne andavano in discoteca o nei centri commerciali. Io studiavo. Ma prendere bei voti non serviva a nulla. 
Mi resi conto di quanto quella classe fosse un ambiente competitivo. Un giorno l’insegnante di fisica consegnò i compiti in classe eseguiti la settimana precedente. Li consegnava sempre in ordine di voto, prima le insufficienze e poi a seguire gli altri. Nonostante in matematica fossi una mezza frana, in fisica andavo benissimo. La mia compagna di banco si alzò per penultima: un sette. Io fui l’ultima. Mi aspettavo un voto uguale al suo. Rimasi di sasso quando vidi un 10 campeggiare nell’angolo in alto a destra del foglio di protocollo. Controllai che fosse effettivamente la mia verifica e lo era. 
L’insegnante mi sorrideva, tornai al posto, indecisa se rispondere alle pressanti domande dei miei compagni che, improvvisamente resisi conto che anche io ero una persona come loro, mi chiedevano che voto avessi preso. Non dovetti pensarci molto: fu la mia compagna di banco a rispondere per me. Credevo che avrei suscitato rispetto, studiando come un’ossessa per raggiungere quei risultati. Invece suscitai solo rabbia ed invidia. Al punto che alcune ragazze decisero di contestare quel compito e quei voti davanti alla preside. Ovviamente quest’ultima non fece niente: non c’erano irregolarità nello svolgimento del compito e tantomeno nella distribuzione dei voti. 
Cominciarono a prendermi ancor più di mira. Quanto era diversa quella classe da quella di cui avevo fatto parte alle medie. Al liceo mi sentivo un pesce fuor d’acqua: belle ragazze a cui non mancavano vestiti nuovi e di marca ogni settimana. Mentre io ero semplicemente il brutto anatroccolo: una cascata di riccioli, gli occhiali, l’apparecchio. Ero parecchio più alta di tutte loro, la cui altezza media era intorno al 1.65, io sfioravo i 177 cm di altezza, con un piedino non proprio di fata numero 41, e un peso specifico di 48 kg, che faceva apparire le mie gambe ancora più lunghe di quanto già fossero, esili e instabili come quelle di un cerbiatto appena nato. 
Era la perfetta descrizione in versione carne e ossa della sfigata. E i miei compagni non faticavano certo a farmelo capire. L’apparecchio non potevo toglierlo, l’altezza e il numero di piede erano fattori che non potevo modificare. Decisi di puntare allora su ciò che potevo cambiare: cominciai dai capelli, che lisciavo per poterli tenere più facilmente in ordine. Poi iniziai a portare le lenti a contatto. E infine mi misi in testa di ingrassare. Mangiavo a tutte le ore, qualsiasi cosa riuscissi a far stare nello stomaco, tanto che acquistai 10 kg in poco meno di tre mesi. E successivamente ne presi altri 12. 
Ma anche questo non servì a nulla. Tentai l’ultima mossa, mi tagliai i capelli, per poterli gestire ancora più facilmente e senza tanti sforzi. Non avevo più neanche bisogno di lisciarli, perché essendo corti, i ricci restavano belli e in ordine. Ben presto smisi anche di portare le lenti a contatto. Con le emicranie che mi affliggevano, quelle sottile pellicole all’interno egli occhi erano solo una tortura in più. Senza contare il fatto che questi violenti episodi di mal di testa, che spesso duravano giorni, quando mi colpivano nel modo peggiore, erano accompagnati da nausea, vomito, febbre e una fortissima sensibilità alla luce, tanto da non riuscire quasi a leggere. 
Era questa la mia difficoltà quando, un giorno, durante il secondo quadrimestre del secondo anno, arrivai a scuola con indosso i miei occhiali da sole, nonostante fuori piovesse e, davanti alle risate di tutti, chiesi all’insegnante di latino di poter essere interrogata quel giorno, piuttosto che svolgere il compito in classe scritto. La sua risposta fu: “assolutamente no”. Le spiegai la situazione, ma non volle sentir ragioni. Le chiesi allora, almeno, se era possibile fare una fotocopia leggermente ingrandita del compito, così che riuscissi a leggere meglio. Niente da fare. Tornai sconfitta al mio banco, con la certezza che non avrei superato quella verifica. Con mia sorpresa, tre settimane dopo, scoprii di essermi guadagnata un nove. Cominciai a guadagnarmi anche, un poco, il rispetto dell’insegnante di latino. 
