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giovedì 9 luglio 2015

"DENTRO IL TRAUMA-LETTERA AL PADRE



Dentro il trauma- lettera al padre

L’orecchio destro si fa vigile ad un rumore familiare che si avvicina ed il cuore parte come un coniglio impaurito.
Il ricordo del Padre si fa vivo. Qualcuno è uscito per le scale. Si indirizza in fretta verso l’appartamento di fronte.
‘Scappa !’ dice il cuore e si avvicina alla gola come per chiuderla.
Oh, padre, perché il ticchettio dei tuoi passi fa ancora quest’effetto su di me?
Mi volevi bene. Me lo ripeto perché sono certa che era cosi. Me lo ripeto per convincermi sempre di più.
Non accettavi però, che la tua preferita non arrivava a capirti e ti arrabbiavi forte quando, come una maestrina del cazzo, ti facevo la ramanzina.
Ti devi curare per il bene di tutti, ti dicevo, non bere più, abbassa la musica, lascia stare la mamma, non te la prendere con i vicini, non strillare più, abbi pietà!
Non accettavi neanche l’esempio di buona condotta dei tuoi figli. 
Era il risultato della tua educazione, del tuo buon senso, dei giorni migliori. 
So che, quando portavi le paste ed i fiori, ci volevi bene. Erano l’orgoglio del tuo lavoro, il tuo star bene da festeggiare.
Erano giorni felici.
Spesso però ci rinfacciavi quel tuo lavoro: saldare, tagliare e piegare il ferro battuto sui cantieri. Che fatica, che gelo!
E poi, tagliare, saldare e piegare dentro casa. Che spreco!
E non so, se quella volta fu davvero un incidente. 
Cadendo dal secondo piano e non facendoti niente abbiamo detto, per l’ennesima volta, che avevi “ sette vite come i gatti”, perche un altro giorno buio, la mamma ti trovo con la testa fracassata vicino al termosifone, in una pozza di sangue asciutto.
Il tappeto della stanza fece da garza al tuo buco.
Potrei dire che hai avuto fortuna, si!
Fortuna di avere tante persone intorno, qualcuno che ci accoglieva sempre, cosi che noi abbiamo potuto sempre tornare.
Quante volte abbiamo pianto insieme?!
A quei tempi ancora ci guardavamo negli occhi. 
Però facevi sempre, quello che noi non avremmo voluto mai più vedere.
I tuoi passi arzilli, quel metallo che tocca il cemento, risuonano nel corpo come allora.
La testa rimbomba, le mani sudano, rimango muta in casa … Una porta si apre e si chiude.

