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martedì 21 giugno 2016

"ANIME SOMMERSE" di Nadia Levato



Anime Sommerse

La sera della nostra partenza il mare era un mostro dormiente; un’estensione di acqua e spuma bianca raccolta sulla battigia, illuminata appena da uno spicchio di luna. 
La risacca aveva lavato le nostre caviglie e accolto la nostra paura, confondendola con il miraggio di un futuro diverso. Dietro di noi la fame, la guerra, la nostra terra ferita e offesa, i volti cari di chi ci lasciava andare senza poter sapere se quello sarebbe stato un arrivederci o un lacerante addio.
Lo spazio sulla barca era esiguo. E noi eravamo tanti. Ci sistemarono con poco garbo, tra spintoni e calci disposero i nostri corpi, come oggetti ci divisero: le donne e i bambini da un lato, gli uomini dall’altro.
Il viaggio, ci avevano assicurato, sarebbe durato poco. La costa italiana non era poi così distante. Ma i giorni erano passati nel freddo e nell’odore nauseante di escrementi e urina. Due, forse tre. 
Quella carretta nel mare, scricchiolante e fragile come le nostre storie, sfidava le onde, il freddo, il vento in un susseguirsi di tramonti e albe che sorprendevano i nostri corpi, neri e ossuti come legna da ardere. Il pianto di Amina, la mia bimba di appena due anni, si univa a quello di altri bambini. Senza cibo e senza acqua non avremmo potuto navigare a lungo. In un peschereccio di pochi metri ci accalcavamo gli uni sugli altri come formiche arrese, pronte ad implodere. I nostri visi sfioravano quella distesa di acqua salata, cangiante e mutevole come le nostre emozioni. Come rami protesi sopra i bordi di quel precario vascello, aspettavamo di scorgere quel pezzo di terra che, tra le onde del mare, ci avrebbe parlato di libertà. 
Schiacciata da corpi stanchi e sfiorata da sguardi vuoti come la mia pancia, cercavo di soffocare nel petto il pianto insistente di Amina, oramai allo stremo per il freddo e la fame. I suoi occhi imploranti e liquidi mi scavavano nel cuore solchi profondi come i tagli che portavo sulla schiena, dolorosi e brucianti come carne viva e scoperta. La stringevo a me e anch’io, sopraffatta dalla paura, piangevo lacrime asciutte. 
All’alba del quarto giorno, un urlo mi destò dal sonno pesante in cui ero sprofondata. Sentivo un calore sopra lo sterno. Impiegai qualche istante a realizzare che quel bollore proveniva da Amina. La sua testa bruciava. Il fiato era corto e rumoroso, le mani fredde e sudate. Intanto sulla barca si era creato uno strano movimento. Con apprensione controllai il nodo della fascia che legava Amina a me, mentre qualcuna gridava.. terra. 
Terra fece eco un’altra voce. 
Quella parola prese forma nella mia testa, terra ripetei tra me e me…
Terra..terraaa gridai con tutto il fiato che avevo in gola. 
Tentai di tirarmi in piedi, Amina ben salda al mio corpo aprì per un istante i suoi grandi occhi neri agganciandoli ai miei. Quello sguardo mi fece tremare cuore e anima. Terra le sussurrai dolcemente, avvicinando piano le mie labbra aride al suo orecchio sinistro. 
Presto sarai salva bambina mia. 
Le gambe erano come anestetizzate e con fatica riuscii a portarmi in piedi; appena in tempo per scorgere all’orizzonte quella sagoma verde e marrone adagiata sul mare. Poi uno scossone mi fece vacillare. 
Terra. 
Dopo giorni di navigazione ecco la nostra meta così vicina, a portata della nostra salvezza e della nostra nuova vita, mia e di Amina. Nel brulicare di gente, il mormorio delle nostre voci copriva il frastuono delle parole concitate degli scafisti. Un altro scossone fece tremare la barca. Accadde tutto in pochi attimi. Un fumo nero salì velocemente su per il cielo. Altro scossone. 
Accadde tutto rapidamente. Troppo rapidamente. 
Con le mie braccia tentai di fare da scudo ad Amina, nel goffo tentativo di ripararla da quei corpi che, improvvisamente, avevano preso a rotolare impazziti verso di noi. La strinsi a me prima di capire che stavamo precipitando in mare e che la barca si era trasformata in una piastra obliqua sulla quale era diventato impossibile reggersi in piedi. E tra gambe, braccia, volti terrorizzati che come schegge impazzite ci sfioravano catapultandosi in acqua, cominciammo a scivolare anche noi due.
Cercai un appiglio. Afferrai con tutte le forze il parapetto scrostato. Le mie unghie si incagliarono in quelle tavole di legno. La Terraferma è così vicina, pensavo in un vortice di confuse considerazioni, mentre venivamo risucchiate in basso, in quella distesa di acqua e sale, amara e fredda come il nostro destino. Ruzzolammo velocemente, la fascia che assicurava Amina al mio corpo si impigliò in una ansa della barca lacerandosi irrimediabilmente, e con lei si lacerò il mio cuore in quel volo di morte che ci avrebbe divise per sempre. L’impatto dei nostri corpi tra le onde fu violento. E mentre l’acqua ci sommergeva fin sopra il capo, il salmastro che entrava nella mia bocca aveva lo stesso sapore della disperazione. 
Provai a restare a galla, giusto in tempo per intravedere le treccine di Amina galleggiare un istante su quella distesa blu. Intanto, sopra le nostre teste, i corpi continuavano a precipitare urlanti, facendo sollevare le onde e inabissandoci sempre più in giù. 
Sentivo che la vita mi stava velocemente abbandonando e ripensavo all’Africa, quella terra da cui ero scappata per portare in salvo il mio bene più grande. 
Amina. 
Provai a gridare il suo nome, ma nella bocca l’acqua strozzava asfissiandomi. Un suono meccanico e possente tagliò l’aria appena prima che tutto diventasse buio. Il mio ultimo pensiero andò a quelle treccine, a quel sorriso leggero che volevo le illuminasse il viso, a quella ricerca di un pezzo di pane che mi aveva portata su un barcone incrostato, scricchiolante e fragile come le nostre storie.
“La sera della nostra partenza il mare era un mostro dormiente; un’ estensione di acqua e spuma bianca raccolta sulla battigia, illuminata appena da uno spicchio di luna. Così mi racconta Jhamila. “Tua madre indossava una paschmina azzurra con striature ambrate e con questa ti teneva legata a sé. Aveva 25 anni e cicatrici profonde come solchi. Sognava per te una vita diversa”.

NADIA LEVATO

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