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venerdì 22 maggio 2015

"I DIARI " di Sylvia Plath (Recensione di Laura Caroniti)



RECENSIONE

I Diari, Sylvia Plath.

Non c’è Letteratura dentro le raccolte di poesie, nelle prose e il romanzo finito della Plath-autrice, che non passi attraverso la Vita, e la Morte, della Plath-donna e a lei ritorni, costringendo il lettore a un voyeurismo necessario, e non di maniera, per attraversare la claustrofobia di ogni singola parola da lei manovrata, per attraversarla e poterne riuscire. Perché il limite da raggiungere per risolvere l’angoscia dei versi, l’alter-ego de La campana di vetro e l’esilio-cinismo dei racconti è nel suo borderline creativo, la grandezza di un’angoscia lucida, e non maniacale, che in molti studiosi della sua opera si è tradotta in disperazione; e che in Amelia Rosselli –a ragione la più grande traduttrice italiana della Plath- è sconfinata fino al punto di togliersi la vita l’11 febbraio, lo stesso giorno di Sylvia.
Proveremo a non assegnare alcuna etichetta, se non quelle che Sylvia usò per sé, e in questi passi a fatica tra le sue parole non sceglieremo stavolta le poesie, non i racconti e nemmeno il romanzo. Avanzeremo ne “I Diari” in cui si firmava “La bambina che voleva essere Dio”. 
Pubblicati postumi da Ted Hughes, che ne curò l’edizione scegliendo dapprima di ometterne alcune parti, scatenando una reazione compatta di critica, stampa, e di diverse associazioni post-femministe che lo faranno esplodere nella storica asserzione: “Le femministe mi hanno crocifisso!”, I Diari appartengono al periodo che intercorre tra il 1950 e il 1962, e, in Italia, vennero pubblicati nel 1982 e, poi, riproposti nell’edizione integrale solo nel 2000.
Non siamo davanti a una semplicistica operazione di registrazione e commento di avvenimenti quotidiani, ma crocicchi, episodi cruciali, che nati nella vita di Sylvia sono stati dilatati in scrittura.
Non solo una donna, né un’autrice, nei Diari, che restano pagine di una narratrice indotta che affronta vicende occasionali, o il labirinto dei suoi anni, e avverte l’esigenza e il bisogno emotivo di inventare dei registri stilistici per incastrarvisi dentro. Non a caso dirà: “La vita non vale la pena di essere vissuta se non la si può riportare in scrittura” e nessun calligrafismo stride in queste pagine, nelle lettere, ma creazione sempre, creazione pura. Immagini che tagliano emozioni: l’amore e l’odio, l’angoscia e la tristezza, la gioia, la fama e l’inespressione, la fragilità e l’eccesso, non trovano requie, forse, ma il loro limbo esclusivo, sì. “Ora so cos’è la solitudine, credo. Perlomeno la solitudine passeggera. Nasce da un punto indefinito dell’io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzare il focolaio, l’origine del contagio.[…]Nostalgia è il nome che gli altri danno al malessere che ora mi domina. Sono sola in camera mia, sospesa tra due mondi” . E ancora: “Sono teatrale, certo, sto facendo del cinismo e del sentimentalismo mescolati insieme. Ma in tempi sereni potrei crescere e scegliere la mia strada. Adesso vivo in bilico. Siamo tutti sull’orlo e ci vogliono nervi saldi, ci vuole tanta energia, per stare in bilico sul bordo mentre sbirciamo oltre, guardiamo giù nell’oscurità ventosa senza riuscire a scorgere neppure a scorgere, attraverso la foschia gialla e puzzolente, quello che c’è laggiù, nel fango, nel fango trasudante e striato di vomito […]” . Scrittura come antidoto, non come terapia, per contenere l’avvelenamento da un dolore che l’accompagna da bambina e che altrove, nelle poesie soprattutto, acquisterà i contorni di un retaggio familiare ciondolante di miti sull’origine pura e una pretesa autorità derivante da un concetto di eticità superiore. E man mano che le pagine si sovrappongono, cresce la donna e cresce l’autrice, si acutizza la sensibilità su una pelle sottile su cui affiorano nervi scoperti, e nodi, vertici e abissi: “Non amo; non amo nessuno all’infuori di me stessa. È questa una cosa davvero sconvolgente da riconoscere.