STRALCIO
"...“Piccirì a essiri lesta picchi u bagnu indebolisci”.
Tutti i componenti della famiglia utilizzavano la vasca di colore giallo che si trovava nel bagno principale. A me, che ero la più piccola e molto snodabile, veniva riservato un catino ovale che generalmente veniva utilizzato per mettere a bagno il bucato intriso di sapone molle.
In inverno l’acqua veniva riscaldata con dei grandi pentoloni posti sulla cucina economica, mentre in estate veniva presa direttamente dal rubinetto dell’acqua calda collegato allo scaldabagno.
A me piaceva molto il momento del bagno: nonostante lo spazio angusto, il contatto con l’acqua calda mi faceva stare bene, perché conciliava lo svolazzare dei miei pensieri. Luisa interrompeva di tanto in tanto il mio fantasticare per dirmi che dovevo strofinare bene gomiti, ginocchia e collo e poi, menzionandomi il nomignolo di una famiglia del mio paese che era nota per i comportamenti poco urbani dei suoi componenti e per la sporcizia che avevano addosso, mi diceva che se non mi fossi lavata bene avrei assomigliato a uno di loro.
Per me la carezza della saponetta era qualcosa di molto appagante e strofinavo con gioia il mio corpo non per ubbidire ai moniti di Luisa, ma perché mi piaceva l’odore che emanava al contatto della pelle e dell’acqua calda.
Mi conquistava in particolar modo il profumo di quella verde all’olio di oliva e di quella rosa che, secondo la pubblicità, dava “un fascino che fa girar la testa”.
In quei momenti pensavo che, se anche il mondo fosse stato piccolo e circoscritto alla mia tinozza, sarei stata ugualmente felice perché in quegli istanti pensavo di avere tutto ciò che si possa desiderare dalla vita.
Solo una volta feci il bagno piangendo tutto il tempo.
In paese era piovuto tantissimo e le strade della parte nuova dove era ubicata la mia casa, che ancora tardavano a essere asfaltate, si erano riempite di fanghiglia.
Il Comune aveva provveduto a farla ammucchiare lateralmente e noi pedoni dovevamo muoverci tra una montagnola e l’altra, facendo in modo di schivarle bene.
In uno slargo in fondo alla strada un Circo aveva, da qualche giorno, montato il suo tendone e ogni giorno, nonostante la pioggia torrenziale, teneva il suo spettacolo anche se il pubblico, scoraggiato dal tempo e dal contesto impervio, era per la maggior parte dei casi esiguo.
Una mattina, a scuola, era arrivato un componente del circo che, tra un gioco di “magia” e l’altro, ci aveva proposto un acquisto dei biglietti, subito accolto con entusiasmo da tutti noi. Così, in un giorno in cui era spuntato miracolosamente un sole pallido, la maestra ci aveva accompagnate a vedere lo spettacolo.
In un secondo tempo Luisa mi aveva fatto la bellissima sorpresa di condurmi allo spettacolo serale perché, non so come, era riuscita ad avere due biglietti omaggio.
Amavo molto il circo, non tanto per la parte dedicata ai clown, ma per quella in cui a corpo libero si facevano acrobazie di ogni genere. Mi piacevano molto la sfida al trapezio e il volteggio, con i quali i componenti facevano a turno dei doppi salti mortali e, mentre brividi di adrenalina mi facevano arrossire le guance e serpeggiavano lungo la schiena facendomi fremere, stringevo forte la mano di Luisa immaginando che io stessa fossi sul trapezio e che il mio corpo affrontasse la sfida di un doppio salto mortale.
Il numero che mi colpì di più fu quello che aveva come protagonista una bambina della mia età. Il suo cavallo galoppava intorno alla pista e la sua andatura si faceva sempre più veloce mentre la bimba, appoggiandosi sulla groppa con un solo ginocchio, faceva dei contorsionismi con l’altra gamba. La balza dell’abito, luccicante alla luce dei fari, svolazzava sempre più con l’aumentare del ritmo della corsa e il numero diventava sempre più audace, anche se l’incolumità del soggetto veniva garantita da una corda metallica legata in vita, che l’avrebbe protetta dal cadere.
