RACCONTO
Ornella e basta.
Fui additata alla tribù che usava mascherarsi con le pelli dei suoi simili. Fui incolta e danzai sotto la luna, pensandola come una perla scalfita, pendente nella collana della notte che non ha volto ma collo da giraffa, protesa a spiar il mercato di noi mercenari della vita, di noi brulicanti nullità, vetrai ignari di clessidre già rotte, divoratori di sabbia impastata alle parole inconsuete di chi non ha senno. Io che amai correre allegramente verso il limite, che temetti d’appellare “fine” per masochismo e attaccamento infantile. Io, aborigeno con le dita spellate di paranoie, giocai con il tempo che ha capo di marmo e piedi di cristallo. Da Dei a Dio è veloce il passaggio di chi s’inventa le punizioni per reprimere gli istinti altrui, o forse i propri? Il fato beffardo mi divise dal branco, scorticata via dall’abete della crudeltà; sballottata più di là che di qua. Vidi le tenebre calare sulla non ragione. Aspettai consapevolmente la fine che non giunse per me, frutto dell’errore di Mosè; mi ritrovai al tuo fianco su una zattera e tu, con sorriso che squarcia il petto d’una lamiera, carezzasti le acque scrivendoci con dita i miei tormenti. Fosti il paradiso, spappolato come una meringa sulle labbra del goloso, tenuto a dieta dalla madre pretenziosa, che si dimena nella tentazione dell’impossibile. Che visioni di vite che mi bisbigliarono i quadri con il tuo viola nelle mie pareti. Attraversò il fiume la zattera di carta e m’impregnai delle tue parole di zucchero bollente. Invidiai l’acqua figlia delle tue fantasie fino a che alla foce del fiumiciattolo sussultammo per un sospetto. Mi sembrò dormiente il mare accanto a te, Gilda, Viola, Ornella ma Nettuno c’invidiò l’amore dei nostri silenzi complici e nella tempesta caddi dalla tua zattera. Mi corrose la parola e nuotai lontano, che ancor ho davanti agli occhi senza pupille la tua mancanza. Ornella oro sei nei capelli dell’africano.
© Maria Francesca Consiglio Writer- all rights reserved.
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