L'ebbrezza del non vino.
Il vino lo lascio a chi non sa ubriacarsi di bellezza; l'amaro retrogusto dell'alcool, chiodo arrugginito piantato su punta di lingua, piercing demodè, io l'assaporo ogni giorno dal capezzolo dell'amore. L'uva son io che con cento chicchi umidi, polpastrelli scivolosi, sfioro le tue labbra assetate d'irrealtà, mentre nella mente di due amanti fermenta il sesso che ha gote di porpora fenice. Il vino lo lascio a chi si pone il limite dell'ubriachezza, incapace di saltare una staccionata di burro per Lillipuziani senza sanguinare. Lo lascio quindi a chi si fa consumare dall'uso mentre io voglio abusarmi abusandoti, legando i lacci al limite, saltellando sul suo inciampo, guardando la vetta del mondo dal tuo promontorio, sbronzandomi si ma sorseggiando solo dal calice libidico. Il vino lo lascio a chi si riempe la bocca mettendosi a tacere i desideri, come infanti narcotizzati di ninne nanne, mentre io voglio urlarle le mie ossessioni e, come nuvola iraconda, piangere scagliando lacrime eccitate, gocce vitree su carni di panna cotta; voglio piovere di livida verità sugli occhi innocenti di chi, dopo avermi scelta come focolare si dimena in danze epilettiche, puntando i piedi su roghi di eretici improvvisati, boccheggiando come pesci rossi sfrattati sul pavimento della mia stanza che non ha porte ma finestre sigillate, torri d'avvistamento per millepiedi in cravatta. Il vino lo lascio a chi vuol farsi consumare dal vizio mentre io desidero ardentemente, con carne e ossa per Cerbero, consumarti senza dipendenza; pretendo l'alibi di un farmaco acclamato, droga legalizzata, vestito con etichetta da brunch, avvolto letalmente dal cappottino di un bugiardino bugiardo, messia del non miracolo. Un bicchiere di vino infine lo lascio per la fine, quando invalidare fioretti e credi fa molto vigliacco convertito e poca storia nota, processo inverso dei non superuomini, come l'ombra di Friedrich.
© Maria Francesca Consiglio- all rights reserved.
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