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giovedì 26 marzo 2015

"NON CHIEDERMI PERCHÈ"
di Valentina Bellucci
Non chiedermi perché.
Quando ti ho sorriso.
Quando l’infinito era dentro di me.
Non chiedermi perché.
Quando il mio sguardo si è posato su di te e i tuoi occhi si sono accesi.
Quando la tua mano colse il fiore e lo posò sulla mia chioma.
Quando il vento e il sole erano le uniche nostre compagnie.
Non chiedermi perché.
Quando la pioggia ha iniziato a cadere.
Quando il mio sorriso si è spento.
Io non ho mai sorriso.
La tua mano non ha mai colto la rosa nel prato.
Non chiedermi perché.
Quando l’infinito era diventato solo una parola persa nel vuoto.
Quando ormai il fango aveva macchiato il sentiero.
Quando io iniziai a ridere e le lacrime cominciarono a sgorgarmi dagli occhi.
Quando capii che era pura illusione.
Non chiedermi perché.
Tu non vedesti le mie lacrime.
Ma sentisti le mie risa.
Non chiedermi dove sono.
Non ci sarò.
Non chiedermi perché.
Oggi è tardi.
E stanotte le stelle mi faranno compagnia.
"PASSEGGIATE POMERIDIANE"
di Giovanna Adamo

Avanzano i nostri passi sulla lunga strada grigia
Dolce il sentiero illuminato dal sole
Tutto è piccolo in te tranne gli occhi
Immenso il tuo sorriso alla scoperta del mondo
"IL TUO VERO NOME ANDREBBE RICORDATO" di Silvia Tortiglione
Il tuo vero nome andrebbe ricordato
nel cammino furente del cielo, mentre
le lacrime divengono parte di un suono
che tende e si frena e impera e cade,
cade sui rami della Selva Silvana
che danza, traendo inaudita forza
dalle braccia e dal bel petto.
Quando il buon luglio riposa e segue
la mesta stagione, il coro del bosco
ancora mi spinge all’armonia delle fronde
che generarono il volto della sola creatura
la cui bocca tenne alto il sentimento
- Santa ombra, ti rendo grazie per aver
generato la rossa bocca che vedo sorridere
e gridare nel pianto all’aurora.
Dunque contro il tuo nome avrei potuto
gettare il disastro di una vita che si perde
come i frammenti del vaso greco nel corso
della memoria; avrei potuto porgere al tuo nome
le illusioni che galoppano con il moto della sera,
schiene di vetro e riccioli viola.
Il tuo nome che era sacro alla nebbia, lo si vede
inciso sulle palpebre degli uomini, lo si sente
nel ricordo della giovinezza, lo si gusta
al mezzo dell’eterno e del dolore,
in quel piano dove ora riposo:
un grido m’alza il petto, il grido del reale.
E ti chiamai Navalis
per non morire
al tocco di un nome
che ha suono di rugiada.

"LAMPI DI GIUDA" di Maria Francesca Consiglio



Lampi di Giuda.

Tuonò con luce d'angosce arcane
e piovvero lame di metallo sulla pelle,
suonarono del cuor a morte le campane
e da quel ciel tristo non fiorirono mai più stelle.


Tuonò rimbombando con echi di grida perdute
e piovvero sulla mia coscienza le altrui pene,
goccia dopo goccia scolorì dalla mente la salute
che ancor fatico a distinguere il male dal bene.

Tuonò e piovve ma non fu un dì lontano
come amo traditore alla carne si conficcò,
di quel faro diroccato sol io rimango guardiano
e più nessuno sulla salmastra mia anima attraccò.

MARIA FRANCESCA CONSIGLIO

"NON E' UN FOGLIO DI CARTA" di Viola Aleramo




Non è un foglio di carta


Non è un Foglio di carta ,
quello che Ho fra le Mani,
stasera.

Ma un vaso di Miele
Urgente e Spietato
Che inghiotte
Le mie Reticenze

E mentre Tu
aspetti
Le mie Mosse
Io ti scruto!

E fra i dettagli
scopro il fuoco
del tuo
sguardo Straniero

Non è una Canzone D'amore
quella che Trema
nella Mia Bocca
a caccia
di un Punto qualsiasi
Della Tua Pelle

E' Grazia Terrena..
Dorata.
Intensità Cruciale e
Inammissibile.