Ma non era sufficiente. Non riuscivo a entrare in classe tranquillamente. In più, il fatto di essere ingrassata così tanto non solo mi aveva tirato addosso ancora più derisioni e scherni, ma mi faceva anche vergognare di me stessa. Decisi di dimagrire qualche chilo, ma il nervoso, lo stress che accumulavo in quelle sei ore passate a scuola mi spingevano a mangiare, mangiare in continuazione. E poi mi sentivo in colpa, perché mangiando ingrassavo, e quindi mi chiudevo in bagno per cercare di rimettere tutto. Ma poi mi sentivo in colpa anche per questo e allora ricominciavo a mangiare. Era un circolo vizioso, da cui era quasi impossibile uscire. 
Sapevo che dovevo parlarne con qualcuno, che da sola non potevo superarlo se non facendomi ulteriormente del male, ma non volevo deludere i miei genitori, parlarne con la psicologa della scuola, poi, non mi andava neanche un po’: avrebbe allertato sicuramente l’insegnante responsabile della classe. Tenni tutto per me, se qualcuno mi chiedeva qualcosa usavo la classica scusa del “periodo pieno di verifiche e interrogazioni” e soffrivo in silenzio. 
Per non pensare al cibo, per non pensare alla classe con cui mi scontravo ogni giorno, per non pensare ai sensi di colpa, per punirmi quando prendevo un voto che secondo i miei standard non era sufficiente o quando fallivo nei miei tentativi di guadagnarmi il rispetto degli altri, cominciai a tenere comportamenti autolesionistici. Mi tagliavo, mi procuravo bruciature, lividi, mi graffiavo fino a scorticarmi, pur di non pensare, perché il dolore fisico mi distraeva e divenne una sorta di droga. Provare dolore fisico significava mascherare quello emotivo. Era come un farmaco, forse addirittura migliore. Dava subito il suo effetto e poteva essere assunto come rimedio ogni volta che volevo, senza badare a dosi e metodi di somministrazione. Il guaio è che, proprio come un farmaco, l’autolesionismo procura dipendenza, a lungo andare: dapprima non puoi farne a meno. Non può esistere un’ondata di dolore emotivo che non venga, apparentemente, sconfitta da una scarica di dolore fisico. Ma dopo un po’ la solita dose non basta. Ne vuoi di più, sempre di più. 
Come un drogato passa dal fumare canne allo sniffare e poi a sostanze ancora più pesanti, l’autolesionista passa dal procurarsi tagli, al farsi lividi, poi bruciature, poi lesioni sempre più gravi, con l’abilità di tenerle nascoste o al massimo di farle passare per incidenti, distrazioni, bravate, come saltare da un muretto e slogarsi la caviglia oppure chiudersi un dito nella portiera dell’auto o per pura distrazione versarsi addosso l’acqua bollente nel sollevare la pentola o sbattere la testa contro qualcosa nell’alzarsi o nello scrivere un messaggio mentre si cammina. Nonostante questi “incidenti” superai brillantemente, a livello di voti, il secondo anno di liceo. 
Il terzo anno fu diverso sotto molti aspetti: cambiarono tre professori, vennero introdotte nuove materie. I nuovi insegnanti si resero conto della pesantezza della situazione in classe e decisero di intervenire. Organizzarono più assemblee di classe in cui si potesse parlare del problema. Invitarono una psicologa a tenere una lezione sul bullismo
Con mia grande sorpresa le compagne che più di tutti mi avevano tormentato nei due anni precedenti, mi inviarono un messaggio una sera e mi chiesero scusa. Mi dissero di non essersi accorte di quanto il loro comportamento mi avesse ferita. Accettai le scuse, decisi di perdonarle, in fondo erano ragazze, adolescenti, sedicenni come me. Cominciai ad andare a scuola più volentieri, a entrare in classe più tranquilla. Emicranie, crampi allo stomaco, attacchi di panico cominciarono a diminuire la frequenza con cui si presentavano. 