Il padre la guardava vigile e orgoglioso, volgendo di tanto in tanto lo sguardo al pubblico come per dire “buon sangue non mente”. Aveva insegnato lui alla figlia tutto quello che stava facendo e questo veniva sottolineato anche da un uomo che col microfono in mano descriveva il numero nei dettagli.
A metà spettacolo, il presentatore, pregandoci di diffondere questa notizia, ci aveva informato che il Circo sarebbe rimasto più del tempo previsto perché un componente aveva un problema di salute e doveva essere curato nel nostro paese.
Glissando mentalmente sui motivi che avevano prolungato la permanenza del circo (a volte, da piccoli, alle informazioni si dà un peso egoistico), avevo accolto con allegria il comunicato, perché ero certa che Luisa, dopo un brontolio iniziale, mi avrebbe condotta a vedere un nuovo spettacolo, se avessi avuto l'accortezza di chiederglielo al momento opportuno.
L’indomani nel pomeriggio mi ero recata nei pressi del circo.
La notte era piovuto moltissimo e nella parte retrostante il tendone si era formato un piccolo stagno, dove addirittura erano state poste delle papere. Quanto si vedeva intorno dava l’immagine della precarietà e del disordine.
La bambina, seduta su una panca, si stava godendo i raggi di un sole pallido mentre mangiava un pezzetto di pane, avvolgendosi freddolosamente in un cappotto un po’ liso e in un pesante panno oscuro che probabilmente non doveva essere suo, perché troppo largo e di foggia maschile. Sotto portava il costume delle prove e ciò era intuibile perché indossava le calze leggere che le avevo visto la sera prima e le scarpette da danza poco adeguate per l'esterno. Superando la mia naturale ritrosia, che mi portava a essere un po’ timida, mi avvicinai curiosa di conoscerla e desiderosa di appagare il mio interesse per un mondo tanto affascinante quanto sconosciuto.
“Qual è il tuo nome” le chiesi e lei mi rispose che si chiamava Stella, un nome che le era stato dato come buon auspicio di successo.
Il suo modo di vivere, così diverso dal mio, mi sembrava ricco di fascino e di cose belle, e con la tenera ottusità che si ha a volte da piccoli, e che ci porta a vedere edulcorate e fiabesche anche le cose brutte, non riuscivo a comprendere le enormi difficoltà che dovevano affrontare.
Da quel giorno, dopo aver fatto i compiti, mi recavo spesso a trovarla, dopo avere strappato con fatica il permesso a Luisa, che mi faceva mille raccomandazioni di non dare fiducia a coloro che non conoscevo.
La guardavo mentre si allenava ma, anche se mi sarebbe piaciuto provare i volteggi sul cavallo, lei e il suo allenatore non me lo concessero mai, perché sarebbe stato pericoloso.
Mi deliziava l’odore che c’era lì sotto, sapeva di muschio, di cavalli e di fieno e io mi recavo lì soprattutto perché mi affascinava tutto, soprattutto l’idea della padronanza del proprio corpo, che si acquisiva dopo anni di estenuanti prove.
A casa cercavo di imitare gli esercizi che avevo visto provare e, nella mia fantasia, la spalliera di una vecchia poltrona in pelle era diventata la groppa del cavallo e complemento al mio “numero” diventava un ombrellino di plastica e carta colorata, che avevo usato per carnevale come accessorio del mio costume di “giapponese”.
“Chista picciridda m’ava fari pigghiati qualchi scantu” blaterava Luisa, mentre però mi guardava ammirata.
Un giorno ero uscita dal circo molto galvanizzata: Stella aveva provato una nuova coreografia e io non vedevo l’ora di ripeterla a casa mia.
