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domenica 2 agosto 2015

"SE NEGLI OCCHI DI UN GATTO...", di Denis O'Connor. (Recensione di Tiziana Meraglia)



“Se negli occhi di un gatto…”, titolo originale “ Paw Tracks in Owl Cottage”, edito nel 2010 e distribuito in Italia da De Agostini, è il secondo romanzo di Denis O’Connor, sequel di “Se una notte d’inverno un gatto…”.
I legami, quelli veri e profondi, non si spezzano. Vanno oltre la malattia. Oltre la morte.
È il ricordo che li tiene saldi, come anelli uniti di una stessa catena.
È il ricordo che, se da un lato crea un filo invisibile con chi non c’è più, facendolo sentire ancora presente e placando, in parte, il dolore per la perdita, dall’altro strugge e fa dannare perché il passato non potrà tornare. Quello che è stato non sarà più.
Non importa che si tratti di una persona o un animale, quando è immenso l’amore che si è ricevuto.
È stata questa la ragione per cui Denis, per tanti anni, ha preferito stare lontano da Owl Cottage, la villetta collocata nella campagna del Northumberland che ha fatto da sfondo alle vicende di Toby Jug, lo straordinario felino che per 12 anni fu il suo compagno più fidato ed il cui spirito sente ancora echeggiare nell’aria.
Nel corso della narrazione, non solo l’autore lo cita continuamente, ma riporta addirittura episodi che lo videro protagonista e che erano stati omessi nel primo romanzo.
Ma la vita va avanti. Nonostante tutto. Il dolore si affronta: non sparisce, ma ci si può convivere.
Pur non dimenticando il profondo affetto che lo legò in giovane età a Toby Jug, Denis prende coraggio, ha voglia di ricomiciare e capisce che solo con un gatto non ci si sente mai soli. Ma davvero uno gli può bastare?
I main coon Pablo, Carlos, Luis e Max, con i loro caratteri tanto diversi, allieteranno la vostra lettura, proprio come hanno rallegrato le giornate di Denis.
Il romanzo è un tripudio di sentimenti puri, di dolcezza, di introspezioni e di spiegazioni sulla psicologia felina.

“Una volta scalfiti il distacco e l’introversione propri del loro carattere, grazie a un affetto e a un’attenzione incondizionati e costanti, saranno vostri per la vita. A queste condizioni, vi inonderanno di affetto e vi dedicheranno il più raro dei sentimenti: un attaccamento devoto […] chi ama i gatti deve sapere che l’amore e la lealtà dei felini si conquistano solo con uno sforzo continuo e non senza difficoltà: non basta loro offrire semplicemente una casa”.

Non mancano, purtroppo, le scene tristi che attanagliano il cuore e che riempiono gli occhi di lacrime.

“Lo abbiamo sistemato su un cuscino posato sul tavolo, in mezzo a noi, e Pablo ha fatto le fusa per tutta la mattina mentre lo accarezzavamo parlandogli amorevolmente. Fantasmi degli ultimi momenti di vita di Toby Jug mi hanno investito come un incubo già vissuto quando lo abbiamo messo nel trasportino per il suo ultimo viaggio […] Max e Luis intanto miagolavano e piangevano davanti alla porta del soggiorno, così alla fine li abbiamo lasciati entrare. Mi ha commosso la sollecitudine nei confronti di Pablo […]”.
Quando ho chiuso libro, dopo aver letto l’ultima pagina, un concetto, in particolare, mi è rimasto in mente: la conferma che i sentimenti non appartengano solo all’uomo. I nostri amici a quattro zampe sanno dare tantissimo, pur senza esprimersi come noi. Il linguaggio dell’amore è universale. Impariamo solo ad ascoltarli. Saranno degli ottimi insegnanti.

Ringrazio Hermes per la gentile concessione della foto.

Tiziana Meraglia

sabato 27 giugno 2015

Sola con te in un futuro aprile, recensione di Sabrina Carli


Recensione di <<Sola con te in un futuro aprile>> di Margherita Asta e Michela Guargiulo.
Ho appena finito di leggere tutt'un fiato questo libro dalle forti emozioni, il racconto in prima persona di una bambina che diventa grande troppo presto.
La mafia vista con gli occhi di una bambina di appena 10 anni che da scuola viene riaccompagnata a casa, dove con le parole di una mamma, ma che mamma non è, zia Vita, dice alla piccola Margherita, che sua madre Barbara Rizzo e i suoi fratellini Salvatore e Giuseppe non ci sono più...
La loro auto ha fatto scudo a quella del giudice Carlo Palermo a cui era indirizzata l'autobomba.
Da quel momento tutto cambia...
In questo libro sono raccontati trentanni di vita, i primi anni dove lei e il padre all'inizio distanti, col tempo imparano e farsi forza a vicenda, la fortuna di aver poi accanto una persona come Antonina che con intelligenza entra nelle loro vite ma senza mai sostituirsi alla madre e alla prima moglie, ma semplicemente amandoli entrambi e riportando un po' di gioia in casa con la nascita di SalvatoreGiuseppe.
Nel raccontare la sua vita, Margherita Asta, non tralascia le fasi dei due processi; il primo dove i colpevoli vengono assolti,, ma che nel secondo costituito dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio che ora risultano collegati con l'attentato di Pizzolungo di sua madre e dei suoi fratelli, riesce ad avere esito positivo. 
Tra un processo e l'altro, conosce Don Ciotti e l'associazione Libera, un uomo e un'associazione che le cambieranno la vita, arricchendo lei, e tutti quelli che come me sceglieranno di leggere questo libro. La parte finale è molto emozionante, l'autrice racconta con il cuore(come in tutto il libro), ma con un cuore sereno, un cuore che vuole raccontare al mondo le sue cicatrici e condividerle con chi ha il cuore ferito come il suo, e anche con chi il cuore l'ha chiuso... a loro io consiglio questo libro!

lunedì 22 giugno 2015

"Il deserto dei Tartari", recensione di Gianna di Carlo

Giorni fa, nel fare un po' di ordine, nella mia libreria che sta letteralmente scoppiando....cade ai miei piedi..un libro..consumato dal tempo...quasi a voler attirare la mia attenzione poiché era restato, per anni, in un cantuccio, solitario, dimenticato, abbandonato. Lo raccolgo, lo guardo e mi attrae ancora come quando, tanto tempo fa, lo lessi. Inizialmente, con reticenza, poiché la narrazione è molto lenta, senza grossi colpi di scena che possano attrarre il lettore, poi sempre più coinvolta. Diciamo che mi sento un po' in colpa ad averlo trascurato e lasciato a prender polvere per troppo tempo. Questa mia dimenticanza l'ho collegata alla tematica fondamentale dell'autore, Dino Buzzati, ossia "un'attesa di eventi". 
Il libro è il "Deserto dei Tartari". Dal quale emerge, con chiarezza, la tematica dello scrittore: la debolezza umana con le sue paure, l'angoscia della solitudine, la caducità della vita, lo scorrere del tempo. Lo spunto del libro venne a Buzzati, come egli stesso scrisse, dalla sua monotona routine di redattore presso il "Corriere della Sera". Ed è proprio la medesima monotonia che caratterizza la sorte del protagonista..."l'ufficiale Giovanni Drago parti' una mattina di settembre per raggiungere la Fortezza Bastiani..." un borghese qualsiasi, quindi, che parte in un giorno qualunque, in qualità di Tenente, per una fortezza di confine. Tutto normale, quindi,ben presto, tuttavia, una sottile angoscia pervade l'animo del giovane ufficiale il quale, fin dal primo momento, intuisce quale sia la condizione della sua vita futura. Il lacerante distacco dalla famiglia, l'isolamento, le difficoltà ambientali, il senso della vita che gli sfugge sono sottineati dal rapido, inesorabile, crudele trascorrere del tempo. Quel tempo, che non permette all'uomo di riflettere, porta il tenente Drogo ad accumulare gli anni nella solitudine di una fortezza, fra un arido e desolato paesaggio. Un cavallo apparso all'improvviso a rievocare antiche storie di Tartari, di invasioni e di battaglie, una misteriosa nebbia, ombre scure che si allungano dietro il crepuscolo...e, nell'attesa di un episodio di gloria, di un improvviso attacco dei Tartari, si consumano trent'anni di vita. Sull'impresa i soldati della guarnigione puntano tutto il futuro della loro carriera ma, a poco a poco, tutti i personaggi sembrano ridursi ad ombre assorbiti in quell'arido paesaggio. Un paesaggio che, nel libro, assurge a presenza predominante ed allusiva, simbolo muto di quella malattia che è l'attesa. Qualcuno, alla guarnigione, continua a percepire luci misteriose nella notte e, nella speranza che qualcosa accada, invecchia e muore, così come morirà Drago; non di una morte gloriosa ma completamente anonima sul letto di una locanda. La storia è una chiara ed evidente simbogia esistenziale: la solitudine, il tempo che passa..nell'inutilita' dell'esistenza. L'attesa e la rinuncia rappresentano, quindi, i temi cardine del romanzo con un pessimismo esasperato ed una rassegnata accettazione che annichiliscono il lettore.
Gianna