Mi sembrava anche di essere sulla buona strada per risolvere il problema dell'autolesionismo, che ogni tanto si ripresentava, ma il più delle volte riuscivo a dominarlo. Superai la terza e la quarta quasi indenne e in un lampo mi ritrovai in quinta. E ricominciarono i problemi. Sarà stato il clima di perenne agitazione, il cambiamento di due professori, la minaccia incombente degli esami di maturità, non lo so, ma divenni nuovamente il centro di scherzi crudeli. Questa volta, però, avevo un'alleata, un'amica in classe, che il più delle volte prendeva le mie difese. Ma non serviva a molto. Ritornarono prepotentemente e con sete di vendetta per averle tralasciate per ben due anni, le emicranie, così come i crampi, gli attacchi di panico. Ricominciai a procurarmi lesioni e ferite. A volte ne avevo così bisogno che nascondevo una forbice o un taglierino nella manica della felpa e durante la lezione chiedevo di andare in bagno. Davo sfogo a ciò che sentivo, mi gettavo le braccia sotto l'acqua gelata perchè il sangue si fermasse più velocemente, e poi tiravo giù le maniche, rientravo in classe come se niente fosse, mentre la stoffa aderiva alle braccia, permettendo, per qualche minuto almeno, alle ferite fisiche di bruciare più di quelle emotive. 
Non vedevo l'ora che arrivasse giugno: avrei affrontato gli esami e avrei salutato tutti quanti. Avrei potuto lasciarmi tutto alle spalle. Ma a dicembre cominciai ad avere paura di non arrivare alla maturità. Era un mercoledì, dopo il ponte dell'Immacolata. Tutti erano stati a sciare e quel giorno, consapevoli del fatto che l'insegnante di latino avrebbe interrogato, quasi nessuno si presentò in classe. Io ero in classe per senso del dovere. Per la prima volta non avevo studiato. Non sapevo nulla, non ricordavo nemmeno a che punto del libro fossimo arrivati. La mia mente era completamente offuscata dal ricordo di ciò che era successo due giorni prima. La sera prima mi ero procurata parecchie ferite, oltre che sulle braccia, anche su gambe e pancia. E in quel momento provavo un dolore profondo. Il continuo sfregare degli abiti non permetteva ai tagli di rimarginarsi bene. Pregai perchè quel giorno non toccasse a me essere interrogata. 
E invece l'insegnante chiamò anche il mio nome. Feci scena muta. Mi sarei meritata un due, che equivaleva ad un impreparato. Presi un tre. Scoppiai a piangere e uscii dall'aula, senza neanche chiedere il permesso. Andai in bagno, rimasi lì mezz'ora, fregandomene del professore di filosofia che era già in classe a fare lezione. Quando uscii dal bagno mi trovai davanti l'insegnante di latino: anche a lei non importava nè del fatto che io avessi lezione nè del fatto che lei dovesse tenere una lezione. Non avevo mai preso un tre in latino. Non avevo mai preso un tre, punto e basta. E lei lo sapeva. Mi disse che era certa che mi fosse successo qualcosa. Negai e feci per andarmene. Mi fermò, afferrandomi il braccio delicatamente, ma abbastanza forte da farmi emettere un gemito di dolore. Mi chiese cosa avessi al braccio. Le risposi che non avevo niente. Mi disse che non era sua intenzione giudicarmi, ma solo aiutarmi. Ed era evidente che avevo bisogno di aiuto
Mi chiese di tirarmi su la manica. Le dissi di no, che dovevo tornare in classe. Alla fine mi convinse con una semplice frase: "non voglio essere costretta a chiamare i tuoi genitori". Arrotolai la manica destra. La professoressa mi osservò i lividi attorno al polso, i tagli e i graffi disseminati in maniera casuale e irregolare sul braccio, dall'incavo del gomito fino a poco prima del polso. Volle vedere anche l'altro braccio e lo spettacolo era lo stesso. Scendemmo a patti: non avrebbe convocato i miei genitori se avessi accettato di parlare con la psicologa della scuola. Accettai l'accordo, non avevo altra scelta. E così, una mattina, durante la lezione di inglese, mi recai all'appuntamento. 
Stetti quaranta minuti seduta, immobile e muta come un pesce. Rispondevo alle domande con un cenno del capo e basta. Gli ultimi venti minuti piansi e parlai a raffica. Le raccontai tutto e lei concluse quella seduta dandomi il biglietto da visita di una sua collega che visitava anche al consultorio. Non l'ho mai chiamata. Nei giorni successivi capii che la professoressa di latino era stata messa al corrente della situazione. Il primo impulso fu quello di arrabbiarmi: non erano informazioni confidenziali, riservate? Poi pensai che forse era meglio così. 
