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domenica 24 aprile 2016

"LA FIGLIA DEL PARTIGIANO" di Nadia Campanelli



LA FIGLIA DEL PARTIGIANO

Solo alla fine della guerra seppi che mio padre era stato un partigiano.
Lui era un uomo di poche parole e le sue giornate le consumava, dall'alba al tramonto, nel campo vicino casa a coltivare ortaggi. Eravamo molto poveri, ricordo di aver dormito ancora su un letto senza lenzuola, perché non c'erano soldi per comprarle e quelle della misera dote della mia mamma si erano consumate per farci le fasce da neonati.
I nostri vestiti, i miei e quelli dei miei fratelli, erano rammendati e lisi. Quando suor Violante, che ben conosceva il nostro stato di indigenza, mi invitava ad entrare nel convento per darmi degli abiti smessi dalle malate del manicomio, correvo felice a casa e mostravo a tutti il mio tesoro.
Il papà indossava calzoni pieni di pezze sul sedere e sulle ginocchia; chi lo guardava non avrebbe riconosciuto il colore originale della stoffa dei suoi indumenti.
Quando usciva vestito in quel modo, per andare nell'ortaglia, ci veniva da ridere, ma era un riso amaro, bagnato di lacrime.
Il papà e la mamma parlavano poco, ma si amavano. Lei aveva accettato la povertà del nostro vivere come un dovere da portare avanti con rispetto. Con lo stesso sentimento ritagliava dagli stracci le pezze da cucire sui calzoni di suo marito perché ben sapeva quali, per lui, fossero i veri valori della vita.
Io ero abbastanza grande e avrei potuto capire, e se intesi qualcosa non bastò a comprendere quanto lui facesse per la Resistenza.
Papà riceveva dei giornali, fogli di carta arrotolata ma non li teneva in casa, io lo vedevo allontanarsi nel campo, poi seppi che li nascondeva in una buca sotto la terra dell'ortaglia.
Una volta qualcuno gli consegnò un rotolo di banconote. Di fronte a tanto denaro mi spaventai e non trovai il coraggio di chiedere di chi fosse e a cosa servisse.
La sera, quando noi andavamo a letto, lui rimaneva sveglio e al lume di una candela leggeva i libri e giornali che gli lasciavano in prestito.
Il papà aveva frequentato la scuola, ma solo fino alla terza elementare, era nato nel 1903 e a quei tempi i poveri contadini non avevano di che ben sperare per il loro futuro.
Nel 1921 entrò nel partito Comunista e a Mompiano tutti sapevano quale fosse la sua fede politica.
La mamma mi raccontava che più di una volta, nel periodo in cui il fascismo faceva la sua ascesa al potere, lui era dovuto scappare e trovare rifugio in qualche fienile o su, in Margherita, nel folto dei boschi, per non essere arrestato, picchiato o purgato con l'olio di ricino.
Il giorno che arrivai in casa con la divisa di giovane italiana, il papà andò su tutte le furie, non l'avevo mai visto così arrabbiato, mi tolse dalle mani quell'abito ancora ben piegato e lo fece a pezzi.
Ricordo d'aver raccontato una grossa bugia alla maestra, diedi la colpa dell'accaduto al cane, che per gioco e per mia distrazione, si era messo tra i denti la divisa e l'aveva strappata.
La maestra non fece commenti.
Il mio papà e la mia mamma si sposarono nel 1928, il loro fu un matrimonio sotto sorveglianza.
I due sposi, con i rispettivi testimoni e genitori, raggiunsero Salò scortati dai carabinieri che li seguirono anche nella traversata in barca e nell'osteria in cui consumarono un povero pranzo di nozze.
Erano tempi difficili, gli antifascisti sapevano di rischiare la vita. Le sue idee politiche lui le aveva maturate leggendo gli scritti di Marx e di Gramsci nei libri che riceveva in prestito dai compagni della casa del popolo e da don Decca.
Il comunismo lui ce l'aveva nel cuore e credeva in un mondo di uguali, in cui le terre dei ricchi sarebbero state divise tra i poveri.
Il mio papà aveva un grande cuore!
Se ripenso agli anni della Resistenza, ricordo quando di sera, sempre col buio, degli uomini bussavano alla nostra porta. Papà apriva e ci diceva di stare tranquilli che erano solo amici con i quali avrebbe scambiato due parole, fuori, all'aperto.
Gli incontri, le consegne del materiale per i partigiani avvenivano sempre in quel modo.
La mamma forse era al corrente di ogni azione, ma fingeva di non sapere e in silenzio dava il suo appoggio.
Il mio papà, e questo lo so per certo, non sparò mai un colpo d'arma da fuoco, non ne sarebbe stato capace, ma di sicuro il suo lavoro nella Resistenza fu molto importante.
A Mompiano fu nominato rappresentante del Comitato di Liberazione Nazionale.
Quando finì la guerra e i Tedeschi lasciarono la sede del comando nel convento delle Ancelle della Carità, lui dovette coordinare i lavori di sgombero.
Distribuì alle famiglie dei reduci il mobilio: letti, tavoli, armadi, rotoli di stoffa e, pur conoscendo la nostra povertà, non portò a casa nulla.
Nella sua camera, il letto matrimoniale era zoppo di una gamba, ma per lui c'era sempre chi stava peggio di noi.
Questo era mio padre: un uomo generoso e onesto!


Gianni Ortolà coltivava la sua ortaglia e la fede di un compagno che credeva nella libertà e nell'uguaglianza con serena umiltà. In casa non avevamo che pochi mobili tarlati, eppure, povero com'era, aveva sempre qualcosa da dare a chi, diceva lui, "era più povero" e rinunciava alla sua fondina di minestra per sfamare chi non aveva neppure quella.
Crescendo, ho compreso tante cose e l'amore per il mio papà è diventato sempre più grande.
Io ricordo l'uomo, il padre, il partigiano e la sua fede comunista, con il sentimento del cuore e con le parole di Palmiro Togliatti che ha voluto scritte sulla sua tomba:
Voi accumulerete i soprusi, le sofferenze per il popolo, ma siatene sicuri, la marcia in avanti dei lavoratori italiani, degli operai e dei contadini verso la conquista della loro libertà, voi non potrete impedirla.

NADIA CAMPANELLI

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