RECENSIONE
SIGNOR PARKINSON
Nella primavera del 2009 finalmente mettemmo mia madre per la prima volta sdraiata sopra quella speciale sedia a rotelle costruita appositamente per lei e la portammo a passeggiare nel grande giardino che circonda la clinica. L’abbiamo avvolta in una coperta leggera perché non sentisse freddo, le abbiamo infilato un paio di occhialoni scuri per tenerle gli occhi ben protetti dalla luce solare e sul capo un delizioso cappellino di paglia rosso. Papà spingeva la carrozzella mentre io le tenevo la mano procedendo accanto a loro con passo lento. Intravvedevo attraverso le lenti i suoi piccoli occhi socchiusi girare nel vuoto di quel giardino enorme pieno di salici fronzuti. Il cielo pareva essersi colorato a festa di un meraviglioso azzurro dipinto a posta per lei. Come un messaggio scritto nell’aria si annunciava la fine dell’inverno. Camminammo vicini assaporando tutta la bellezza del mondo per i vialetti soleggiati inspirando l’odore buono dell’erba fresca e il profumo frizzante dell’aria. Mia madre con la testa inclinata a destra completamente bloccata dalla paresi cominciò a piangere. I suoi occhi erano acqua profonda, le sue lacrime come piccoli boccioli di dolore sembravano parole mute che scendevano dai suoi occhi. In questi anni di prigionia nella sua dimensione credo avesse appreso quanto sia effimera l’esistenza e si fosse liberata da tutte le cose materiali di questa terra. La sua mente l’aveva condotta lontana alla ricerca dell’essenziale che a noi non era visibile all’occhio ma per lei evidentemente lo era in quel suo piccolo mondo fatto solo di suoni, odori, sensazioni e capimmo che il suo rapporto con l’esterno era diventato un qualcosa di troppo grande oramai e lei non riusciva più a rapportarsi. Chissà, forse un così grande spazio d’aria la spaventava oppure la luce diretta dei raggi solari la infastidiva.
Senti il sospiro profondo di mio padre cadere nel silenzio di quel luogo bellissimo e pieno di pace.
“Perché sospiri così profondamente papà? Non devi essere triste se non riesci a scorgere alcuna felicità dentro ai suoi occhi. Questo mondo forse non le appartiene più e credo che dovrà esercitarsi a lungo per riacquistare l’abitudine dei bei tempi andati. Magari nella nuova dimensione in quel suo mondo dov’è volata via fa sempre freddo e non è mai estate. Ha vissuto per troppi anni sempre stesa in un letto tra i muri freddi di una camera simile ad una gelida galera. Noi pensavamo che la sua pazienza fosse lodevole ma in realtà forse era solo l’abitudine che aveva preso il sopravvento. E’ un po’ come se gli atomi del suo corpo fossero stati lanciati nell’aria e ricadendo poi in ordine sparso abbiano riformato un essere totalmente diverso da com’era. Noi la riconosciamo dall’esterno ma dentro di lei non è più la stessa donna che conoscevamo. L’aiuteremo a riprendere confidenza con la terra, le rinsegneremo con pazienza a non spaventarsi com’è successo oggi, le faremo capire che un rumore eccessivo non è che un rumore, che il sole scalda la pelle ma non la brucia e la gente che le passa in fianco non può farle alcun male anzi alcuni nemmeno si accorgono della nostra presenza. Ho finalmente capito che la sua stessa volontà di vivere dipende esclusivamente da noi e che il suo destino è nelle nostre mani. Ciò che ci servirebbe è soltanto più scienza ma non la troveremo in questo posto, forse dovremo fare altri tentavi spostarci in altri paesi magari in America.”
Mentre parlavo mi sentivo purificata nell’anima, per la prima volta avevo cercato di aiutare papà con ogni mezzo a rassegnarsi a vivere con attorno questa terribile tristezza. Sapevo bene che per papà questa era una dura prova. Aveva cominciato a prendere atto di quel muro che mattone dopo mattone si era costruito da sé sul nostro cammino sbarrandoci la strada. Quello fu un istante incredibile per noi, la nostra vera prima presa di coscienza. L’agghiacciante momento in cui la realtà prende un suo preciso posto nella storia e ti rendi conto che non tutto deve continuare per forza a questo mondo.
Papà la guardò intenerito da dietro i suoi occhiali e le sussurrò:
”Spero che non ti dimenticherai di avermi fatto una promessa. Non lasciarmi Maria Luisa. Non lasciarmi qui in questo mondo solo come un cane.“
Mi sono seduta accanto a lui e gli ho stretto le mani, erano fredde come quelle parole che aveva pronunciato un attimo prima. Siamo rimasti li per ore in silenzio su quella panchina di legno vicino alla verde fontana davanti alla piccola chiesetta dell’istituto ad osservare il colore del cielo che si tingeva lentamente con i colori dell’imbrunire. Fu come un abbraccio magico, una forza misteriosa che ci veniva incontro dalla natura. Sentivo il sole che mi penetrava nelle viscere e il vento caldo della primavera mi accarezza i capelli senza scomporli minimamente. La mamma si era addormentata, le sue guance si erano colorate come due mele, pareva che la vita si fosse impossessata di lei nuovamente, i capelli sciolti a ciocche sulle sue esili spalle, la tranquillità sul suo volto. Improvvisamente sembrava sparito quel suo sguardo assente simile a quello di un fantasma che vaga sperduto.....
Dal Libro Signor Parkinson. Edizione Psiconline
NINA MONICA SCALABRIN
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