martedì 16 giugno 2015

"Tra le pieghe delle parole", recensione di Lisa Molaro



Titolo: Tra le pieghe delle parole
Autore: Gian Luigi Beccaria

Leggere questo libro è stata un'avventura bellissima: mi sono sentita come una Indiana Jones con tanto di elmetto color caki in testa, invece di un coltello a serramanico in mano tenevo una matita e brandendola in aria spostavo liane fatte da parole in fila; ho camminato su sentieri storici fitti fitti di latino, greco, arabo, rumeno, catalano, spagnolo, francese, tedesco, olandese, russo, italiano ( piemontese, sardo, siciliano, calabrese, romano) e man mano che aprivo dei varchi mi ritrovavo in spiazzi semi liberi abitati da mestieri ( falegnami, contadini - questi ultimi erano molto diffusi nella mia foresta globale- fabbri, pittori) piuttosto che colori ( cosa c'è dietro il colore viola? perchè porterebbe male ? nero - bianco o bianco - nero, da dove arriva il colore blu? dai cavalli forse? chi ci ha fatto conoscere il frutto arancio?? ...ma i colori sono convenzionali ? quanti sono ?? per il mondo intero sono ovunque gli stessi? ),perché la statuetta dell'Oscar si chiama così?? Perché il cornetto del mattino ha la forma della mezzaluna? E mi ritrovo così in piazzole semi aperte con aiuole di cognomi, soprannomi, citta, proverbi e comparazioni, modi di dire dei pescatori e dei contadini, parole che si aggrappano strette strette a liane più forti...per sopravvivere..parole che si dipingono di insulto andando lontano dalle proprie origini, solo al fine di continuare ad uscir fuori dall'anonimato, pochi miglioramenite....tanti peggioramenti in questa nostra lingua........ops....nostra????


Da questo libro-foresta ne sono uscita sicuramente più ricca di prima; è stato bello leggerlo ad alta voce raccontando al mio compagno aneddoti di volta in volta diversi ed affascinanti; un esempio?? sandwich ( rietimologizzato in sanguis , per accostamento a sangue, per via della carne che imbottiva il panino ) prende il nome dall'uomo politico J. Montagu conte di Sandwich (+ 1792 ) appassionato di carte, il quale per non interrompere di giocare ( pare che una volta abbia passato al tavolo ventiquattr'ore di seguito ) si muniva di panini imbottiti che gli permettevano di nutrirsi tenendo con una mano il panino e con l'altra le carte!!!!!
Purtroppo non mi ricorderò di certo TUTTO quello che ho letto: desinenze, suffissi, radici...un mondo di roba.....ma potrò sempre riprenderlo in mano per andare a cercare una cosa piuttosto che un'altra ; classico libro da CHI VUOL ESSERE MILIONARIO!!!

Potrei andare avanti a riportare esempi letti.....uhhhh devo scrivere questo, ohhhh devo riportare quest'altro.....ma fate una cosa, siccome qui siamo tutti amanti delle parole messe in fila una dietro l'altra, fate una cosa...Leggetelo che merita!!!!!

giovedì 11 giugno 2015

Greta Vidal, recensione di Lisa Molaro



Greta Vidal.
Un romanzo storico ambientato in una Fiume infuocata e assediata dalla guerra, fermento guidato da un poeta che smuove masse composte da singoli 
La trama è resa preziosa da documentazioni reali dell'epoca che ci catapultano indietro in modo semplice e fluido.
Il battito di due cuori che si eleva sopra il battito di molti altri; speranza, ideali, confini di terra e confini d'amore
Greta ha diciotto anni, una famiglia lacerata e la passione per le poesie.
Greta è una sognatrice.
Tullio è un pilota d'aerei sopravvissuto ad una guerra che gli sterminato la famiglia.
Tullio è un giornalista che vuole partire alla ricerca di spiegazioni.
L'autrice, Antonella Sbuelz, ha nella realtà una voce delicata, quasi un tono sussurrato e tutta questa delicatezza traspare anche nel modo dolce che ha di narrare Storie difficili, storie ( in questo caso ) di guerra viva, vera, passionale e di narrarci un amore, una amore in lotta che forse avrà un finale positivo...o forse no!

Lisa Molaro

martedì 9 giugno 2015

"Canne al vento", recensione di Lisa Molaro



Titolo: Canne al vento
Autore: Maria Grazia Deledda

Questo libro è stato pubblicato nel 1913 dopo essersi, in precedenza, fatto conoscere grazie ad uscite a puntate allegate al giornale " L'illustrazione italiana"; romanzo deleddiano per eccellenza visto che si tratta del primo titolo che balza in mente quando si sente nominare questa fantastica (ma tremendamente concreta) scrittrice a cavallo tra due secoli passati da un po'.
Curioso come il titolo " Canne al vento" sia invece un rimando ad un romanzo da Lei scritto in precedenza (anno 1903, per la precisione) e abbia tratto spunto proprio da una citazione tratta dal libro: Elias Portolu :"Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne, pensaci bene. Al di sopra di noi c'è una forza che non possiamo vincere".

La tela su cui viene dipinto il romanzo è la brulla Sardegna, Galte per onor di precisazione, col suo caldo polveroso, le ombre che seguono i corpi in movimento... ma anche con le sue figure di femmine che, fuso alla mano, ricamano sedute fuori dalla porta di casa, i fiori rossi in cima al pozzo, le ossa bianche che, simili a margherite (citazione dal libro) luccicano al sole nel prato-cimitero, con l'acqua che mormora piano e si accompagna allo strisciare degli spiriti della notte, con i folletti e le panas (donne morte di parto), con le cipolle per companatico e con il profumo di gelsomini a far da sottofondo quasi musicale

Dal libro: "Efix cammina, piccolo e nero fra tanta grandiosità luminosa.
Il sole obliquo fa scintillare tutta la pianura; ogni giunco ha un filo d'argento, da ogni cespuglio di euforbia sale un grido d'uccello; ed ecco il cono verde e bianco del monte di galte solcato da ombre e da strisce di sole, e ai suoi piedi il paese che pare composto dei soli ruderi dell'antica città romana....."
Ed è tutto così, questo splendido romanzo, ti prende per mano e ti accompagna dolcemente in una terra antica che sa di sudore, di chiacchiere, di pettegolezzi, di dolore, di povertà e sofferenza, di detti popolari, credenze, religione, fede, calunnie ed imbrogli: tutto questo è la sardegna rurale del primo novecento.
I protagonisti di questa storia sono tanti: c'è il già citato Efix, come protagonista, servo della nobile famiglia Pintor e vicino a lui conosciamo chi ora vive con dignità d'animo nella stessa casa. le tre sorelle rimaste: Ruth, Noemi e Ester Pintor , tutti gli altri abitanti del Paese, Giacinto (il figlio della sorella ribelle) e l'ammaliata Grixenda...e Don Predu ....e via scrivendo sino alla fine del libro poichè in ogni pagina c'è un intreccio, un'inanellarsi di cuori, di mani, di sguardi, di paure e di riverenze.....

«Sì, siamo esattamente come le canne al vento. Noi siamo le canne e la sorte il vento». Ester: «Sì, va bene, ma perché questa sorte?» Efix: «E perché il vento? Solo Dio lo sa».

Canne, Vento... canne al vento 
Importante sapere che nelle tradizioni antiche le canne abbiano avuto un valore simbolico decisamente contrapposto: per la mitologia egiziana rappresentano la fecondità, e dunque sono inno di buon auspicio alla vita mentre nella mitologia greco-romana, collocandosi in luoghi paludosi, melmosi, stagnanti, sono associate alla sciagura, al regno degli inferi, alla morte.
Sui piatti della bilancia troviamo dunque da una parte la flessibiltà, la duttilità e il falso arrendersi al vento, doti necessarie per essere una persona dotta mentre nell'altro piatto troviamo mancanza di resistenza, di rigore, di stabilità ed è proprio questo che contribuirebbe a portare sfortuna ai proprietari di case limitrofe.

Vento come espressione del muoversi dell'anima attraverso il soffio divino
Canne al Vento, dunque ..corpi flessibili ma non con radici forti che ne ancorino la fisicità in maniera stabile, canne come persone che si illudono di domare i loro destini ma sono invece in balia del fato, di una folata di vento inattesa o di un'ora di calura statica che nulla muova e nulla stringe.