Ero di nuovo nel baratro della mancanza di concentrazione. Il voto più alto che riuscivo a prendere era sei. L'insegnante di latino aveva anche l'incarico di tutor e coordinatrice della classe. Il suo intervento nei consigli di classe era fondamentale. Sapendo la mia situazione, avrebbe potuto spezzare una lancia a mio favore. Superai a fatica il secondo quadrimestre: erano più tante le ore che passavo fuori casa, a vagabondare, che quelle che passavo a studiare. Andavo sulla torre del castello e guardavo le vigne e la strada di sotto. Immaginavo la sensazione di libertà che poteva dare il volo. Quel volo. Quel salto nel vuoto. E subito dopo mi chiedevo quanta libertà, in realtà, ci potesse essere nel compiere un gesto che non ti dava altra conseguenza se non la morte, che non ti dava la possibilità di tornare indietro, di ripensarci. Non volevo davvero morire. Volevo solo staccare la spina, smettere di pensare, cancellare quello che ricordavo di quel giorno. 
Riuscii a recuperare parecchi voti durante le ultime tre settimane di scuola: decisi di sforzarmi, mancava poco ormai, tanto valeva cercare di uscirne degnamente. Poi avrei avuto tutto il tempo per il resto. Arrivai agli esami con la media del 7.9. Non era il meglio, ma per una volta mi accontentai. Gli scritti passarono in un soffio, l'orale fu una tortura. Decisi che le uniche persone che potevano entrare e sentirmi fossero quella compagna di classe che mi ero fatta amica e il mio ragazzo. Nessun'altro. Quando fu il mio turno, verso le 11, entrai. Mi accomodai, esposi la mia tesina uscendo di poco dal tempo a disposizione ma non mi dissero nulla. Mi informarono che agli scritti avevo ottenuto il massimo del punteggio. L'insegnante di italiano mi fece la prima domanda. Risposi senza problemi, poi mi volsi verso la professoressa di tedesco, che stava cominciando a parlare, quando sentii tossire, in fondo all'aula. Mi girai. L'ennesima beffa. Sedute in fondo, c'erano le cinque ragazze che più di tutte mi avevano dato il tormento in quegli anni. Entrai in panico, cominciai a sudare freddo e non fui più in grado di rispondere ad una sola domanda. 
Prima di lasciarmi andare, il presidente della commissione mi chiese se avevo intenzione di frequentare l'università. Gli dissi di sì, ovviamente. Poi esitai. E dissi che forse mi sarei presa un anno di pausa. La sua risposta fu: "Io, signorina, le consiglierei di desistere dall'idea di frequentare l'università". Sapevo che non aveva tutti i torti, ma ci rimasi così male, mi sentii talmente umiliata che mi alzai e uscii dall'aula, senza salutare nessuno. Non risposi nemmeno alle telefonate del mio ragazzo: stavamo assieme da nemmeno un mese, bella figura avevo fatto. Rimasi delusa dagli esiti degli esami, ma del resto più di quello non potevo meritarmi. Cercai di non pensarci, prenotai le vacanze al mare, ma prima decisi di dire al mio ragazzo cosa era successo quel giorno, prima dell'interrogazione di latino; non so per quale motivo lo feci, forse perchè avevo bisogno di dargli una spiegazione valida per il mio comportamento spesso strano verso di lui, forse perchè pensavo che avesse diritto di sapere o forse perchè speravo che mi lasciasse. 
Se era questo ciò che volevo, parlandogli ottenni esattamente l'effetto contrario. Gli raccontai anche qualcosa di quegli anni al liceo e lui divenne ancora più protettivo nei miei confronti. Mi amava, sapevo che mi amava davvero. Lo sapevo perchè mi rispettava. Non mi giudicò, mai. Cercò di farmi capire quanto valessi ai suoi occhi, cercò di farmi capire quanto fossi importante per lui. Mi ripeteva che non gli importava quanto avrebbe dovuto aspettare perchè io tornassi ad essere me stessa, perchè io prendessi in mano la mia vita. 