[…] tanto per essere chiara, sono innamorata solo di me, un essere insignificante, con un seno troppo piccolo e un talento assai modesto. Riesco ad affezionarmi solo a quelli che riflettono il mio stesso mondo” . Oppure: “Dio, non sono mai stata tanto vicina al suicidio come adesso, il sangue insonne che arranca stordito nelle vene, l’aria grigia pesante di pioggia e […] quel puzzo di catrame pungente, infernale […]. Ho paura. Non sono piena, sono vuota. Sono dietro gli occhi come una caverna pietrificata, inerte, un abisso infernale, un nulla con le mie sembianze. Non ho mai pensato, non ho mai scritto, non ho mai sofferto. Voglio uccidermi, fuggire dalle responsabilità, tornare a rintanarmi nel grembo materno” . Siamo dentro una vertigine, pagine vampire e claustrofobiche, che rimandano costantemente alla lotta dei tempi, Sylvia contro Sylvia, l’Io versus l’Es, e la voglia mai paga di essere migliore, fulgida, competitiva, la creazione di carne della sua immaginazione, la prova vivente di un talento che dubita sempre di avere: “Se non sono capace di inventarmi delle storie a casa mia, non sarò capace di farlo da nessuna parte […]La peggiore nemica della creatività è la mancanza di fiducia in se stessi. E tu sei talmente ossessionata dal pensiero che tra poco dovrai cavartela da sola, affrontare il grande, immenso mondo mangiauomini, che ti paralizzi: ti ribelli anima e corpo all’idea di vincolarti a un ruolo, a una vita che Potrebbe Non tirar fuori il Meglio di te” . La testimonianza di una critica, ecco quale potrebbe essere il leitmotiv dei Diari, un costante refrain di recriminazioni e richiami, di un sentimento di piccolezza parassitaria che non le permette una visione distesa di sé, ma accumuli di lacerazioni e strappi perfino davanti a spicciole banalità. “Anch’io voglio essere importante” scrive “Distinguendomi. Queste ragazze sono tutte uguali […] Mi sento come Lazzaro: ha un tale fascino, questa storia. Ero morta e sono resuscitata,e mi aggrappo persino al valore puramente sensoriale dell’essere una suicida, dell’esserci andata così vicino, dell’uscire dalla tomba con le cicatrici e il segno deturpante sulla guancia[…]” . Dirà -la stessa Plath- dei Diari che furono per lei una “litania di sogni, di indicazioni e imperativi”, un “deposito dell’immaginazione da cui estrarre il pressante materiale inconscio”, il telaio embrionale su cui innestare i temi recalcitranti delle poesie e seguirne la genesi. Parole che non si dissolvono, che non prendono la via del cielo, ma che restano ancorate alla terra, sanguigne e sanguinarie, odorano di zolfo, d’inferno, e anelano alla soddisfazione più grassa o alla tregua più asfittica. E l’amore che entra ed esce dalla vita di lei e Ted Hughes, altro e diverso dagli altri, che lancia sassi e fango alla sua finestra: “[…]le due cose mescolate: il fango e il mio nome; il mio nome è fango” . E la voglia e la paura di lui: “[…] non troverai mai un altro Ted che avanza torreggiando, carico di poesie e di ricchezza […] non è tenero, non ha amore per te[…]Lascialo andare. Abbi questo coraggio[…]” . 
Come fosse semplice! Incrociarsi e riconoscersi tra tanti, tra gli altri, tra tutti e poi lasciarsi andare… …è un bivio: Sylvia lo sa, lo sente da subito; Ted Hughes lo saprà più tardi quando si lascerà vincere dal loro dramma ammettendo: “Da soli avremmo potuto, l'uno o l'altra, incontrare una vita. Coppia siamese, suppuranti ciascuno una singolare infezione dell'anima per l'altro, ciascuno era il palo che infilzava l'altro. Faticosamente, in silenzio percorrevamo le strade, confermandoci l'un l'altro, resi storpi e ciechi dai sogni”. 
Ma già la vicenda si sarà ripiegata su sé, sarà passato quell’11 febbraio e Ted prenderà con sé i loro bambini, Frieda e Nicholas, iniziando la propria discesa all’inferno: accusato da critica e pubblico, inedito, inviso e unico beneficiario delle opere di lei. Le pubblicherà. Lo accuseranno. Dita contro e pollice verso. Inizierà a indietreggiare nella sua solitudine di maschio e poeta e a non rilasciare più interviste alla stampa che chiede, insiste, vuole conto e ragione, del suo rapporto con Sylvia. Ma torniamo ai Diari, parla dei suoi progetti, spiega, desidera su tutto –Sylvia- essere produttiva: “Le poesie sono monumenti di un momento. La mia elaborata terza rima mi sta stretta. Mi serve una Trama: persone che crescono, che si incontrano, che si scontrano con le circostanze: un bel minestrone di gente, che cresce, si fa