Lisa Molaro

domenica 7 giugno 2015

"La Madre" di G. Deledda. Recensione di Lisa Molaro


Quasi "un Due righe" ( delle mie ) per una trama spiccia, riservata e decisa….molte più parole mi sarebbero necessarie per raccontare il mondo non nascosto in un libro che più che romanzo definirei lunga novella.
Se volessi , per mia mano ma con stile deleddiano, rinominare questo romanzo lo chiamerei:
“Anima al vento”: anima perché tutto ruota attorno alla coscienza incapace di rimanere silente e cheta; tutto è timore e paura sotto ogni aspetto e da ogni prospettiva. La scrittrice spesso ci fà “ascoltare” i dialoghi di ognuno con se stesso permettendoci così di partecipare al punto di vista del diretto interessato che di volta in volta cambia.
Non c’è pace per un’anima chiusa in se stessa…la staticità falsa di una mancanza d’azione non nasconde l’apatia e la turbolenza delle persone inquiete, laddove non c’è azione concreta ci sono passi in giro per la stanza, cassetti aperti e richiusi solo per non star con le meni in mano…e fuga…fuga dalla madre, fuga dal paese…fuga da tutto nell’errata speranza di fuggire da sé stessi e dalla moralità!
Due le figure principali.: Paulo, il nuovo prete arrivato a riportare la parola di Dio in un paese quasi scomunicato e che è riuscito a far riaffiorare la fede; Paulo , che i suoi paesani considerano ora, uomo in odore di santità; Paulo, mito ed icona spirituale del piccolo e saggio Antioco…Paulo innamorato che sfida il Diavolo..
Maria Maddalena, la madre….che sorregge colla sua schiena il muro della Chiesa affinché continui a star ritta senza franare…ho adorato questa donna che la Deledda, con il suo stile realistico, ci descrive con un corpo bassotto e forte da popolana, “che pare ritagliato a colpi di scure dal tronco d’un rovere”; nel libro è significativa la metafora con il simbolo di forza per eccellenza, la montagna, che pure teme gli smottamenti …o la quercia, che pure teme lo sradicamento!
Un figlio che si vergogna di baciare le mani da serva della madre, ed una madre che cammina dietro il figlio per garantirgli la sua presenza retta: è così che iniziamo la lettura di questa storia, ma non è così che la terminiamo perché i ruoli possono ribaltarsi.
Tutto si svolge nell’arco temporale di un paio di giorni, ma il ripercorrere della propria vita, sia del figlio che della madre, ci rende pesante (non per il diletto della lettura) la riflessione personale; ci ritroviamo innanzi ad una serva Della chiesa ( letteralmente ) che, tipico dell’epoca, per garantire al figlio una posizione sociale migliore lo indirizza a divenire Servo di Dio …..ma poi dinanzi a certi fatti le certezze crollano e la sua stessa fede s’incrina, e sarà l’ingenuità e la fede di un bambino ad aiutarla nel cammino.
Figura secondaria, ma non per rilevanza, Agnese..che incarna la tentazione, il desiderio, la lotta, la rinuncia …a cosa? All’Amore o alla Chiesa? Di lei sentiamo parlare, impariamo a temerla, da lei fuggiamo…ma solo verso la fine realmente la incontriamo …e diveniamo partecipi di un tormentato e angosciante incontro fatto di tenerezza e rabbia insieme….che non può non avere conseguenze!
Chiudiamo il libro con amarezza e tristezza….ma il perché non è scontato e non posso di certo rivelarlo!
Da parte mia, comunque, protagonista assoluta Maria Maddalena, la Madre con la M maiuscola!!!!!
Lisa Molaro

sabato 6 giugno 2015

"ACCANTO A TE", di Giada Alessia Lugli

STRALCIO.

L‟ultima volta che sono andata a un colloquio non trovavo il numero civico. Stavo cercando il 12, ma non lo vedevo. Ed era meglio così, ma ancora non lo sapevo. Mi proporranno una prova di due settimane, in nero, e io accetterò perché in tre mesi che cerco lavoro è la prima volta che qualcuno mi offre una possibilità e non un inutile: “La chiameremo”. Solo che poi non mi pagheranno e nemmeno mi assumeranno. Cerca cerca, non lo trovo. Allora entro nel primo negozio, senza badare a cosa sia. Fuori c‟è il sole, ma dentro è buio e ci metto un attimo a inquadrare il locale. È una macelleria. Una macelleria di lusso. Le pareti sono ricoperte da grandi piastrelle di marmo bianco screziato di nero. So che esiste un tipo di marmo che si chiama "nero assoluto", mi piacerebbe vederlo. Le vetrine-frigo sembrano missili trasparenti o le capsule per l'ibernazione che si vedono nei film di fantascienza e, a proposito, la cassa è una postazione singola come il pulpito di comando di un'astronave. È inserita in un banco di legno massello, intagliato a riquadri con figure di buoi e aratri e contadini col cappello. Dietro i frigo-missili c'è una coppia di anziani. Lui e lei. Vestiti con camice bianco e cappellino coordinato. Per un attimo penso che siano morti, poi che siano due statue di cera, poi lui mi parla. «Buongiorno signorina». Noterò, col senno di poi, che non mi ha nemmeno chiesto se poteva servirmi, come se già si aspettasse di non vendermi niente. L'istante dopo vedo la carne. Sono pochi pezzi, leggermente scuri, che spiccano come naufraghi nel ribollire candido delle onde, in questo caso dei vassoi vuoti. Osservo gli spiedini. Il colore acceso dei peperoni gialli e verdi li rende ancora più tristi perché i pezzetti di pollo e la salsiccia hanno al contrario l'aria opaca e asciutta. La vecchina tace. L'uomo segue il mio sguardo e quando rialzo gli occhi vedo qualcosa che mi fa male. Pensavo di trovarci il tipico sguardo concupiscente del venditore, invece è solo vergogna. Un tempo questo posto pullulava di clienti, ci scommetto, c'è persino l'aggeggio rosso per prendere il biglietto e, dietro i vecchi, in alto, c'è infatti il piccolo tabellone elettronico, che adesso è spento e chissà se lo riaccenderanno mai. Lei stava alla cassa. Sorrideva e conosceva tutti. Lui e i suoi figli, di fisso almeno uno, stavano al banco: affettavano e tagliavano e tritavano, consigliando ricette e tempi di cottura, spiegando che legare l'arrosto non è difficile, ma è meglio che glielo faccio io, signora. Lucidi e brillanti, i frigoriferi erano un tripudio di carni e affettati e formaggi. Le alzate di vetro e i piatti di ceramica bianca. Le verdure freschissime per guarnire, con le gocce d'acqua fredda che scintillavano nel riverbero del sole, come se persino lui a quel tempo entrasse dalle vetrine più volentieri. Torno al presente. Adesso come faccio a chiedergli del civico 12 senza comprare niente? D'altronde neanche a me escono dalle orecchie, non posso permettermi di sprecare soldi per della carne meno che mediocre. Una fetta di pancetta. Fatti dare una fetta spessa di pancetta per la carbonara, costa poco. E gli chiedi del civico. Mi suggerisco. Ma la vecchina mi precede: «Voleva un‟informazione, signora?» Lei mi dà della "signora", lui invece aveva detto "signorina", secondo l‘abitudine del commerciante galante che chiamerebbe "signorine" anche le vecchie carampane. «Sì, sono entrata perché non trovo il civico 12, ho un colloquio» rispondo. «Però mi è venuto in mente che stasera potrei fare la carbonara e allora volevo chiedere anche una fetta di pancetta. Un po' spessa». La donna annuisce e fa un cenno minuscolo al marito, che senza guardarla la vede e si muove verso l‟affettatrice e io penso che non può essere la prima volta che la usano oggi, perché sono le undici del mattino, ma lui toglie il telo pulito e svela l‟attrezzo lindo e la lama sullo zero.
Giada Alessia Lugli

Diario di una lady di provincia, recensione di Lisa Molaro.



Titolo: Diario di una lady di provincia
Autore: Delafield E. M.
Casa editrice: la mia adorata Neri Pozzi 
Calarmi nella vita di questa deliziosa Lady è stato un attimo e ciò non è stato permesso grazie a similitudini tra la mia vita e la sua ( visto che gioco-forza oltre alla collocazione temporale del romanzo anche la classe sociale non si può certo dire la stessa!) ma la sapiente mano dell'autrice ha reso tutto oltre che leggero e semplice persino molto divertente e piacevolissimo da leggere!
Ci sono periodi in cui dai libri si pretende saggezza e cultura ed altri in cui si cerca semplicemente il relax di belle parole messe in fila con eleganza e opulenza di descrizioni..è questo appunto il caso che mi ha fatto adorare questo libro!
Mi sono sentita dentro un telefilm dalle atmosfere eleganti e raffinate fuori e complicate e macchiavelliche all'interno, dove il fuori ed il dentro è rappresentato dalla concezione del sè.
La mia Lady..che chiamerò sempre così perchè penso che nessun altro nome sia più appropriato, si districa non proprio benissimo tra gli ordini ( che non riesce a dare ) ad una cuoca super polemica che le propina in continuazione gelatine colorate e pan di spagna di tre giorni prima, tra gli intercalari francesi ( mai tradotti ) della Mademoiselle-tata della figlia piccola e le figurine del figlio in collegio, tra l'abulimia patologica del marito che non si scompone nemmeno se cade il mondo e tutte le varie Lady del paese e dintorni che fanno per professione le pettegole e che adorano dare sentenze su tutto..persino sugli oleandri del giardino!!
Ahhhh dimenticavo un dettaglio di poco conto: lei è una scrittrice.. anche se decisamente anomala; tutto il diario è infarcito di citazioni e riferimenti letterari e sentir pronunciare: DOSTOEFFSKIJ mi ha fatto morire dal ridere!
C'è questo e molto altro in una coreografia di personaggi che più mal amalgamati non potevano essere!!!