VIOLA ALERAMO

DENTRO AL GIOCO di Mary Skellington Greenwood

"Donne si raccontano"

DENTRO AL GIOCO

Nelle sue immense passeggiate per la città, i suoi occhi si sono posati più di una volta sui manifesti che tappezzano i muri e sui volantini nei caffè, che pubblicizzano l’evento di un ballo.
Un ballo in maschera. Normale amministrazione per lei, che adora mascherarsi a cose normali anche per andare a comprare il pane. Il suo modo di essere sicuramente la esalta, con la sua innata eleganza e il suo fine portamento, ma il modo di conciare il suo aspetto, sicuramente se da un lato la valorizza, dall’altro la penalizza. Le persone hanno paura di lei. E lei ne è contenta.
Così tiene gli esseri umani lontani da lei. Quando si è soli, niente può ferirci. Decide di affrontare il marasma che odia tanto, ma in cui alla fine si ritrova sempre, prendendo parte all’evento, indossando uno dei suoi vestiti migliori: un vestito che arriva poco sopra al ginocchio interamente ricamato in finissimo pizzo nero, molto elegante, con sottoveste di raso nero; sotto la gonna sono presenti vari strati di tulle che conferiscono all’indumento, un’ampiezza quasi regale; in vita una cintura alta in pvc stringe il torace, con nastri di raso nero perfettamente infiocchettati in egual modo; al collo una gorgiera nera, in raso; copri spalle di pizzo nero; ai piedi un paio di scarpe tacco quindici, nere, in pizzo e simil camoscio. Le gambe sono lasciate nude. Il viso, perfettamente impallidito, mostra due occhi grigi truccati con eccessivo ombretto nero, ai cui lati sono stati applicati dei gioielli adesivi, a simboleggiare lacrime. I capelli sono raccolti in due code sbarazzine, chiuse con dei nastri di raso neri, a fiocco. Le mani, accuratamente agghindate con anelli d’argento, mettono in mostra le unghie smaltate di nero e sorreggono un ombrellino di pizzo, della stessa fantasia del vestito, in abbinato. Al Centro Divertimento Virtuale, tutto è pronto per dare inizio alle danze. L’ambientazione ricreata, vuol essere decisamente spettrale, in parte riuscita, in parte per chi l’orrore lo vive ogni giorno, può risultare semplicemente simpatica.
Percorre il lungo corridoio che dall’ingresso conduce alla massiccia porta del salone, con eleganza, fluttuando.
Fa il suo ingresso nel salone, sempre con la solita eleganza innata e la testa alta, come le è stato insegnato dalla mamma quando era piccola. Eleganza, educazione e perfezione sono i lascia passare per una donna. Cresciuta così, nel ghiaccio e nell’orrore. Lei che l’orrore lo conosce bene, tutte quelle decorazione, la fanno quasi sorridere, un sorriso evidentemente sforzato, che fatica a disegnarsi sul suo volto. Gli occhi grigi si posano prima sul tavolo del buffet, dov’è presente ogni tipo di cibo immaginabile, e che, detto tra noi, lei non pensava di trovarvi. Queste feste finiscono sempre in catastrofe e vengono decisamente organizzate alla buona, ma questa, almeno apparentemente, sembra riuscita. Gli strani personaggi travestiti da zombie e da sexy streghette, non la toccano minimamente, come ogni cosa, intorno a lei. E non parla nella fattispecie della serata. In generale. Sa chi ha organizzato tutto questo. Ma non ci pensa. Scaccia.
E tutto quello che fa è essere importunata da uno degli addetti al “contatto con la clientela” che le sobbalza innanzi domandando
Dolcetto o scherzetto?
“Dolcetto va..” dice “Vomitando verde bile di continuo, anche la mia gola si è stufata dell’amaro..” e attende il tipo che armeggi nella sua tasca, per poi offrirle una caramella. Ah, tutto qui? La sua attenzione viene attirata dal quartetto d’archi. L’hanno sempre affascinata gli strumenti a corda. E dopo aver preso la pallina di zucchero e salutato educatamente con un “Buon lavoro e buona serata” lo zombie, si dirige in prossimità dei quattro. Nei pressi del quartetto, i suoi occhi si posano sugli strumenti e la mente fantastica sull’armonia con la quale quelle dita pizzichino le corde. Con quanta maestria gli archetti vengono utilizzati per far uscire note dal legno.