Lui mi sarebbe stato sempre accanto. Mi avrebbe aiutata. Mi avrebbe sostenuta. Se fossi caduta, mi avrebbe aiutato a rialzarmi. Cercò di farmi capire che non c'era nulla per cui dovessi pensare di valere meno di altre ragazze, nulla per cui dovessi vergognarmi, nulla per cui dovessi sentirmi in colpa o continuare a punirmi. Mi rispettava. Mi amava. Dopo un anno mi chiese addirittura di sposarlo. Rifiutai. Gli dissi di no. E lo lasciai
Lo amavo, non ho smesso di amarlo neanche adesso, dopo cinque anni. Ma non riuscivo a sopportare l'idea di dargli tutto quel peso. Ricadevo in continuazione nei vecchi problemi, che volevo a tutti i costi risolvere da sola, senza essere in grado di gestirli. Lui meritava una persona migliore, meritava più di quello che io ero in grado dargli, io che in quel momento ero solo capace di prendere, di ricevere e non davo nulla in cambio. 
Fu una scelta in parte dettata anche dall'egoismo. Sapevo che per uscire dai circoli viziosi in cui ero entrata avevo bisogno di stabilità, di sicurezza. Stando con lui non provavo nè una nè l'altra, perchè avevo il costante timore che se ne andasse, che nonostante le sue promesse mi lasciasse. Quindi, tanto valeva che compissi io per prima quel passo. Per mesi fui tentata di chiamarlo, chiedergli di perdonarmi, di riaccettarmi. Mi pentii amaramente della scelta che avevo preso. Con il tempo riuscii a riacquistare equilibrio, con qualche caduta ogni tanto, ma con la voglia e la determinazione di rialzarmi e rimettermi in cammino. 
Penso spesso a quegli anni di liceo, con più distacco ora, ma mi hanno segnata nel profondo. Gran parte dei sentimenti negativi che provo verso me stessa affondano le loro radici in tutto ciò che successe in quegli anni. Ma questo non significa che si debba rinnegare il passato. Il passato siamo noi, è la nostra storia. Quello che traiamo da esso, il modo in cui reagiamo a esso rivela molto della persona che siamo, della persona che vogliamo diventare. E se c'è una cosa che ho capito è che nessuno può rispettarmi se prima non imparo io stessa a mostrare rispetto verso di me. Mi pentii amaramente di aver lasciato il mio ragazzo, incontrarlo fu praticamente l'unica cosa bella che mi successe in quegli anni. Essere amata, essere guardata da lui come nessuno aveva fatto prima, mi procurava delle emozioni che non scorderò mai. Sentire le sue rassicurazioni, le sue dita tra i miei capelli, quel poco di contatto fisico che gli concedevo, a patto che non andasse oltre un abbraccio, mi dava la sensazione di essere protetta, sapevo che con lui avrei potuto essere felice. 
Quando ero con lui, provavo la stessa sensazione che percepivo quando pensavo al volo, sulla torre del castello. Mi sentivo libera. Libera di essere chi ero, libera di esprimermi. Non dovevo temere che quella libertà mi venisse tolta, perchè lui era pronto ad afferrarmi. Lui rappresentava le ali che mi sostenevano nel momento in cui spiccavo quel salto che altrimenti mi avrebbe fatto precipitare. 
Ma non potevo ottenere quella libertà senza pagare un prezzo. E il prezzo era troppo alto. E se all'improvviso lui non fosse stato li, pronto a prendermi mentre precipitavo? Il prezzo era questo: sarei dovuta dipendere da lui. E se un giorno se ne fosse andato, se ne sarebbe andata anche la mia libertà. Dovevo imparare a dipendere da me stessa, a cavarmela, a spiccare da sola quel balzo, a essere io stessa le ali che potevano sostenermi, che potevano darmi la libertà di scegliere cosa fare della mia vita. E così ho fatto. Ci sono momenti in cui vorrei che fosse ancora accanto a me. Non passa un solo giorno senza che pensi a lui. A quanta forza mi ha dato pur essendo lontano, a quanta forza continua a darmi senza saperlo. Non ha mai avuto paura di amarmi, non ha mai avuto paura di farsi vedere da me debole, mentre piangeva, in tutta la sua fragilità. Era solo un ragazzo di 21 anni che, forse, aveva già capito cosa volesse dire essere un uomo.
Chiara

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