Chiudendo il libro mi dispiaceva abbandonare questa bizzarra Kinsella del passato ( ah, a tal proposito rispondo No alla domanda finale di suo marito...ma chi lo leggerà capirà a che dubbio suo ho risposto!!!) poi ho letto le note sulla copertina ed ho piacevolmente scoperto ( fregandomi le mani!!!) che a questo libro, pubblicato dapprima a puntate settimanali sulla rivista Time and Tide, sono seguiti : The provincial Lady Goes further, The provincial lady in America e The provincial lady in wartime!

Sicuramente lo consiglio a chi cerca una lettura veloce e poco impegnativa ma ricca di ilarità e quotidiano casino ( scusate il termine poco erudito ma rende bene)!!!!
Lisa Molaro

venerdì 15 maggio 2015

Intervista a Anna Visciani, a cura di Emma Fenu

Non aggiungerò troppe parole a quelle che seguiranno, espresse da Anna Visciani, autrice del libro “Se Arianna”, edito da Giunti nel 2014, il quale racconta la vera storia “diversamente normale” di una ragazzina cerebrolesa e della sua famiglia, composta da due genitori, entrambi neurologi, da una sorella adolescente e da un fratellino, tutti eletti al ruolo di voci narranti.

Vi saranno altre occasioni per soffermarmi su un testo che pervade l’intimo del lettore con la sua forza e delicatezza e che insegna a cercare le ali, anche se sono nascoste, anche se sono incollate, anche se sono troppo fragili. Oltre ogni “se”, infatti, si nasconde speranza e consapevolezza, lotta con il destino e amore per la vita.


Benvenuta Anna. Entriamo nel vivo del dibattito che più volte abbiamo accennato in privata sede. Cosa è la sofferenza? Perché la si teme, la si evita? Da cosa si scappa?

Grazie Emma per l’accoglienza.

Soffrire viene dal latino “sufferre” che vuol dire sopportare.

La “sofferenza” in senso lato è quindi una condizione dell’esistenza con cui prima o poi tutti ci dobbiamo confrontare.

Siccome quando si soffre non si è felici, si cerca di soffrire il meno possibile.

Ma quando la sofferenza arriva, nasconderla o addirittura negarla è più dannoso che riconoscerla e affrontarla.

Spesso facciamo finta che la sofferenza non esista e finché possiamo evitiamo ogni contatto con chi sta male, con chi è in difficoltà, con chi chiede aiuto. Questa forma di egoismo e di autodifesa ci si ritorce però contro quando siamo costretti a fare i conti con la realtà, perché voler ignorare come si fa a sopravvivere a un profondo dolore o a una grande delusione ci lascia inevitabilmente senza strumenti per rialzarci quando a nostra volta siamo abbattuti da eventi drammatici.

Io credo che la solidarietà e la condivisione della sofferenza altrui ci aiutino a crescere e ci rendano più forti.

Un tema particolarmente delicato toccato nel libro, e mirabilmente trattato da Dostoevskij nei “Fratelli Karamazov”, è quello della “sofferenza inutile”, in riferimento alla sofferenza dei bambini, definita inutile in quanto non ha significato né di espiazione né di maturazione.

Come descriveresti la tua famiglia, in tutti i suoi componenti, che, come ho menzionato in apertura, sono voci narranti nel libro?

Come dico il nostro libro è stato scritto a quattro mani (tre destre e una sinistra), per spiegare che è unatestimonianza corale in cui tutti i componenti della nostra famiglia sono stati coinvolti nel raccontare la propria esperienza con Arianna.

Dato che non solo la vita di noi genitori ma anche quella dei fratelli è stata pesantemente condizionata dalla disabilità di Arianna ho voluto far sentire la loro voce.

Di solito infatti, ci si concentra sui problemi dei genitori e si presta poca attenzione alle problematiche dei “siblings”, i fratelli dei disabili, costretti a crescere e a convivere con una realtà scomoda.

La voce del piccolo Daniele è la più esplicita e diretta nel manifestare il suo disagio, ma anche la più spiritosa e divertente, mentre la voce di Alice, ragazza adolescente, è più pacata e ragionevole nel suo confronto con la sorella. Il loro è un rapporto fatto di gelosie, conflitti e sensi di colpa ma anche di responsabilità, affetto e dedizione. Entrambi seguono un percorso di riflessione che li porta alla progressivaconsapevolezza di sé e alla accettazione della situazione con tutti i suoi aspetti esistenziali drammatici e conflittuali.

Le nostre vicende talvolta paradossali o tragicamente comiche sono state trattate spesso con ironia perché la capacità di continuare a sorridere ci ha aiutato in tutti questi anni ad andare avanti, nonostante sia sempre stato molto difficile immaginare un futuro per Arianna e per noi.

Le nonne ci hanno insegnato che la vita non procede attraverso i “se ” e i “ma”. Che valore dai al monosillabo con cui il titolo del tuo romanzo inizia?

Abbiamo volutamente intitolato il nostro libro “Se Arianna” per indicare le potenzialità mancate di nostra figlia e il nostro desiderio irrealizzabile: “se” Arianna camminasse, parlasse, corresse come qualsiasi bambina della sua età.

In una recensione è stato scritto che quel “Se” è il nostro “grido di dolore” contro il destino che l’ha resa così.

Nella copertina la libellula rappresenta simbolicamente Arianna, ragazzina esile e leggera, che non può spiccare il suo volo verso la vita perché ha le ali bloccate dal nastro adesivo. La domanda alla quale noi tutti vorremmo dare una risposta, mentre con le dita grattiamo lo scotch per staccarlo, è: chi lo ha messo e perché?

Cosa è per te la scrittura? Un atto di coraggio, una sfida contro i tabù sociali, un ponte di comunicazione, un messaggio stipato in una bottiglia?

La scrittura per me è sostanzialmente un modo per comunicare. La domanda più frequente che mi è stata fatta è: perché hai deciso di scrivere questo libro? Io rispondo sempre che l’esploratore che si spinge fino al Polo Nord, l’alpinista che raggiunge una vetta, o ancora il navigatore che attraversa l’oceano in solitaria, tutti alla fine della loro impresa sentono il desiderio di far partecipi gli altri delle tante difficoltà incontrate per raggiungere il loro obiettivo.

Noi che viviamo un’ “esperienza estrema”, cioè una vita molto diversa da quella delle famiglie normali, abbiamo pensato che la “nostra impresa” meritasse di essere raccontata: riuscire a vivere una vita il più possibile normale nella sua diversità.

Arrivare a decidere di narrare una storia come la nostra implica non solo coraggio, ma anche un processo di elaborazione che parte da lontano. D’altra parte è indubbio che la scrittura stessa favorisca il progredire di questa elaborazione e permetta a volte di evidenziare e oggettivare pensieri non ancora del tutto consapevoli.

Ci siamo rivolti a qualunque tipo di lettore, senza pretendere di insegnare niente a nessuno: il messaggio che abbiamo voluto trasmettere è indirizzato a tutti. Ognuno saprà fare poi le sue riflessioni sulla vita e trarre dalla nostra esperienza quello che vorrà.


Emma Fenu

lunedì 20 aprile 2015

Il giardino di Emily Dickinson, di Adele Cavalli.


Emily Dickinson, vorrebbe tutte le persone che ama vicino a lei per godere insieme della campagna e delle colline, così e solo così il suo piacere potrebbe essere completo.

Dalla piccola camera che accoglie e protegge gli ampi spazi della sua vita interiore,seduta alla scrivania vicino alla finestra, scrive lunghe lettere ad amici e parenti e sempre troviamo un riferimento al giardino e ai suoi fiori.

Così scrive al fratello Austin che è lontano da casa:

"Oggi è molto bello - luminoso, azzurro, verde e bianco, e cremisi, come i ciliegi in pieno fiore, e i fiori di pesco sbocciati a mezzo, e l'erba ondeggiante, e il cielo, le colline, le nuvole, possono farcela, se ci provano. Come vorrei che tu fossi qui, Austin - ti sembrava bello sabato scorso - eppure in confronto a questo giorno dorato, non era che una singola gemma, rispetto a intere manciate di gioielli."

"...l'aria è dolce e silenziosa, ogni tanto una foglia gioiosa che cade - i grilli cantano tutto il giorno - in alto su un albero purpureo canta un uccello tardivo - mille piccoli pittori dipingono valli e colline. Ora ammetto, Austin, che l'autunno è il più bello, e che la primavera lo è di meno - eppure "differiscono come stelle" nella loro gloria particolare. Che felicità se tu fossi qui a condividere questi piaceri con noi - la frutta sarebbe più dolce, e il giorno morente più dorato - più allegre le noci cadute, se le raccogliessimo con te per celarle negli abissi di un canestro, ma tu non ti lagni - perché quindi dovremmo farlo noi?