Tornata nuovamente sulla terra, i suoi occhi scrutano ogni vicino, ogni passante. Sia mai il caso che le baleni in testa l’idea di essere cordiale, oltre che glaciale come al solito. Magari un sorriso.
Magari un cenno col capo. L’atmosfera è cupa, dovuta al drappo che scende dal lampadario, che crea un’atmosfera decisamente più lugubre, adatta al luogo. Ad un tratto le luci si spengono e lei rimane lì, eretta, sui suoi tacchi, impassibile, solo quando un urlo echeggia all’interno del salone, con eco, osa un “Ma che diav..”.
Al buio non può vedere nessuno, può sentire soltanto ansia dentro di se e lo percepisce da come, con medio e pollice della mano sinistra, rigira tre volte da un lato e tre dall’altro, l’anello che porta all’indice. Le solite tre volte che ritornano, quando la sua lieve schizofrenia le fa visita. Ad un tratto le luci si posano su un tizio vestito da diavolo su di un palchetto che fa gli onori di casa, augurando una buona serata, ringraziando gli organizzatori dell’evento e invitandoli a dire qualche parola. Gary. Ecco come ti chiami. E’ bello poter dare un nome ad una faccia. E guarda lui e la sua compagna d’organizzazione. Sono belli entrambi. Non c’è che dire. Ascolta il dire di lui, senza poco interesse. Sono le solite frasi di circostanza che si dicono. Grazie di qui, grazie di là, siete fantastici. Smancerie varie. Non si è certo inventato niente di nuovo. Prima che il diavolo ceda il palchetto a chi di dovere, un malaugurio. O un avvertimento. Sta di fatto che Demetra, la testa, l’ha già persa. Molti anni fa.
Con la solita eleganza si fa largo tra la folla, tra occhi che la guardano incuriositi, chi meravigliati e lei, promettendosi di fare la brava, cerca di sorridere. O di far uscir fuori delle smorfie che sembrino tali. Gente che balla, gente che beve, gli organizzatori che ballano guardandosi con gli occhi a cuoricino, gente che si abbraccia. Potrebbe vomitare. E’ stata innamorata, una volta. Una sola. Morgan. Si, l’unico essere umano di cui le sia mai veramente importato qualcosa. L’unica che abbia amato. L’unica che l’ha fatta piangere, ridere, scovare dentro di se ogni più nascosto desiderio e impulso. L’unica che si sia presa la briga di starle dietro quando non le era assolutamente dovuto niente. L’unica che l’ha presa sotto la sua ala e se l’è cresciuta, coccolata, annusata. Incisa. Sul cuore. Nell’anima. Sulla pelle. Nelle vene scorrendo come vino ai banchetti romani di un tempo. L’amore. Forse non esiste. Forse è raro. Forse è un’enorme puttanata. Lei non ci crede più. Il gioco, la malizia, come la timidezza e la gentilezza, per lei sono virtù. Virtù che stanno scomparendo. Non c’è corteggiamento, non c’è il dolce ammaliare degli sguardi e delle parole, non c’è più niente di tutto quello che renda galante anche se perverso l’approccio. Ci si limita oggigiorno a fare una scelta come sugli scaffali del supermercato tra ciò che è più conveniente o meno, prenderlo, aprirlo, sbatterlo e buttare via l’involucro. Niente di più disgustoso. Anche se si butta via l’involucro e il fine è sempre quello, è bello poter ricordare alla latta dei pomodori pelati quanto siano stati buoni sulla pasta oggi a pranzo, di quanto succoso fosse il loro sugo, di quanto gustoso fosse il loro sapore. Ma gli esseri umani amano circondarsi di futilità, piuttosto che di cose importanti. Amano farsi prendere dal panico quando qualcosa finisce, di modo da poter provocare compassione o da avere di che parlare. Mentre lei se le fa scivolare addosso. Ricorda, ma non parla. Non si sa niente di lei. Per il semplice fatto che non racconta i cazzi suoi. Wilde diceva che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli. Lei dice che più stai zitto, meno