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sabato 30 maggio 2015

"CHI GIOCA CON IL MONDO" di Maria Laura Platania



Chi gioca con il mondo?


Unghie, dal gesso consumato, graffiano stridule l’asfalto.

Occhi di scoiattolo impaurito afferrano, aprono, vuotano un sacchetto che si affloscia misurando, in sequenza, fragori antichi. Un gioco.
Chi gioca con il mondo?
Roma si sveglia pigra miagolando sui tetti morbidi. L’aurora, l’indecisione della notte a farsi giorno, clacson di sbadigli degli ultimi nottambuli, stridio di freni dei netturbini, il fragore sordo delle saracinesche dei bar, l’odore forte del pane appena sfornato confuso a quello delle brioche e del caffè caldo.
La villa bassa e signorile immersa nel verde recita serenità e discrezione, sin dal cancello di ferro battuto intrecciato di glicine antico, concluso da lunghe lance rivolte verso il cielo, la pulsantiera sul lato destro, senza nomi, né sigle, su quello sinistro il cave canem di un boxer bonario.
Silenzio e discrezione, non fosse per quella insolita incuria del giardino, lunghi ciuffi d’erba selvatica nelle fessure del pavé: una villa abitata, in altro tempo.
Federico Ferroni era stato commissario di zona, fino all’anno prima.
Prossimo a una settantina vigorosa, collaborava ancora alle indagini di polizia, fonte inesauribile di memorie catalogate, ordinate, ma, soprattutto, vissute come nessun computer avrebbe mai potuto. Di un incontro, occasionale o meno, di un ricercato arrestato, rilasciato o passato a miglior vita, lui ricordava tutto, parenti, amici, rapporti, gusti, preferenze. Irrisolti rancori. Diceva scherzando ai più giovani colleghi che la memoria era per un poliziotto quello che è la corazza per una tartaruga: permetteva un cammino, lento, ma sicuro verso la vecchiaia.
E adesso quel volto di bimba avvizzita frugava, sgraziata, la mente, stridendo unghie di gesso.
Dall’altro lato, Villa dei Glicini. Crimini, fattacci. Chi li ricordava più?
C’era scappato il morto.
Un ladro – s’era detto - s'era intrufolato nella villa e sorpreso a rubare aveva strangolato la giovane domestica senza portare via nulla. Una ridda di ipotesi, senza possibilità di verifica, mentre si passava al setaccio ogni risvolto della vita della famiglia che risiedeva lì da molto tempo, rispettata e stimata dalla gente del quartiere. E così nessuno aveva voluto credere alla storia del dottor Mariozzi, amante della servetta diciottenne, né alla gelosia della moglie, né all'ipotesi che la loro figlia, dai begli occhi scuri, fosse frutto di una relazione adulterina di quel marito tanto devoto.
Ferroni, all’epoca dei fatti, un'idea se l'era fatta: Giulietta - così si chiamava o si faceva chiamare la ragazzina venuta da un paesino là vicino, a Roma per “abbuscarsi la gallina”, come diceva ai negozianti dove faceva la spesa per la “signora” - doveva essere stata l’ingenua vittima di un sordido gioco.
Quella cassettuccia, bianca per il grezzo del legno che lasciava la Chiesa di Sant'Agnese al Nomentano nel caldo innaturale di un Novembre avanzato, seguita solo da un uomo troppo vecchio per essere il padre e che si avviava mesta al cimitero di Prima Porta era memoria viva.
Un delitto senza colpevoli, tanto fango su una ragazza che non aveva trovato nella Roma dei suoi sogni neppure i soldi per pagarsi il viaggio di ritorno al suo paesello.
La famiglia Mariozzi aveva finito con l’ abbandonare la casa.
Cacciati i padroni, nella fantasia del popolo, Giulietta, con le sue quattro ossa di contadina, aveva ripreso possesso della Villa, libera di respirare quel profumo di glicine che rubava nella stagione del suo fiorire.
Un caso irrisolto, una delle poche macchie nella carriera del commissario.
Cose che pesano a settant’anni, quando resta poca sabbia nella clessidra.
E ora ecco quella ragazzetta pallida, gli occhi affossati nelle orbite cadaveriche, cenciosi capelli di stoppa, attraversare la strada farglisi d’accanto, soffiando nell'orecchio l'osceno di una proposta sibilata mostrando il rosso di una lingua trafitta da una minuscola sfera d'acciaio.
Il vecchio commissario è turbato, sente l’acuto di un dispiacere attraversargli lo stomaco: che ci fa per strada una ragazzina così, all’alba, ora da ladri, da donnacce, da vecchi insonni… quanti anni puoi avere? quindici, sedici a rotolare negli angoli di strada lasciando che uomini e donne in sudicia sequenza sporchino l'ingenuità di un seno che non ha avuto neppure il tempo di sbocciare, di gambe livide.
Quelle gambe che, adesso, aggrediscono a due, a tre la volta i gradini alti e irregolari della villa mentre, il volto, appena arrossato dalla fatica, si gira di tanto in tanto per assicurarsi che l’uomo la segua.
Silenziosa e impavida indica un uscio socchiuso: la villa e il suo interno.
Tende, moquette, lampadari, la tappezzeria, quadri, biancheria, bagni e ottoni lucidi di asciugamani in bella mostra, tutto è lindo, tutto è ordine.
Davvero Giulietta hai continuato, serva fedele, a custodire i luoghi della tua esistenza?
Ora il viso di bimba senza sorriso si affaccia dolente dallo stretto dell’uscio. Prende il sacchetto.
Giochiamo? Giochiamo insieme al gioco del mondo?
Ammaliato Ferroni, d’improvviso, comprende di chi è quel volto.
A che serve il sacchetto, bambina di ghiaccio?
Cos’è il mio sacchetto? Ma è il mondo e dentro striscioline di carta, gli spiriti degli dei. Ora è giunto quel tempo, aprirò il sacchetto, ora non so più controllare la mia disperazione. Hanno aspettato vent’anni gli spiriti potenti, ora bisogna sollecitare il loro aiuto.
E’ freddo il muro d’ombre che narra di gente cattiva, d’una bimba nata per odio da un ventre di serva, strappata all’amore di mamma, allattata a veleno da sterile madre. Follia ordina di togliere vita a chi la vita ha appena donato e invoca, tremando, non ditelo a mio padre, non fate soffrire mio padre.
E arriva quel padre, contadino ferito: è ombra irata e possente nel teatro del mondo. La vede il vecchio Ferroni, perché solo ora la vede?
Hai giocato bambina? Hai giocato bambina?
E stringe, stringe il tenero di quella carne che è la sua carne.
Si spezza la storia, graffiata con unghie di gesso, mentre leggeri gli spiriti placano la disperazione di un’ombra mancata di donna dagli occhi neri di scoiattolo impaurito, che ora - ma è sogno, ma è vita ?- dondola gambe livide e scheletriche da una corda di tenda strappata.
Nelle mani il sacchetto del gioco del mondo, narrato in fragile giallo di carta.
Li ho uccisi tutti, dovevo ucciderli tutti. L’ho fatto per te, abbracciami Giulietta amata da nessuno. Sono tornata, mamma.

Laura

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