E ancora in un' altra lettera:

"Sono così felice quando so che stai per arrivare che metto via il cucito ed esco in cortile a pensare. Ho cercato di ritardare il gelo, ho blandito i fiori che appassivano, pensavo che sarei "riuscita" a trattenere qualcuna delle foglie cremisi finché tu le avessi sorriso, ma le loro compagne le chiamano e non possono restare - troverai le colline azzurre, Austin, con le ombre autunnali che dormono silenziose su di loro, e ci sarà un attardarsi della gloria intorno al giorno, così saprai che l'autunno è stato qui, e il sole "al tramonto" te lo dirà, se non arrivi a casa prima di sera. Come sono felice che tu stia bene - devi assolutamente avere cura di te e non ammalarti di nuovo

E all'amica Abiah:

"...Hai qualche fiore adesso?
Io ho avuto un bellissimo giardino fiorito questa estate, ma ora sono quasi spariti. Stanotte fa molto freddo e ho intenzione di cogliere i più belli prima di andare a letto e sottrarre a Messer Gelo molti dei tesori che contava di rubare stanotte.
Non sarebbe una magnifica idea provocarlo un po', almeno per una volta, non di più?
Mi piacerebbe mandarti un Mazzolino di fiori, se ne avessi l'opportunità, e tu potresti seccarli e scriverci sotto, Gli ultimi fiori dell'estate.
Non sarebbe poetico e sai che esserlo è oggigiorno lo scopo di ogni signorina."

A Emily piace molto mandare fiori e foglie essiccati come dono nelle sue lettere.
E all'amica Abiah in una lettera succesiva scrive:

"Hai qualche Nontiscordardimé in giardino questa estate? Te ne manderò qualcuno in regalo con la mia prossima lettera. Ne sto facendo seccare qualcuno per tutte le ragazze e non sono ancora pronti."
Adele Cavalli

Per le lettere di Emily Dickinson, il sito di
Giuseppe Ierolli

giovedì 16 aprile 2015

"Emily Dickinson" di Adele Cavalli.


Spero non vi dispiaccia, mi piacerebbe farvi leggere un profilo di Emily Dickinson che ho tracciato utilizzando le numerose lettere che, nel corso degli anni, ha amato scrivere ad amici e parenti.
L'ho scritto tempo fa sulla pagina che ho dedicato a 'Scrittrici in giardino', perchè lei è una delle dieci scrittrici-giardiniere di cui mi è piaciuto scrivere nel mio libro.

Siamo ad Amherest, un villaggio della nuova Inghilterra dove, nella vecchia casa che era stata del nonno, vive Emily Dickinson, insieme a lei il padre, persona austera, rigida e severa, ma molto amato. “Sempre integro, duro come il ferro, ma limpido come l'acqua“. Pur non amando cucinare è per lui e solo per lui che Emily prepara torte in cucina. 
La madre, donna timida e gentile che vive all'ombra del marito.
La sorella Lavinia, a cui è legata da profondo affetto: “Senza di lei la vita sarebbe paura e senza la sua voce incitante, una viltà il paradiso“.
E' grazie a Lavinia che buona parte delle lettere e delle poesie di Emily sono state pubblicate.
Poi c'è il fratello Austin, che si laurea in legge, svolgendo poi la sua attività ad Amherst e giovanissimo si sposa con Susan, grande amica della sorella, abitando in una casa a poca distanza da quella dei suoi, solo il giardino le divideva.

Per il momento vivono qui, tutti insieme in questa grande casa.

Le donne si occupano di tutto: accendono il fuoco, puliscono e riempiono i lumi, pompano l'acqua dal pozzo, fanno il pane, cucinano e cuciono i vestiti. 
Emily scrive sempre su piccoli fogli che porta con sé, mentre screma il latte nella rimessa silenziosa o sull'involucro del cioccolato, mentre prepara una torta in cucina e, con le mani ancora sporche di farina, continua il pensiero appena abbozzato nella rimessa. Poi riunisce il tutto in quaderni che chiude nel cassetto in camera sua. 
C'è un'atmosfera serena, sono anni felici, per lei, questi ed il suo è un atteggiamento gioioso e pieno d'incanto e di interesse per tutto ciò che la circonda. Frequenta gli amici, si diverte nei boschi montando a cavallo, si veste alla moda, è molto socievole e piena di vita e così si descrive: “ Sono piccola come lo scricciolo, ho i capelli ribelli come il riccio della castagna e gli occhi come scherry che l'ospite lascia nel bicchiere.”
Fuori la casa è circondata da un ampio prato che reclina verso il ruscello, querce frondose e abeti riempiono gli spazi intorno.
Poco distante l'orto, lei è “cresciuta nell'orto” che ama curare, cucinando le verdure raccolte: i fagioli “in fricassea” e li fa diventare “quella crema gustosa per cucinare che a 'Zia Emily' piaceva centellinare”.
Lì vicino, un vigneto che “sembra un regno, con grappoli maturi e rotondi a mo' di re, e bocche affamate a mo' di sudditi - il primo esempio a memoria d'uomo di sudditi che divorano i re! L'uva è eccellente, succosa, e così porporina” e lei “si figura che gli abiti dei re non abbiano una tinta più regale.”
Intorno alberi di pesche “molto grosse - da un lato una guancia rosata, e dall'altro una dorata, e quella peculiare veste di velluto e lanugine, che rende una pesca così bella.”
Nell'aria si spande il profumo del fieno “è ancora piccolo, senza pretese, come tendono a essere i cuccioli, ma fa intravedere robuste promesse di covoni di qui a poco.”
In inverno si accende il camino in cucina ed Emily cuce, seduta lì vicino, con in mano “i fili da orlare per un vestito della mamma.”
Rammenda le calze di lana, e ogni tanto ripara qualche imperfezione alle camicie di Austin.
In cucina si stira, è Maggie a farlo, e “il calore del cotone, del lino e del crespo fanno diventare rosse le guance della micia.”
Anche quando fa molto freddo lei che ama i fiori ha sempre “molti mazzolini di muschio e felce sul davanzale della finestra che chiama fiori dei Santi, perché non sgambettano come gli altri fiori, ma se ne stanno tranquilli e candidi.”
Spesso in inverno “nevica lentamente e solennemente, e difficilmente si vede qualcosa che si muova fuori - di tanto in tanto passa qualcuno, con un grande mantello stretto intorno eppure intirizzito, e di tanto in tanto un micio sperduto fuori per qualche faccenda urgente striscia tra i fiocchi di neve, e sguscia via più presto che può mezzo congelato e più nevica e più forte soffia il vento, più luminoso arde il fuoco, e più lieto canta il grillo del focolare".
E poi finalmente “arriva la primavera - la neve è quasi sparita, e la grande Terra bruna è affaccendata a rivestirsi di verde - prima si mette i mutandoni, poi le gonnelle, poi un corpetto di tutti i colori, e calze e scarpe davvero deliziose - no, non sono scarpe, sono delle minuscole ghette, allacciate con erba e boccioli.
Il cielo è azzurro e caldo - il vento soffia giusto quel tanto che basta per tenere le nuvole in movimento”.
Ed iniziano le pulizie che spazzano via l'inverno: la lavandaia sta lavando, e “si possono sentire gli spruzzi della saponata calda. E Vinnie spazza - spazza, sulle scale; e la Mamma si affanna tutt'intorno con i capelli in un fazzoletto di seta, per la polvere.” 
Poi tutto diventa “ luminoso, azzurro, verde e bianco, e cremisi, come i ciliegi in pieno fiore, e i fiori di pesco sbocciati a mezzo, e l'erba ondeggiante, e il cielo, le colline, le nuvole, possono farcela, se ci provano.”
Così, a grandi passi, arriva “l'estate ridente, che fa cantare gli uccelli, e mette in moto le api.
Strani germogli crescono su molti steli, e gli alberi accolgono i loro inquilini.”
Emily è lì tra i suoi fiori e noi così la lasciamo tra i “ Garofani che - versano i loro aromi - e le Api che li colgono”.
Adele Cavalli

mercoledì 15 aprile 2015

"Storia di Sibilla Aleramo" di Adele Cavalli.