Cominciai a percorrere il tragitto che mi portava verso casa, camminando in modo spedito mentre canticchiavo mentalmente la musica che avevo ascoltato durante le prove. La mia mente vagava nelle figure coreografiche che avevo visto e il mio passo si faceva sempre più celere. A poco a poco avevo cominciato a correre, prima trotterellando ma poi sempre più veloce, districandomi tra i cumuli di fango posti ai bordi della strada. Facendomi sempre più audace, avevo cominciato non più a schivarli, ma a saltarvi sopra come se fossero degli ostacoli da superare e nella mia mente immaginavo che mi librassi sempre più in altro, provando il brivido e l’ebbrezza del volo. La musica nella mia mente si faceva sempre più ritmata e io diventavo sempre più ardita e veloce. Sentivo il vento gelido che mi arrossava le guance, ma provavo un gran caldo e la voglia di volare si faceva più prorompente. Stavo scavalcando l’ultimo montarozzo, quando mi accorsi di avere calcolato male la sua larghezza. Ma ormai era troppo tardi perché vi caddi dentro, rimanendo impantanata nella massa melmosa.
Mi guardavo intorno, sempre più presa dal panico, mentre con le mani cercavo di liberare i piedi. Mi sentivo protagonista di un sogno terribile, nel quale si vuole scappare da qualcosa che fa paura, ma le gambe sembrano diventate di piombo. In lontananza avevo intravisto delle persone ma, pensando che mi avrebbero riconosciuta, speravo di liberarmi prima che arrivassero perché non volevo farmi vedere da nessuno così insudiciata. Mi mancava il fiato. Atterrita prendevo sempre più consapevolezza che da sola non ce l’avrei mai fatta, perché la massa argillosa nella quale ero caduta diventava sempre più pesante e collosa.
Gli individui che si stavano avvicinando sempre più, quando si accorsero di ciò che stava accadendo, affrettarono il passo. Mi riconobbero solo quando, unendo tutti assieme le loro forze, riuscirono a liberarmi. “Clarissa stai tranquilla” mi disse il più vecchio “facuntu ca ti purtamu intra”[59]. Battevo i denti per il freddo, la paura, il disagio. Percorsi il breve tragitto a occhi bassi e in trance con lo stato d’animo di chi stia vivendo un sogno angoscioso e vuole svegliarsi al più presto. Alla vergogna per quanto mi era accaduto, a casa avrei dovuto associare anche la preoccupazione per i rimproveri e per qualche punizione che sicuramente mi avrebbero dato.
Quando Luisa aprì la porta, mi stupì la repentinità con la quale il suo volto, simile a dei fotogrammi lasciati scorrere da un fotografo frettoloso, cambiò di espressione: paura, incredulità, disappunto, rabbia.
“Piccirì ora ti pistu cumu a racina”. Questa frase mi aveva fatto capire che era arrabbiatissima: nessuno mi aveva mai dato nemmeno una sberla e non sapevo cosa fosse anche la più leggera forma di violenza. Sapevo quindi che Luisa, e nessun altro componente della famiglia, mi avrebbe mai “pestato” e non mi avrebbe fatto subire alcuna forma di maltrattamento, ma di certo il suo brontolio trapanante era per me già una punizione.
Buttò nel catino l’acqua calda. Lo fece con una veemenza tale che gran parte schizzò a terra. Poi mi invitò a infilarmici dentro perché altrimenti, a detta sua, il fango mi si sarebbe incollato addosso facendomi diventare simile a una statua di marmo.
Io piansi tutto il tempo. Piansi dei suoi rimbrotti. Piansi perché Luisa mi aveva detto che non avrei avuto più il permesso di andare a trovare Stella. Piansi per la vergogna di essermi mostrata a occhi estranei in modo scomposto. Piansi perché avevo deluso tutti. Piansi perché nel fango avevo perso le mie belle scarpe di vernice nera con la cinghietta alla caviglia, che non erano di certo adatte per camminare su quella strada, ma che indossavo perché sembravano delle scarpette da ballo.
Rossella Trupia
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