la gente può occuparsi dei cazzi tuoi. Il che sarebbe un bene, dato che chiunque ha una caterva di cazzi suoi di cui occuparsi. L’essere umano ama tantissimo occuparsi dei fatti altrui perché i propri gli fanno schifo ed è molto più semplice dare aria alla bocca. Difatti dovrebbero essere cucite. E interamente bagnate nell’acido. Segue invece un gruppo di persone che si dirigono verso un’altra stanza, che conduce a quello che dovrebbe essere una specie di Tunnel del terrore. Classico. Doveva esserci qualcosa del genere. E fluttuando sui suoi alti tacchi, si mette in coda per entrare a far parte di fortunati che scenderanno per la galleria.
Una risata e le indicazioni sul da farsi. Poi il silenzio. E muovendo piccoli passi, anche se decisi, tenta di cercare un appiglio. Una parete. Un collo. Una testa.
Cercando un appiglio umano o no al quale aggrapparsi, la gotica, ancora eretta per poco su quei tacchi alti, sembra quasi averne abbastanza. Era molto meglio rimanere a casa. Evitare visioni, evitare ansie, evitare punto. La prossima volta ci penserà su due volte prima di agghindarsi per un qualcosa di “sociale” che non fa per lei. Ma temeraria e testarda, non torna indietro, ma prosegue.
Prosegue avvicinandosi ad una parete, sorreggendosi ad essa, dato il buio che non le fa praticamente vedere niente di quello che c’è intorno. Movimenti strani, rumori sinistri e animaletti (spera finti) che volteggiano sopra la sua testa. Decisamente una serata inaspettata. Qualche gridolino, qualche simpatico lavoratore che per l’occasione è stato pagato per spaventare loro, comuni mortali, qualche passo falso. Già, un piede messo male che finisce per aprire un qualcosa sotto di lei che le permette di finire in un buco contenente una gelatina strana che non emana certo profumo di violetta di montagna. “Ma porca puttana” impreca “Ok che era una serata di merda, ma questo mi sembra un po’ troppo..” sclera. E la sua educazione, eleganza e portamento se vanno a farsi fottere insieme alla delicatezza della sua voce, che stasera sembra decisamente incazzata. “Qualche maschione può posare vassoi di dolcetti o champagne che non interessano a nessuno e venire a tirarmi fuori di qui?” chiede, senza sapere che il suo passo falso ha aperto altre botole nelle quali finiscono anche gli altri che avevano scelto la stanza del tunnel della morte.
“Ok, farò da sola.. come sempre”. L’ombrellino viene infilato nella cintura di pelle in vita, in un incastro quasi perfetto e facendosi forza sulle esili braccia, ma abbastanza da potersi dare slancio, evade da quel buco. Il suo bel vestito è decisamente in pessime condizioni. Se la vedesse sua madre le direbbe “Te l’avevo detto Demetra di non divertirti, ora il tuo bel vestito è da portare in tintoria”. “Oh, stai zitta strega..” dice a voce alta, riferendosi ovviamente al pensiero della madre.
Una volta fuori dal buco e ammirando il nero pizzo pieno di gelatina verde, può solo immaginare che il suo viso sia dello stesso colore e che il vomito di parole e bile cui vorrebbe dedicare alcune persone, sia altrettanto verde. Verde vendetta. Verde rabbia. Verde. E si avvia, scavalcando qualcuno, verso l’uscita di quel posto da incubo.


Mary Skellington Greenwood

MIO ANGELO di Vitore Gudaj

Donne si Raccontano

Mio ANGELO

Ci sarà una nuova stagione
sceglierai quale ti piace di più
una luce nei tuoi occhi
quando mi penserai di più.

Un Amore che tu stai cercando
nelle parole lo troverai
sono sicuro che prendere un altro volo
un nuovo stagione per te arriverà

Abbandona la tua tristezza
lascia libera la tua anima
volare non chiede forza
ma la tua liberta.

Mentre che la parola si scontra con le mie lacrime
anche io piango per la tua felicita.
Vitore Gudaj