Il filo sottile si ferma vicino ad una donna ‘senza nome nè terra‘ errabunda, come a lei piace definirsi, con la smania continua di partire, passando da una stanza d'affitto all'altra, da una pensione, quando c'erano i soldi, ad un'altra, in città sempre diverse, sola o ospitata da amici.
Nei suoi bagagli porta con sè carte, scritti, fotografie, suppellettili varie, tutto quello che ha e che possa fare di ogni luogo la sua casa.
“…Ho una stanzuccia di tre metri per quattro, dal soffitto basso, sotto il tetto, non importa. Sul tavolino la mia cartella di cuoio, il Buddha dai riflessi d'oro, qualche altro oggetto minuto che brilla, creano qui come in qualsiasi altra dimora la mia atmosfera. Sono essi la mia casa. Il ritrattino in una sola cornice, di mia madre e di mio padre, giovani, bellissimi. E quello di mio figlio, quand'era bambino.”
Avrà una casa solo dopo i cinquant'anni, in via Margutta, una soffitta molto bohemienne.
Rina Faccio, questo il vero nome, di Sibilla Aleramo, nasce in Piemonte, ad Alessandria nel 1876, poi i suoi si trasferiscono, prima a Milano e successivamente nelle Marche.
Figlia maggiore, dopo di lei due sorelle ed un fratello, in una famiglia benestante: il padre dirige la propria azienda, è uomo molto autoritario e affascinante: 
”…L'amore per mio padre mi dominava unico. Per lui avevo un'adorazione illimitata… era lui che mi rappresentava la bellezza della vita... accanto a lui mi sentivo lieve come al di sopra di tutto… ero disposta a credere che mio padre avesse sempre ragione…anche quando prorompeva in una di quelle crisi di collera che ci facevano tremare tutti e mi piombavano in uno stato d'angoscia, rapido, ma indicibile.” 
La madre è una donna fragile e debole che subisce il marito.
Per il bene dei figli e solo per loro, sopporta un matrimonio difficile ed i tradimenti continui del marito che le impone un'amante alla luce del sole, esibita pubblicamente nella piccola comunità in cui vivono. Soggetta a crisi depressive tenta il suicidio, viene salvata, ma non riesce più a vivere in una realtà che non può accettare, troppo umiliante tutto, per lei, e così viene ricoverata in un manicomio.
Rina studia e scrive, solo per sè, poesie e pensieri, ed aiuta il padre nell'azienda, le piace questa occupazione.
E proprio qui, nella stanza dell'azienda in cui lavora, una sera, ancora adolescente, viene violentata da un operaio della fabbrica. E' costretta ad un matrimonio riparatore. 
“Il primo grande dolore che avevo provato mi era venuto da mio padre, dalla scoperta della debolezza d'un uomo che m'era parso un dio. Io avevo bisogno di ammirare innanzi di amare. Accettando l'unione con un essere che m'aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m'imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola”.
Lei ha solo 16 anni. 
Rimane incinta, ha un aborto, poi, in seguito, avrà il figlio che tanto amerà, Walter:“Quando, alla luce incerta di un alba piovosa di aprile, posi per la prima volta le labbra sulla testina di mio figlio, mi parve che la vita, per la prima volta assumesse ai ‘miei occhi un aspetto celestiale…io stringevo tra le mie braccia la mia creatura viva, viva, viva!...ella era tutta me stessa.”
E' il figlio che le dà la forza necessaria per cercare di dimenticare la violenza subita che l'ha segnata interiormente, facendo l'ultimo tentativo di cercare disperatamente di amare quell'uomo che è stata costretta a sposare, un uomo gretto, violento che cercherà in tutti i modi di schiacciarla e soffocarla, portandola alla fine, dopo un tentativo di suicidio, alla decisione più difficile da prendere, per una donna, tra mille pene, dolori e rimorsi, quella di lasciare la propria famiglia abbandonando il figlio tanto amato, per cercare di salvarsi. 
Ora non possiede più nulla, solo se stessa.
Non ha niente, corregge bozze per riviste e traduce volumi, vivendo con poco. Inizia a scrivere articoli di costume e articoli sulla questione femminile e inizia anche a scrivere il suo primo romanzo: 'Una donna'. 
Un romanzo autobiografico, la sua vita, dagli anni dell'infanzia fino alla maturità, ricca testimonianza della condizione femminile.
'Una donna 'è considerato il primo libro femminista apparso e pubblicato in Italia con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo. Grande è, fin da subito, il successo ottenuto, siamo nel 1906. 
Negli anni '70 non c'era gruppo femminista che non avesse tenuto tra le mani, letto e commentato questo libro pieno di forza in cui non si parla, con grande coraggio, solo della vita di una donna, ma di tutte le donne, del testimone che viene passato inesorabilmente da madre in figlia, di generazione in generazione.
Il destino di Rina era segnato così come quello della madre e della madre della madre, destini di donne identici, tutti imprigionati, giorno dopo giorno, dal matrimonio senza amore, dalla gelosia, dai tradimenti, dalla violenza fisica e psicologica, dalle continue umiliazioni subite passivamente solo ed esclusivamente per il bene dei figli.
La donna è considerata una 'minorata a vita'.
Spera di ottenere l'affidamento del figlio, ed inizia la sua battaglia, ma tocca con mano quello che nel suo piccolo ambiente familiare e sociale aveva da sola verificato: le donne non hanno alcun diritto perché la donna come soggetto non esiste. 
Scrive, su fogli, piccoli taccuini in continuazione, ”una somma enorme di vita”, partecipa attivamente alla vita sociale, attiva sempre, partecipa nel 1908 al primo Congresso femminile nazionale. All'inizio degli anni venti sottoscrive un manifesto di intellettuali antifascisti, pur non prendendo mai una posizione decisa contro il regime, a cui si rivolgerà più avanti, in un momento di grande indigenza, per ottenere un aiuto economico.
Durante la seconda guerra mondiale matura la sua coscienza antifascista iscrivendosi al partito comunista a cui andrà come lascito testamentario, alla sua morte, tutto il carteggio delle sue numerose opere. 
Ha molti amori che vive intensamente, l'amore fu la ragione della sua esistenza, e per questo viene giudicata e criticata aspramente. “Sibilla, lavatoio sessuale della letteratura italiana.”
Sono le parole di Prezzolini, per lei, donna intelligente, giovane, bella e, cosa preoccupante per i tempi, libera, da schemi e pregiudizi, completamente.
Rivedrà il figlio solo trent' anni dopo averlo lasciato, lui stesso si era più volto rifiutato di incontrarsi con lei, solo nel 1933 ci fu l'incontro tra i due: incontro che lasciò Sibilla delusa e amareggiata. 
Più tardi, una seconda occasione nel 1947 .
L'ultima volta che si incontrarono fu al capezzale della madre morente, Sibilla aveva 84 anni, vicino al suo letto d'ospedale l'amico Palmiro Togliatti che le faceva visita ogni giorno. Sibilla, quel giorno, l'ultimo della sua lunga e intensa vita, alzò gli occhi ed incontrò quelli del figlio e poi morì. Era il 1960.
Eugenio Montale alla sua morte scrive: “Sopravvissuta a tante tempeste portava ancora in sé, e imponeva agli altri, quella fermezza e quel segno di dignità che erano stati la vera sua forza e il suo segreto”.
Adele Cavalli

martedì 7 aprile 2015

"I pascoli del cielo", recensione di Chiara Minutillo.


Sono passati settantacinque anni da quando, in Italia, venne pubblicato un libricino di poco più di duecento pagine, intitolato "I pascoli del cielo". Più volte definito romanzo, questo piccolo capolavoro di Steinbeck è in realtà un insieme di brevi racconti che hanno come filo conduttore una ridente valle californiana che "si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi". 
In questo piccolo mondo così serenamente bello si intrecciano e si alternano le esistenze di vari personaggi alla ricerca di una vita da condurre in pace, a contatto con la natura, lontano dalle grandi città. La presentazione di ciascun personaggio è un piccolo ritratto ricco di vita che, unito a tutti gli altri, presenta un affresco di vicende caratterizzate dalla drammaticità della perenne lotta contro il destino. Come se non fosse possibile avere qualcosa di buono senza dare dell'altro in cambio, gli abitanti della valle sono obbligati, o si sentono obbligati, a pagare il prezzo per il privilegio che hanno di vivere in un paradiso terrestre. Così ad, esempio, la signora Wicks, resasi conto della bellezza della figlioletta appena nata, invece di provare gioia, si lascia prendere dallo sconcerto, perchè "la bellezza di Alice era troppo straordinaria per non avere qualche inconveniente. I bambini belli finiscono molte volte per diventare brutti uomini o brutte donne". Non è da meno la signora van Deventer, la cui vita "si svolgeva sotto il peso di un sentimento acuto e perenne di tragedia". Personaggi, questi di Steinbeck, presentati con un realismo tale che risulta quasi impossibile non sentirli vivi, accanto a sè, con le loro paure e la loro ingenuità. La prosa di Steinbeck, però, è intrisa anche di sarcasmo e ironia, di critica nei confronti della società prevaricatrice e di attenzione verso l'umiltà della gente di campagna, la semplicità di chi è "diverso" e di chi, talmente preso dalla ricchezza del sapere, non si rende conto della povertà fisica. La grandezza di alcuni personaggi viene di gran lunga superata dalla piccolezza di altri, dimostrando che nessuno è mai banale, che ognuno ha il proprio posto, indipendentemente dal suo ruolo. La storia che Steinbeck racconta è la storia di decine, di centinaia di persone, facenti parte della società americana dei pionieri, in cui grandi fortune si mescolavano, spesso, a grandi miserie. Uno spettacolo teatrale di cui Steinbeck ci invita a divenire spettatori per guardare, un poco, al passato e ad un'umanità che solo apparentemente non esiste più.
Chiara Minutillo

domenica 5 aprile 2015

"Sesto Vento" di Silvia Tortiglione.


Stralcio.

