Non aggiungerò troppe parole a quelle che seguiranno, espresse da Anna Visciani, autrice del libro “Se Arianna”, edito da Giunti nel 2014, il quale racconta la vera storia “diversamente normale” di una ragazzina cerebrolesa e della sua famiglia, composta da due genitori, entrambi neurologi, da una sorella adolescente e da un fratellino, tutti eletti al ruolo di voci narranti.
Vi saranno altre occasioni per soffermarmi su un testo che pervade l’intimo del lettore con la sua forza e delicatezza e che insegna a cercare le ali, anche se sono nascoste, anche se sono incollate, anche se sono troppo fragili. Oltre ogni “se”, infatti, si nasconde speranza e consapevolezza, lotta con il destino e amore per la vita.
Benvenuta Anna. Entriamo nel vivo del dibattito che più volte abbiamo accennato in privata sede. Cosa è la sofferenza? Perché la si teme, la si evita? Da cosa si scappa?
Grazie Emma per l’accoglienza.
Soffrire viene dal latino “sufferre” che vuol dire sopportare.
La “sofferenza” in senso lato è quindi una condizione dell’esistenza con cui prima o poi tutti ci dobbiamo confrontare.
Siccome quando si soffre non si è felici, si cerca di soffrire il meno possibile.
Ma quando la sofferenza arriva, nasconderla o addirittura negarla è più dannoso che riconoscerla e affrontarla.
Spesso facciamo finta che la sofferenza non esista e finché possiamo evitiamo ogni contatto con chi sta male, con chi è in difficoltà, con chi chiede aiuto. Questa forma di egoismo e di autodifesa ci si ritorce però contro quando siamo costretti a fare i conti con la realtà, perché voler ignorare come si fa a sopravvivere a un profondo dolore o a una grande delusione ci lascia inevitabilmente senza strumenti per rialzarci quando a nostra volta siamo abbattuti da eventi drammatici.
Io credo che la solidarietà e la condivisione della sofferenza altrui ci aiutino a crescere e ci rendano più forti.
Un tema particolarmente delicato toccato nel libro, e mirabilmente trattato da Dostoevskij nei “Fratelli Karamazov”, è quello della “sofferenza inutile”, in riferimento alla sofferenza dei bambini, definita inutile in quanto non ha significato né di espiazione né di maturazione.
Come descriveresti la tua famiglia, in tutti i suoi componenti, che, come ho menzionato in apertura, sono voci narranti nel libro?
Come dico il nostro libro è stato scritto a quattro mani (tre destre e una sinistra), per spiegare che è unatestimonianza corale in cui tutti i componenti della nostra famiglia sono stati coinvolti nel raccontare la propria esperienza con Arianna.
Dato che non solo la vita di noi genitori ma anche quella dei fratelli è stata pesantemente condizionata dalla disabilità di Arianna ho voluto far sentire la loro voce.
Di solito infatti, ci si concentra sui problemi dei genitori e si presta poca attenzione alle problematiche dei “siblings”, i fratelli dei disabili, costretti a crescere e a convivere con una realtà scomoda.
La voce del piccolo Daniele è la più esplicita e diretta nel manifestare il suo disagio, ma anche la più spiritosa e divertente, mentre la voce di Alice, ragazza adolescente, è più pacata e ragionevole nel suo confronto con la sorella. Il loro è un rapporto fatto di gelosie, conflitti e sensi di colpa ma anche di responsabilità, affetto e dedizione. Entrambi seguono un percorso di riflessione che li porta alla progressivaconsapevolezza di sé e alla accettazione della situazione con tutti i suoi aspetti esistenziali drammatici e conflittuali.
Le nostre vicende talvolta paradossali o tragicamente comiche sono state trattate spesso con ironia perché la capacità di continuare a sorridere ci ha aiutato in tutti questi anni ad andare avanti, nonostante sia sempre stato molto difficile immaginare un futuro per Arianna e per noi.
Le nonne ci hanno insegnato che la vita non procede attraverso i “se ” e i “ma”. Che valore dai al monosillabo con cui il titolo del tuo romanzo inizia?
Abbiamo volutamente intitolato il nostro libro “Se Arianna” per indicare le potenzialità mancate di nostra figlia e il nostro desiderio irrealizzabile: “se” Arianna camminasse, parlasse, corresse come qualsiasi bambina della sua età.
In una recensione è stato scritto che quel “Se” è il nostro “grido di dolore” contro il destino che l’ha resa così.
Nella copertina la libellula rappresenta simbolicamente Arianna, ragazzina esile e leggera, che non può spiccare il suo volo verso la vita perché ha le ali bloccate dal nastro adesivo. La domanda alla quale noi tutti vorremmo dare una risposta, mentre con le dita grattiamo lo scotch per staccarlo, è: chi lo ha messo e perché?
Cosa è per te la scrittura? Un atto di coraggio, una sfida contro i tabù sociali, un ponte di comunicazione, un messaggio stipato in una bottiglia?
La scrittura per me è sostanzialmente un modo per comunicare. La domanda più frequente che mi è stata fatta è: perché hai deciso di scrivere questo libro? Io rispondo sempre che l’esploratore che si spinge fino al Polo Nord, l’alpinista che raggiunge una vetta, o ancora il navigatore che attraversa l’oceano in solitaria, tutti alla fine della loro impresa sentono il desiderio di far partecipi gli altri delle tante difficoltà incontrate per raggiungere il loro obiettivo.
Noi che viviamo un’ “esperienza estrema”, cioè una vita molto diversa da quella delle famiglie normali, abbiamo pensato che la “nostra impresa” meritasse di essere raccontata: riuscire a vivere una vita il più possibile normale nella sua diversità.
Arrivare a decidere di narrare una storia come la nostra implica non solo coraggio, ma anche un processo di elaborazione che parte da lontano. D’altra parte è indubbio che la scrittura stessa favorisca il progredire di questa elaborazione e permetta a volte di evidenziare e oggettivare pensieri non ancora del tutto consapevoli.
Ci siamo rivolti a qualunque tipo di lettore, senza pretendere di insegnare niente a nessuno: il messaggio che abbiamo voluto trasmettere è indirizzato a tutti. Ognuno saprà fare poi le sue riflessioni sulla vita e trarre dalla nostra esperienza quello che vorrà.
Emma Fenu
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