male, ama e tira avanti come meglio può” . Ma sulla Letteratura ritorna la Vita: è lei, è Sylvia, a incontrare, scontrarsi con Ted, a farsi male e ad amarlo solo per andare avanti come meglio potevano in due: “Voglio essere una cicatrice di parole, un poeta: insieme a Ted. Libri, culle e padelle” Sylvia è bella, ma non basta, non è mai bastato, oltre a non crederci lei, sembra che nemmeno i suoi amori ci avevano mai creduto: lei era strana, forse, agli occhi di chi la guardava senza vederla; era alta, era bionda, piaceva…ma era diversa. E la sua diversità pesava come una cappa. Diciamolo, non aveva mai avuto un gran fortuna con gli uomini. E Ted…già noto negli ambienti letterari, pericoloso come solo può esserlo un uomo sicuro di sé, e certo che il suo letto di scapolo non resterà così facilmente vuoto. Eppure… “Ed eccomi qua: la signora Hughes. Moglie di un poeta pubblicato” , dopo un solo anno dal loro primo incontro. E il diario prende un’altra piega: smessi gli abiti malinconici, la greve pesantezza delle sue insicurezze, non c’è più posto se non per lui, Hughes, il colosso, la pantera, l’iter delle poesie che pubblica, la venerazione che lei ha per lui. È fiera, Sylvia: di lui, e del suo essergli accanto: “Il libro di poesie di Ted, The hawk in the rain, ha vinto il concorso di “Harper’s” per un’opera prima inedita con la giuria formata da: W. H. Auden, Stephen Spender e Marianne Moore! Anche adesso che lo scrivo non riesco a crederci. La gentucola timorosa rifiuta. I grandi e spavaldi poeti di professione accettano” . È il suo mondo, lui, la raddolcisce fino a sfinirla, si perde il suo egoismo e rimpicciolisce il suo sogno: è, però, finalmente felice. Chi dice che si scrive partorendo il dolore? E che si è isteriliti dalla felicità? Nascono giorni dove i pensieri s’infittiscono, ma la carta rimane virginale e il Diario annota questa condizione. Ma ritornano i demoni. E urlano, urlano sempre più forte. Paure. 
Paure a grappoli, di malattie, perfezionismi e scrittura senza pathos: “In parte, credo, corro il rischio di dipendere troppo da Ted” : ecco, lo pensa, lo scrive, lo dice. Da parolaia che è, Sylvia, lo sa: prendono concretezza, le parole, quando diventano. Sono, esistono. Le delusioni, i rifiuti delle poesie, acuiscono l’ascesa dello scontento: Marianne Moore risponde con una lettera astiosa alla sua richiesta di referenze per la borsa di studio Saxton: “non essere tanto macabra” le consiglia, riferendosi alle sue poesie. Inizia le sedute di psicoanalisi, le registra, racconta del padre e della madre, parla dell’amore per Ted e delle ristrettezze economiche di lavori precari, desidera un figlio… …e i grassi periodi di prima, nella pagine successive diventano frammenti, mozziconi nervosi, pensieri stringati, violenti, invidiosi. Scrive del rifiuto di Johnny Panic “senza una riga di commento” e degli incubi che le mangiano le notti e i verbi, s’incagliano nelle pagine pizzichi e periodi nominali. Ritorna il racconto il 17 gennaio 1962: sono pagine dedicate al parto e alla nascita di Nicholas , Ted le è accanto, ma lei annota: “La placenta è schizzata fuori dentro una terrina di pyrex che si è arrossata di sangue. Era intatta. Avevamo un figlio. Non ho sentito nessun fiotto d’amore. Non ero sicura che mi piacesse”; piacerà, invece, a Frieda, la prima figlia, che lo terrà “in braccio piena d’orgoglio”. Quegli stessi bambini che solo un anno dopo, l’11 febbraio del 1963, lei accompagnerà a scuola, dopo aver loro preparato la colazione; e poi, rientrando a casa, sigillerà porte e finestre, si sdraierà con la testa nel forno e aprirà il gas. Resterà solo un ultimo biglietto attaccato alla carrozzina di Nicholas e con su scritto: “Per favore,chiamate il dottor Horder”. Nient’altro. Sulla sua lapide, nel cimitero di Heptonstall, da lei descritto in November Graveyard, verrà incisa una frase buddista: “Anche tra le fiamme violente si può piantare il Loto d’oro”. Ma noi guardando oggi una sua qualunque fotografia dove lei ride, ricorderemo, forse, più le sue parole: “C'è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l'altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos'è la vita". 
E noi sapremo chi è lei.
SYLVIA PLATH

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