Quando rientrai in cabina, vidi Geselle e Demetrio impegnati nel continuare un’accesa discussione. Demetrio era fermo ad un lato della piccola finestra, mentre Geselle sedeva dinanzi a lui. Le loro diatribe non potevano essere considerate certo una novità, ma i toni mi parvero più alti del solito. Azzardai un saluto che fu completamente ignorato. 
«Non è come dici, Demetrio, stai sbagliando.»
«Ma tu cosa ne sai della vita? Tu che prendi ogni attimo al pari di un gioco e zittisci il dolore tra le corde del tuo violino.»
Il discorso doveva vertere su grandi temi e preferii non interrompere. Ascoltare, io volevo solo ascoltare e capire dove risiede mai la voce dell’ira e dove quella dell’esperienza. 
«Magari è vero,» continuò Geselle «magari non so nulla di quella che tu chiami vita. Eppure, io conosco l’arte e questo tu non puoi accettarlo. Non ti rendi conto della gioia che balza dal tocco di un suono leggero. Tu non comprendi la musica
«Io non comprendo la musica? Sei pazzo. Credi che girare per le strade melodiando ora qui, ora là, sia musica? Credi che la gente ti porga attenzione? »
Mi resi conto che il dibattito era nato in seguito all'ultima trovata di Geselle: girovagare per le strade con la fiamma del suo spirito. Io non ci trovavo nulla di strano,anzi, mi veniva da sorridere al pensiero di una folla interdetta a passo di musica. Ma Demetrio, così orgoglioso e preciso nelle sue scelte, di sicuro lo giudicava un capriccio.
Se Demetrio era la terra, le radici e i minerali ivi nascosti, Geselle rappresentava l’aria e il piacere di una notte d’illusione. Geselle viveva di speranze assurde; era convinto che qualcuno si sarebbe fermato al taglio del suo strumento, era certo che danzare e sentire la povere sotto i piedi ci avrebbe sciolti dalla noia, ci avrebbe donato nuove vite. Sì, vite, al plurale. Quando impugnava il violino, Geselle mutava nel sentimento della romanza o ancora finiva per divenire pura essenza. Quasi dimenticavi il suo nome, tanta la forza che metteva nel comporre. 
«La gente mi ascolta e sorride. Abbiamo tutti bisogno di un colpo, Demetrio. Il tuo parlare non può reggere il precipizio e la cima dell’orchestra. E non intendo come unica orchestra quella dei teatri. Tu osservi un gruppo di persone e vedi un uomo, una donna, un bambino. Io porto gli occhi alla stessa comitiva e sento una tromba, una viola e un flauto. Questa è speranza e al solo pronunciarla mi viene in mente un capolavoro di pause e tensioni.»
Demetrio si voltò verso di me con un aspro sorriso e soggiunse: «Fermalo! ora inizia a vaneggiare. Non so neanche cosa rispondere. “Sento i flauti”, quanti anni hai, Geselle? Dodici?»
«Posso sapere che fastidio ti da quello faccio?»
«Tu getti la musica ai piedi di chiunque e vieni deriso. Mi dispiace per l’arte che subisce lo scherzo, non per te.»
«E dunque,» Geselle si alzò «tu mi stai dicendo che l’arte, la musica, non va portata in piazza all'anima di tutti? Demetrio, io voglio condividere ciò che mi rende vivo con i morti che ci camminano intorno. Tu non sei me, tu non puoi entrare nelle mie vene. Tanto meno, puoi essere consapevole della forza del teatro. Ad ogni passo che compievo su quelle scale s’alzava il vento dell’arte e, sui volti del pubblico durante gli intervalli, io vedevo il bello e una missione.»
«Una missione.» 
La voce di Demetrio assunse quel suo caratteristico timbro deciso. Avrei dovuto fermarli, la tempesta era vicina e mi trovavo tra due forze opposte e di pari dignità. Feci alcuni gesti di silenzio a Demetrio, con il risultato che si ostinò ancora di più. 
«Una missione. Geselle, nessuno sa il tuo nome come ignora il mio. Ho accettato questa conclusione, fallo anche tu. Torna con il cuore sul mondo.»
«La musica aveva un tale fremito, era fuoco. E lo era anche il mio corpo strozzato dalle balaustre della loggia. Vivi come vuoi, ma non giudicare le mie azioni. Ho mai giudicato i tuoi lavori? Piuttosto, dimmi, cosa sono per te le tue opere? Se mai ne hai realizzata una.»
Si guardarono con ferocia, simili agli eroi dei poemi che vengono alla disputa in campo aperto, la sabbia sul volto e le braccia tese. Con mio stupore, il primo a sospirare fu Demetrio. 
«Sapevo quello che volevo,» disse «sogni di un giovane studente. Fine, Geselle. Io ho preso coscienza che i posti sono terminati, che li occupa il denaro e che a causa di persone come te nulla si conclude.»
Il musicista non rispose e si avvicinò al letto del nostro amico, cercando la valigia di quest’ultimo. Una volta trovata e aperta ne trasse fuori una manciata di fogli.
«Cosa stai facendo?» Demetrio rimase stupito «Dammi quei fogli, Geselle.»
«Tu sei un architetto giusto? E cosa abbiamo qui?» Geselle sventolò uno di quei pezzi di carta. Li scrutò con attenzione, ponendoli alla luce e riportandoli all'ombra. Lesse il titolo di uno schizzo raffigurante una sorta di museo alla cui base si diramava un giardino. 
«Niente male, Demetrio, niente male. »
«Geselle, avanti, lascialo stare. Smettetela.» 
Dovevo intervenire, nonostante amassi la sincerità delle due posizioni. Entrambi ti rendevano consapevole del cammino, figurarsi poi l’effetto che le loro attitudini avevano su di una persona in costante dubbio come me. L’uno si esprimeva a paragrafi, l’altro a sentenze; chi feriva con un tocco di lancia, chi attendeva l’esito delle frecce. 
Geselle si avvicinò alla finestra. 
«Hai detto tu che sono utopie, creazioni troppo alte per essere condivise. Ma guarda, anche un teatro! Caro Demetrio, non trovi sia giusto che il mare abbia la sua dose d’arte? Il mare che l’arte ci dona e non chiede.»
Li guardai indietreggiando di qualche centimetro.
«Non ci provare.» mugugnò Demetrio con voce contrita. 
A quel punto, Geselle spalancò la finestra e con un solo movimento lasciò cadere i fogli che si tinsero del sereno azzurro delle acque. Restammo alcuni minuti senza parlare e senza chiedere nulla. Demetrio si avvicinò piano all'apertura e strinse i bordi delle imposte. Mi sarei aspettato un cenno di assenso e una rapida uscita. Da quando ci eravamo incontrati, Demetrio aveva sempre agito con brevi moti. Sentivo invece il corso furente del suo sangue e la cosa mi lasciò atterrito. 
«Io ti uccido.» 
Bisbigliò voltandosi verso Geselle che rimase impassibile. Fu un secondo di gelido dolore; ricordo soltanto il diffondersi di un gusto acre nella mia bocca. 
«Perché ti sei intromesso?» 
«Almeno la finite con queste stupide scaramucce!»
Demetrio abbassò la mano e si allontanò, lasciando la stanza.
Non avrei mai potuto decidere a chi dar ragione. Se era vero quello che Demetrio provava, se era vero che il sogno muore una volta risalita la superficie del reale, se era vero che il grande sentire e il placido sognare erano perdite di tempo allo sguardo vigile del sole; era anche giusta la purezza di Geselle, il suo creare e distruggere, l’antico impeto che lo animava. 
Se qualcuno avesse assistito all'intero litigio, si sarebbe accorto che noi eravamo la peggior specie di uomini e anche la più comune. Eravamo giovani uomini consapevoli del fuoco e dell’alba; avevamo gioito per l’esito di un amore e forse gridato allo svanire del giorno.
«Tanto lo sa che ho ragione
«Sì, Geselle, lo sa.»

lunedì 30 marzo 2015

"Con la testa nel forno e i piedi nel frigo" di Lolo Gramma



STRALCIO

"Perché l'ho fatto? Bè... questa sembra essere la domanda preferita dalla maggioranza. Dai, ammettiamolo. Ogni volta in cui qualcuno di noi fa qualcosa di apparentemente illogico, la mente umana non riesce, proprio non ce la fa a esimersi da un potenziale giudizio e, intimamente deve farlo, deve puntare il dito. E tutto inizia da quel quesito, si, quello che sembra tanto innocente da non dover fare del male a nessuno. Anche gli infanti lo fanno continuamente. Loro domandano incessantemente: perché? L'interrogativo corretto, tuttavia, sarebbe: cos'avrei potuto fare altrimenti. A chi domanda, a chi non comprende, ma anche a chi con filantropico amore mi si avvicina vorrei gridare di lasciar perdere. Non ricordatevi di me. Persino io ho dimenticato."

giovedì 26 marzo 2015

DONNE E MOTORI di Giovanna Avignoni

"Donne si raccontano"

