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lunedì 20 aprile 2015

"Il vento" di Chiara Minutillo.

C’erano tante cose, specialmente nella natura, che mi affascinavano, mi lasciavano senza parole, in totale sottomissione. Una soltanto, però, mi incuteva timore tanta quanta era l’ammirazione che destava in me. Il vento. Non il vento che, nei miei ricordi d’infanzia, mi scompigliava i capelli quando ero in riva al mare, ma il vento che precedeva o seguiva un temporale. Erano passati anni dall’ultima volta che avevo sentito montarmi dentro questa paura, insolita e stupida. Temevo quel vento, il suo suono spettrale, come un ululato sinistro quando, scendendo dai monti, si infilava tra le case e non trovando via d’uscita vorticava su se stesso, per cercare di tornare sui suoi passi. Era quel vento che di notte faceva sbattere le tapparelle, dandomi la sensazione che qualcuno cercasse di entrare nella mia stanza. Crescendo avevo imparato a dominare la paura quando ero in casa, ma non fuori, soprattutto se dovevo guidare, sentendo l’auto piegarsi leggermente al volere delle raffiche, vedendo cassonetti dello sporco ribaltati in mezzo alla strada e alberi riversi sui loro tronchi spezzati.
Era una giornata simile quando lo vidi per la prima volta, stretto nel suo impermeabile chiaro che lo faceva sembrare un novello tenente Colombo. Rientravo da un colloquio di lavoro piuttosto deludente e non vedevo l’ora di arrivare a casa, sdraiarmi sul divano e bere qualcosa di caldo. Sull’autobus c’era un continuo andirivieni di persone: chi saliva, chi scendeva. Io leggevo. Seduta in fondo, accanto all’enorme finestrino, ero concentrata sul mio romanzo, senza badare a chi si sedeva vicino a me, chi si alzava, chi lasciava il posto. Leggevo e sentivo solo il vento fuori, che aveva la forza di far tremare leggermente persino l’autobus. Poi avevo udito quel rumore secco. Uno schianto. Avevo sollevato la testa solo un attimo, per guardare oltre il vetro. Un attimo solo, ma è bastato. Non ho visto cosa avesse urtato l’autobus. Ho visto solo lui, sul marciapiede dall’altro lato della strada. Era appena sceso dall'autobus numero 10 e stava lottando contro il vento e la pioggia leggera per raggiungere l'autobus numero 2. Anche da lontano ero riuscita a capire che aveva piú o meno la mia etá, ma non sapevo dire se fosse bello o no, perché quello che mi aveva colpito, ció che mi aveva spinta a tenere lo sguardo sollevato su di lui invece di tornare al mio libro o di preoccuparmi di ció che stava accadendo attorno al mio autobus, non era il suo aspetto fisico. C'era un particolare che mi aveva attratta, un particolare di cui peró avevo preso coscienza solo osservando la sua battaglia. Nonostante il cielo oscurato da dense nubi temporalesche, indossava un paio di occhiali da sole molto scuri. Teneva il braccio sinistro sospeso davanti a sé e con la mano destra reggeva un lungo bastone bianco con il quale cercava di individuare possibili ostacoli. Non era semplicemente ipovedente. Era totalmente cieco. Era questo il particolare che mi aveva fatta soffermare su quel ragazzo. Non lo conoscevo, non sapevo il suo nome, ma in quel momento potevo vedere, anzi, tutti potevano vedere una parte cosi intima di lui. Che lo volesse o meno, era costretto a condividere con tutti, anche con dei perfetti sconosciuti, il suo limite, ció che lo rendeva imperfetto. L'avevo visto salire sull'autobus, alla fine, aiutato dall'autista e intravedevo la sua ombra attraverso i vetri mentre cercava un posto dove sedersi. Non riuscivo a distinguere i volti degli altri passeggeri, ma ero certa che molti di loro lo stessero fissando, consapevoli che la loro curiositá sarebbe rimasta segreta. Alcuni altri, forse, avevano evitato il suo sguardo celato dietro gli occhiali e si erano voltati dall'altra parte, fingendo che lui non fosse mai salito su quell'autobus e, intanto, si ponevano mille domande. Forse le stesse domande che mi facevo io. Non riuscivo più a vederlo, ma non potevo smettere di pensare a lui. Quando avevo preso coscienza della sua cecitá, avevo sentito dentro si me un sentimento che non riuscivo a distinguere. Non era pena ed era molto piú che semplice compassione. Forse potevo chiamarla misericordia, perché non volevo limitarmi a guardare, a provare qualcosa. Volevo fare qualcosa, per lui, per aiutarlo. Mi chiedevo come si sentisse lui, sapendo che la sua sofferenza era talmente evidente da attirare gli sguardi di tutti. Mi domandavo cosa potesse significare ricevere sempre, costantemente, offerte d'aiuto. Forse si sentiva umiliato. O era possibile che provasse solo gratitudine? Sapeva che la gente lo fissava? Che posava su di lui lo sguardo senza ritegno e senza sosta seguiva i suoi movimenti e si interrogava su di lui, come anche io stavo facendo? Sapeva che, anche se avesse avuto una bellezza perfetta, assoluta, sarebbe stata la sua invalidità a risaltare, ad attirare l'attenzione per prima? Cosa si poteva provare avendo la consapevolezza che tutti potevano conoscere il tuo dolore e parteciparvi? Mi angosciavo per lui. Forse faceva quel tragitto tutti i giorni, sapeva le fermate a memoria, i suoi piedi camminavano da soli sulla strada che doveva percorrere, ma io ero preoccupata. Preoccupata che avesse preso l'autobus sbagliato, che scendesse alla fermata sbagliata, che una volta sul marciapiede non riuscisse piú a capire dov'era e in totale confusione non riuscisse ad orientarsi. Mentre il suo autobus partiva, mi ero resa conto che, inconsapevolmente, avevo chiuso il libro che tenevo in grembo. Ero pronta a scendere, attraversare la strada, correre per salire sul suo stesso autobus prima che chiudesse le porte, sedermi accanto a lui e, se non avessi avuto il coraggio di offrirgli aiuto, avrei potuto almeno seguirlo e controllare che non si perdesse. Era troppo tardi ormai per farlo. Oltre il vetro, dall'altra parte della strada, c'era solo una pensilina scossa dal vento.
Chiara Minutillo

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