INCIPIT
Annina entrò nella stanza in silenzio. Si fermò sulla porta e squadrò i presenti.
La luce prepotente del primo pomeriggio filtrava dalle imposte socchiuse e
disegnava strisce di ombre nette e scure sul pavimento lucidato a cera. I due
divanetti stile Rococò erano posizionati uno davanti all’altro, in bella mostra, e
al centro imperava il tavolino di legno di cedro intagliato, regalo di nozze del
compare d’anello emigrato in Sudafrica. Il vassoio d’argento era rimasto lì
sopra, con le tazzine ancora da riempire e la caffettiera fumante. Nessuno si era
servito, in attesa di lei. E lei andò a sedersi accanto a sua madre, si lisciò le
pieghe dell’abito e poggiò le mani sulle ginocchia, muta. Non una mosca
volava, eppure si era già in settembre e l’aria odorava di mosto. Annina sbirciò
di sottecchi le due figure che aveva di fronte. Poi si avvicinò all’orecchio della
madre e, sottovoce, ma in modo che tutti sentissero, sentenziò: - Non mi piace.
– I presenti si guardarono con un misto di stupore e imbarazzo. La madre di
Annina, paonazza in volto, cercava di trattenere il rimprovero poco urbano che
le saliva alla bocca. La ragazza, con gli occhi bassi, concentrò la sua attenzione
sulla macchia bluastra ben visibile sul bordo della gonna. Devo stare più
attenta. La prossima volta mi metto i pantaloni di Ernesto per pigiare l’uva.
Sul secondo divanetto stile Rococò le altre due figure manifestarono con
reazioni adeguate, seppur divergenti, la loro appartenenza al genere maschile.
Gerardo Lojacono si voltò verso le due donne e, senza guardare in volto la più
giovane, si rivolse direttamente alla più adulta: - Donna! Insegnate a vostra
figlia le buone maniere. Non le voglio sentire più queste sciocchezze. Le nozze
saranno tra due mesi a partire da oggi. Così è deciso e non si discute! – La voce
resa roca dal fumo ventennale della pipa e, si sospettava, dall’abitudine a
masticare tabacco misto a erbe di dubbia provenienza, esplose in quel pigro
pomeriggio estivo come uno schioppo di fucile a pallettoni. Il giovane seduto
accanto a lui sobbalzò. Non se l’era immaginato così il suo incontro con la
futura sposa. L’amava in silenzio da anni, l’aveva vista crescere, di nascosto,
spiandola da lontano. E ora che aveva trovato il coraggio di farsi avanti e aveva
avuto il beneplacito del di lei padre, lei lo rifiutava.
Angelico Buonomo si rattrappì tutto nella giacca buona color grigio ferrovia,
uguale identica a quella della divisa che indossava ogni giorno per andare al
lavoro. Era la stessa in realtà, non ne aveva di migliori. Aveva solo avuto
l'accortezza di staccare le mostrine. Angelico era fiero del suo incarico di vice
capotreno. Aveva seguito le orme di suo padre, prima come macchinista, a
spalare carbone, e poi facendo carriera, che lui aveva la terza media e "le mani
devi averle pulite, non come me", diceva il suo vecchio.
Erano buffi a vederli camminare insieme, padre e figlio. Il primo piccolino di
statura, con lo stomaco prominente che pareva volesse schizzar fuori
dall'ultimo buco della cintura, strizzata in vita, le mani scurite dalla polvere di
carbone, che ormai parevano nate così, ché non c'era verso di pulirle. Angelico
superava il padre in altezza di almeno due spanne. Dritto come un fuso, le
spalle larghe, aveva un volto dai tratti delicati, che tentava in ogni modo di
nascondere ostentando un paio di baffi importanti secondo le regole modaiole
imposte dal Re. Era per quei suoi tratti gentili che la madre, alla nascita, aveva
voluto chiamarlo così. E l'aveva marchiato a vita.
Cetta De Luca
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