Donne e motori

Correva come un pazzo mangiando asfalto e polvere.
I pensieri lo precedevano nella corsa e tentavano di arrivare prima di lui.
La testa era vuota di tutto, l’unico pensiero era lei.
Stridevano le gomme affrontando la curva e il loro rumore martellava le tempie dell’improvvisato pilota.
Non aveva mai amato correre con l’automobile, era sempre stato un tipo tranquillo.
Non gli piaceva affatto il detto “donne e motori, gioie e dolori”, per lui era assurdo assimilare la gioia dell’amore per la sua donna a quella di una macchina.
La sua donna era viva, respirava, rideva, amava si faceva in quattro per farlo felice.
La sua automobile era soltanto un freddo conglomerato di metallo, plastica e gomma, priva di ogni forma di sentimento.
Non riusciva proprio a capire come, molti uomini, potessero mettere sullo stesso piano le proprie donne e le proprie automobili.
Lui amava la sua donna, non la sua auto. 
Ora, però, stava chiedendo alla sua vettura di stupirlo, di portarlo il prima possibile da lei e lo faceva come se stesse chiedendo un favore ad un’amica, un favore che lo avrebbe ricondotto verso la felicità.
Era successo tutto troppo in fretta.
Una parola di troppo, uno sguardo mal interpretato ed era accaduto l’inevitabile.
Lei lo aveva guardato con un’aria indecifrabile, mista tra l’odio e il dolore e, senza dare spiegazioni, si era allontanata.
Un po’ per orgoglio, un po’ per vergogna aveva evitato di chiamarla la sera stessa anche se le avrebbe voluto chiedere scusa.
La gelosia lo aveva sopraffatto, non aveva resistito quando quel tipo belloccio le si era avvicinato baciandola troppo vicino alla bocca.
Inutili le sue spiegazioni, le sue rassicurazioni.
Era solo un bacio di un caro amico, di chi c’era da sempre, di colui che la baciava in quel modo fin da quando erano bambini ed erano cresciuti insieme condividendo lo stesso pianerottolo, lo stesso cortile, lo stesso cibo.
Cresciuti insieme come fratelli, ma lui non ne voleva sapere.
Era troppo orgoglioso, quell’uomo aveva baciato la sua donna
L’acceleratore era premuto al massimo e lui stava chiedendo l’impossibile alla sua automobile: arrivare prima che fosse troppo tardi.
Il messaggio sul cellulare era chiaro e senza speranza.
Sarebbe partita per sempre e non sarebbe più tornata.
Ora, data e stazione erano fissati al centro dello schermo e dei suoi pensieri.
Mancava poco tempo e lui era ancora abbastanza lontano dalla stazione.
Da sempre rispettoso delle regole, quella sera le aveva mandate tutte a benedire e aveva infranto ogni codice della strada, rischiando di schiantarsi più volte, non essendo un abile pilota.
Testacoda, doppia fila, sportello aperto, corsa folle a piedi tra la gente che, con il naso per aria, cercava il binario del proprio treno.
Fiato corto, cuore a mille, petto dolorante, non era mai stato un bravo corridore.
In verità non era mai stato bravo in nulla, si era sempre sentito una nullità, fin quando non era arrivata lei che, finalmente, lo aveva fatto sentire un uomo.
Binario dodici, tre minuti alla partenza, locomotiva pronta.
Che stupido, una rosa lo avrebbe aiutato a compensare le parole che gli sarebbero di certo mancate.
Le erano sempre piaciute le rose, ma lui non gliene aveva mai regalata neanche una, per vergogna.
Lei era di spalle, seduta sulla fredda panchina sotto la pensilina aspettando fino alla fine che qualcuno facesse in tempo ad arrivare prima del fischio che annunciava la partenza del treno.
Spalle dritte e collo lungo, le gambe accavallate in una posa plastica ed elegante, una mano sulla valigia.
Era arrivato in tempo, la sua donna era ancora lì.
A volte gli attimi possono durare una vita e, in quell’attimo, lui ripercorse tutta la loro esistenza insieme.
Una corsa indietro nel tempo per trovare le parole giuste, per convincerla a tornare da lui.
Ti amo.” furono le uniche due parole che riusciva a ricordare del loro rapporto e così le pronunciò a voce alta.
Lei si voltò lentamente, senza parlare, gli diede la mano e, con la valigia che sembrava essersi alleggerita, lo seguì fino alla macchina che, in doppia fila, era rimasta ad aspettarli con lo sportello aperto e il fiato sospeso.

Giovanna Avignoni

SCELTA D'AMORE di Michela Comanducci

Donne si raccontano.

Eppoi arrivava il giorno.....luce dirompente abbagliava la stanza..e la giovinezza abbandonava il tempo delle fiabe.
L'acerba giovinezza, con le sue timide primavere, irrorate di pioggia sottile che lieve colava sul corpo che timidamente germogliava..
Voleva trovare un posto,lei, voleva trovare il senso, lei, quello di una carezza negata e di una violata...
Non era più tempo ... O, forse, qualcuno,quel tempo glielo aveva negato ... strappando il fiore che con un timido accenno si preparava alla vita. La sua...
Nessuno sapeva ... Nessuno sapeva cogliere la purezza....la delicatezza, 
Ed il timore cresceva, la paura innalzava il muro del silenzio.
Il silenzio .... che diveniva dolore, sordo, suo, 
Nelle estati assolate e silenziose solo le pagine di un libro trovavano vita con un soffio di vento....
Michela Comanducci

mercoledì 25 marzo 2015

"Il foulard bianco e blu" di Marina Fichera.

"Donne si raccontano"

Il foulard bianco e blu.

Era stata una giornata pesante, le solite scadenze, il capo nervoso, i sistemi che non funzionavano, insomma, tutto come sempre.
Dopo essere uscito dall’ufficio, mi incamminai stancamente verso la fermata della metropolitana. Improvvisamente le giornate erano diventate lunghe e luminose come solo a inizio primavera, e non avevo molta voglia di buttarmi sotto terra, ma non avevo alternative.
Attraversai la stazione, caotica, grigia, sporca, piena di vite disgraziate e speranzose, e percorrendo le scale scesi verso la banchina.
Pochi minuti dopo arrivò il treno, si aprirono le porte ed entrai. Distratto dalla musica del mio smartphone che mi sparava frizzanti note jazz direttamente nel cervello mi sedetti sul primo posto vuoto che vidi.
Tutto intorno non esisteva nulla se non la mia musica, la mia stanchezza e la mia voglia di non vedere. Finché non vidi lei. Era seduta davanti a me, lo sguardo fiero che al tempo stesso sembrava ferito, un maglione rosso e un foulard bianco e blu. Bella e irrequieta. Feroce e dolce. Magnetica come una diva del cinema muto.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei, non potevo. Vidi la nostra vita che ancora non esisteva scorrere tra la fermata di Cadorna e la stazione Centrale, fino a quando non si alzò avvicinandosi alla porta del vagone per scendere. 
Non era la mia fermata ma non esitai un attimo, mi alzai e scesi dietro di lei. Non saprei dire come accadde, ma accadde. Il suo bel foulard le scivolò per terra, io lo raccolsi e sorridendo glielo porsi “Ha perso questo” dissi, ma avrei voluto dirle “E io ho perso la ragione solo guardandoti per pochi minuti, resta con me per tutta la vita”.
Lei ricambiò con un sorriso tra il sorpreso e il malizioso, e per un attimo il mondo che scorreva intorno a noi come in un frenetico film si fermò. 
Nel porgerglielo le nostre mani si sfiorarono e il suo profumo invase la mia anima. Fu un unico fotogramma che avrei voluto durasse per l'eternità, una fotografia che non cancellerò mai dalla mia mente e dal mio cuore. 
Ah, se non ci fosse stato quel foulard bianco e blu ora non saremmo qui, distesi a guardare il soffitto e scherzare su quante cose si possono fare tra le stazioni di Cadorna e Stazione Centrale...
Marina Fichera

"Generazioni di Donne" di Emma Fenu. Donne si raccontano.



Donne si raccontano.

"Generazioni di Donne"

Sono nata sul confine fra due mondi, lingua di terra fra un castello che volgeva al declino, lasciando dietro di sé il pudore della memoria, e un torrente che si insinuava, ospite inatteso, fra orde di occhi increduli.

Mi appartengono le parole magiche, sussurrate, in dialetto arcaico, sulla mia fronte febbricitante e i versi di “Michelle”, cantati, con il cuore palpitante, sognando un primo amore; le preghiere canoniche in latino, imparate a memoria per la Prima Comunione, e i versi di Shakespeare, parafrasati per l’esame di diploma; le corse di piedi scalzi, che solcano ogni uscio della strada come se fosse il proprio, e i tragitti in aereo per raggiungere, dall’Isola, il “Continente”; il frusciare degli scialli neri, che avvolgono corpi di donne che profumano di incenso, mandorle e miele, e la poca stoffa e molta storia di una minigonna.

Il mio era un tempo ossimorico in cui si incrociavano passato e presente.

Mentre il mondo e l’Italia erano storditi da un boom che non proveniva più dalle bombe, la mia infanzia trascorreva fra silenzi assordanti, in cui poche parole erano già troppe e alcune, in realtà, non andavano neppure dette, ma solo capite; fra urla e pianti cadenzati condotti dalle prefiche, attorno al corpo di uno sconosciuto; fra segreti, tramandati da madre in figlia, al proferire dei quali anche gli uomini tacevano, deponendo le armi.

Mia madre, donna alla moda, danzava al ritmo del grammofono e pesava le parole e centellinava gli abbracci, anche se le ero a pochi centimetri di distanza.

Mia figlia, donna alla moda anch’essa, possiede lo stesso grammofono, come un cimelio “vintage”, e le sue parole sono tattili e corpose, anche attraverso lo schermo di un pc, anche se vive in un continente diverso dal mio.

Io sono l’anello di una catena, quello che ha rischiato di spezzarsi, quello che non ha ceduto. Generata per ripercorrere strade già note, ma cresciuta per attraversare i confini di quel mondo in agonia, prima di far nuovamente rientro, se pur nella memoria, laddove, soltanto, ha senso la parola “casa”.
Emma Fenu