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domenica 17 gennaio 2016

"PAURA DI PERDERSI" di Susan Moore

PAURA DI PERDERSI

Provò a spiegarsi, con la sua amica provò a spiegarsi anche se non era facile.
Spogliò la sua anima:
“Non so se tu l’abbia mai provato la paura di perderti.
Provo a spiegarti cosa vuol dire per me. 
Mia madre era povera. 
No, non nel senso che non poteva comprarsi un vestito o fare una vacanza: questa è la povertà che intendiamo noi, oggi. 
Mia madre nacque e crebbe in una lontana Provincia dell’Impero. 
Lo è ancora oggi, ma pare se la passino meglio. 
Non ricordava esattamente quanti fratelli e sorelle fossero: i nonni erano piuttosto prolifici e dai racconti pare fossero sei, forse sette fratelli e sorelle, lei ne ricordava solo alcuni. Compresi quelli morti. I sopravvissuti sono arrivati sino a me, ma questa è un’altra parte della mia storia. 
Non so dove vivessero. 
I racconti erano talmente confusi che, una volta arrivata nel Paese della lontana Provincia dell’Impero, non ho trovato la casa: dai suoi racconti non capii dove fosse. 
Mi raccontava che era fredda d’inverno, talmente fredda che sui vetri si formavano i cristalli di ghiaccio.
Diceva che le porte erano basse-
Mi narrava di suo nonno, talmente alto da doversi abbassare per passare da una stanza all’altra, ma in realtà, io non so quanto fosse alto. 
I miei nonni avevano dei nomi letterari: Paolo e Virginia. 
Ne conservo qualche foto fatta con lo sfondo di un lago artificiale che ancora esiste: vedo mia mamma giovane e bella, vestita con un abito scuro a piccoli pois.
I pois sono quasi una mia ossessione. 
Andava a scuola, ma non so quale: ricordava di aver fatto la sesta quando a Milano ci si fermava alla quinta elementare. 
A colazione: polenta e latte. 
La scuola. 
I campi. 
In alternativa, a prendere le foglie di gelso per i bruchi dei bachi da seta.
I CAMPI….
Mia madre non capiva la mia volontà di gioco, la mia leggerezza di bambina: lei non lo era stata. 
I suoi giochi erano rubati al lavoro, fatti di gessetti per terra e di risa quasi colpevoli. 
Faceva buio presto nella lontana Provincia dell’Impero: cena con polenta e qualcosa. 
Polenta sempre, il resto forse. 
Natale pare arrivasse anche da quelle parti e si usava mettere gli zoccoli (sì, gli zoccoli, mia madre conobbe le scarpe solo molto più tardi) sul camino per attendere qualche dono. 
Nella notte qualcuno lasciava “un mandarin e due coculis”, un mandarino e due noci: le bambine sarebbero state felici. 
Felici di così poca cosa.
Quella fu la sua infanzia fino a tredici anni. 
Nel 1935, fu messa su un treno. 
Non ho mai saputo se abbia pianto o no: non me l’ha mai detto. 
Dalla lontana Provincia dell’Impero, dove ancora oggi si parla in modo strano, salì su un treno che si fermò a Napoli. 
La bambina di tredici anni diventò una bambinaia. 
La trasformazione sta nelle parole: da bambina a bambinaia. 
La mia mamma non fu mai più bambina.
Andò a servizio da una SIGNORA (lo scrivo così perché la mamma parlava in maiuscolo delle sue SIGNORE) che veniva da un’altra Provincia dell’Impero, solo un poco più a sud. 
A differenza di mia madre, lei era ricca e aveva due bambini: due bambini veri, di quelli che giocavano e strillavano e facevano i capricci. 
Serviva una bambinaia giovane e forte. 
Quella bambinetta di tredici anni non era né particolarmente forte né particolarmente sana e per di più non la capiva quando parlava.
Scoprì che esistevano anche delle punizioni: in ginocchio sui ceci se non capiva. 
Lavorando, mia mamma cominciò a mangiare e ne aveva tanto bisogno. 
Accettare tutto è facile quando devi sopravvivere. 
E’ una legge universale: mia mamma lo capì alla svelta. 
Guardo le foto della sua trasformazione: appena arrivata a Napoli, si vede una bambina smunta e frastornata, dopo pochi mesi il suo viso si trasforma quasi in una luna e la vedo sorridere mentre abbraccia dei bambini sconosciuti. 
Partì da Napoli, qualche anno dopo e diversi chili in più. 
Si diresse verso Milano.
Era una tappa di avvicinamento verso la lontana Provincia dell’Impero da cui era partita. 
Sarebbe stata la sua casa per sempre.
Il suo desiderio di tornare rimase per tutto il tempo in cui me la ricordo.
Non ci riuscì.
Io ho paura della fame, degli zoccoli, dei ceci, della sopraffazione dei bisognosi: oggi come ieri e penso che l’avrò per sempre. 
E’ una paura che non perdi mai, fa parte del tuo patrimonio genetico: sai da dove sei arrivato e sai che lì potresti tornare. 
La Storia è fatta di corsi e di ricorsi, non solo quella ufficiale, anche quella dei singoli: mia madre mi ha insegnato a stare attenta ed a lottare per non cadere nell’inferno da dove lei era venuta.”
Il racconto finì in un singhiozzo.
Era lei che era tornata bambina.
Poteva rinascere

SUSAN MOORE

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