Oggi nel traffico ho visto una Dacia. Il pensiero torna. 
Rimango per un po’ bloccata tra una macchina ed altra ... 
Lo sguardo è fisso. La mente viaggia.
Tra tutte le cose che tu amavi una era la tua macchina.
L’amavi come un poeta geloso che venera la sua dea.
Perciò, per un lungo periodo, tutta la famiglia riunita doveva lavare la macchina.
Scendevamo a scale, per sette piani, una decina di litri d’acqua ognuno.
Noi bambini, con le pezze imbevute di vergogna, sotto gli occhi di tutti dovevamo recitare e quella gente rideva. 
Le facevamo anche pena e se potevano se ne andavano. Addirittura cambiavano casa.
Noi la casa non lo abbiamo mai cambiata. Non volevi fare debiti. 
Non ti è mai piaciuto chiedere. 
Sapevi solo prendere.
Cosi che hai comprato la macchina per la quale avresti ammazzato chiunque.
Non l’hai voluto far guidare neanche a tuo figlio appena prese la patente. 
Patente, che tu non sei riuscito ad avere mai.
Ma non perché non eri bravo a scuola, no! 
E’ che, dopo una prima bocciatura ti sei presentato ubriaco al esame. 
Eri dispiaciuto per la sconfitta, lo so. Era il tuo sogno più grande.
Quella Dacia color verde grano appena sbocciato era diventata la tua casa quando i passi ti erano imbevuti d’alcool. 
Rileggo per l’ennesima volta, gli effetti collaterali degli antidepressivi che dovrei ricominciare. Dio, quanti!
Mi ritorni in mente tu. 
Allora non sapevo tante cose di te, sapevo solo che le medicine ti facevano star male. Bevevi … 
Te le davamo di nascosto, e di nascosto ti guardavamo tremare, vomitare … 
A noi ci facevano solo respirare ...
Mi ripeto che le devo prendere. Le devo prendere!
Mi attacco allo schermo per leggere meglio e le lacrime riempiono la tastiera. Come sempre non trovo subito il fazzoletto. 
Non mi manchi, mi sei rimasto dentro, cosi verde e crudo come l’erba calpestata.
Adesso mi taglio i capelli come i tuoi, a misura di giacca e cravatta: li indossavi sempre … 
Cosi che nessuno non può dire che non ti somigli. 
Ti ricordi quando brontolavi che mi vestivo con i tuoi maglioni? Ti accorgevi dal profumo. 
Era quell’aria rigorosa che cercavo. Cosi che ora mi ritrovo una camicia di marito.
Sei stato sempre tu che mi hai insegnato a stirare. 
Le tue svariate camicie erano la mia paghetta settimanale.
Mi torna in mente Toni. Quanto era diverso da te …
A lui lo trattavi male, scherzavi dicevi, somigliava alla mamma. 
I tuoi momenti psicotici dicevano che era lei motivo del tuo dolore.
La primavera era il primo segnale di come sarebbe andata la nostra estate.
Ci facevi rincorrere le lacrime per strada e qualche vicino, incontrato nel nostro cammino, ci avvertiva del brutto ritorno a casa. 
Strillava l’alcool e la mania, e noi sapevamo già, che solo le sirene delle ambulanze potevano spegnere quelle urla.
Ma tu allora non c’eri. 
Nella tua mancanza noi continuavamo a camminare in punta di piedi dentro casa.
Non volevamo disturbare il ricordo di quello che eri.
Ti abbiamo spesso scambiato con la malattia e ti portavamo anche in vacanza. 
Senza sapere che, quel sole malato d’agosto preparava la depressione che, da lì a poco si sarebbe accasata.
E allora ti ritiravi, ti vergognavi, ti piegavi: recuperare quel nostro sguardo fuggente che cercava riparo.
In un giorno di tregua, ci siamo resi conto che, non sapevamo più apprezzare il silenzio. In quelle mura sarebbero rimaste per sempre le nostre grida.
Nello stesso tremore rivivo oggi, le litigate dei vicini ed il pianto dei bambini che pregano.
Davanti alla mamma non si piangeva mai. Era il nostro modo di farli coraggio. Si piangeva di nascosto, nei piatti dai bocconi amari. Si piangeva quando si andava a letto.
Il sonno si lasciava aspettare, ospite anche lui di qualche sconosciuto.
La mattina dopo si rientrava con quel nodo alla gola, prendevamo gli zaini di scuola ed era come se non fosse successo niente.
Non ci si chiedeva neanche se eravamo andati a dormire.
Tre profughi, sempre con una nuova destinazione nello stesso palazzo.
I resti di quella vita mi danno adesso la superstizione.
Non posso essere del tutto felice per paura che, prima o poi, quella felicità mi verrà tolta. 
Vorrei che fosse mia! Solo che mia …
Sono stata al gruppo di auto-aiuto e ho conosciuto gente come te, come me, come noi. Raccontavano del loro ricovero - trattamento sanitario obbligatorio.
Sono stati mesi in salvo contro la loro volontà e adesso sono qui.
Ero io quella che rischiava la vita, padre, quando tentavo di salvare la tua.
Andavo avanti dritta alla polizia per l’ennesimo TSO d’urgenza.
Cercavo di essere convincente, in qualche modo sicura di me. 
Invece mi tremavano i passi. Mi tremavano i sogni. 
Terrorizzata dal tuo dolore sapevo che, al ritorno, avresti detto che, la colpa era solo che della mamma.
Volevi che fosse stata lei e non io. Ma lei sapeva solo piangere, non sapeva più parlare.
Non ti si riconosceva più in quello sguardo di belva inseguita.
Il tuo viso non era più il tuo, le parole si perdevano nella rabbia che urlava con la tua voce, finché di voce non c’è ne era più.
Sono rimasta ferma davanti ad un pensiero. 
Riesco a vedermi dall’alto. 
Sono come davanti ad un muro.
Chi sa che sarà di quella bambina? 
Piange l’innocenza perduta, 
piange sull’altare del tuo ricordo. 
Adesso riposa in pace, Padre,
Perdona chi non ha saputo starti vicino! 

GHEORGHE LILIANA

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