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martedì 30 giugno 2015

“Lucide Visioni” di Silvia Lorusso



Emily Dickinson - Per tutti gli estimatori, come me, riporto alcuni passaggi tratti dalla mia conferenza: “Lucide Visioni” inerenti alla sua poetica. 
Sull’Amore: Emily Dickinson sognava l’amore. Lo sognava, lo coglieva, lo trasformava. Talvolta, addirittura, lo anelava:
Se tu fossi malato -potrei mostrarti
che so tollerare lunghi giorni
senza la tua attenzione
senza nemmeno un piccolo segno
che mi rassicuri –

se tu fossi uno straniero
in una terra inospitale –
e mia, la porta a cui ti sei fermato
per una breve sosta – premio fuggitivo –
non di più-

fossi tu accusato – e io il tribunale
e i giudici ti avessero condannato –
non mi toccherebbe la tua sorte-
solo vorrei dividere l’infamia-

fossi tu il padrone della piccola casa
e mi permettessi di essere una donna per i lavori più umili-
mi faresti contenta-
non c’è servitù che vorrei affrontare
per te-
morire - o vivere –
morire: era non averti conosciuto –
vivere: l’amore –

Ma per Emily lo sconfinamento fino all’altro è cosa impossibile e i modi verbali dell’assenza – gli imperativi e i condizionali che ne contraddistinguono la poesia amorosa, ricadono su se stessi in una spirale tesa all’inattuabile. Un avvicinarsi… senza mai raggiungersi, come mani che si cercano, senza mai trovarsi.
Dedita all’ascolto interiore, è spesso nell’osservazione della natura, che questa poetessa intreccia sentimenti ed emozioni. Il suo sguardo, educato all’allucinazione dall’isolamento domestico…già pensate alle condizioni in cui viveva questa poetessa nata nel 1830 ad Amherst, nel Massachusetts. Famiglia borghese discendente da coloni puritani, trasferitisi in America, con tutto ciò che ne consegue, mi riferisco al tipo di mentalità, all’educazione e rispetto alla religione.
Dunque… nella solitudine data dall’isolamento domestico, la Dickinson trova nell’osservazione della natura, uno spettacolo di cui individuarne il montaggio e le finalità.
Ciò che non è visibile, è divinato, ciò che non è percepibile è drammatizzato. 
E’ come se avesse una seconda vista, molto vicina all’infantile e all’onirica, i contorni esatti dell’oggetto – animale, fiore, albero, vengono così elaborati, e filtrati attraverso una lente di grande sensibilità poetica, trasformando ciò che è dato naturale in un principio visionario.

Hai nel tuo cuore un ruscello
dove alitano umili fiori,
scendono a bere timidi 
uccelli e treman l’ombre?

Così quieto fluisce che a tutti
ne è occulta l’esistenza.
Eppure tu la tua goccia di vita
Ogni giorno vi attingi.
Sorveglia allora il tuo ruscello a marzo,
quando ogni fiume è in piena,
e la neve precipita dai colli
e i ponti spesso franano.

Ed in seguito, forse nell’agosto,
quando ogni prato è oppresso dall’arsura,
bada che questo ruscello di vita 
non si prosciughi in un meriggio ardente!

mercoledì 21 gennaio 2015

Il mio primo libro. Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”, di Emma Fenu.


Ho esitato, davanti al titolo che sovrasta l’articolo che vi accingete a leggere.
Molti sono i primi libri che hanno cosparso di parole i capitoli della nostra esistenza, come molti sono i primi baci che hanno accarezzato la nostra pelle.
Su quale libro urge, dunque, soffermarsi ora?
Vi è un primo che ci venne letto la sera, con la testa che affondava nel cuscino, quando ancora le lettere dell’alfabeto erano figure aliene, schierate, una dopo l’altra, come passeggeri stipati in piccoli vagoni separati da spazi bianchi, in un treno che giungeva a destinazione tramite la voce narrante del papà o della mamma.
Vi è un primo che ricevemmo in regalo, scartato con bramosia e suggellato da una dolce dedica.
Vi è un primo, infine, che leggemmo senza ausilio esterno, vittoriosi e felici, dopo aver avuto accesso al magico codice, i cui simboli, posti in avvicendamento sulla carta, lentamente si disvelavano… e la storia aveva inizio.

Le notti della mia infanzia, profumate di sapone di Marsiglia, sprigionato dalle lenzuola rosa, esordivano con le prime righe tratte da un tomo datato, riportante le Fiabe raccolte dai Fratelli Grimm.
Tuttavia, dopo una manciata di secondi, prendevano forma e colore altre storie, attinte dalla memoria, che mi proiettavano in distese infinite di piante di pomodori, dietro a corse con i piedi nudi, sulla terra fertile e umida, e fra sassaiole che coinvolgevano bande di ragazzini spettinati. Ogni sera mio padre componeva una parte della sua autobiografia, solo per me.

Fu mia madre, invece, a donarmi il mio primo libro, in occasione del mio terzo compleanno. Si trattava della versione cartacea di un cartone animato, all’epoca da me preferito, ossia “Heidi” di Johanna Spyri, che narra le vicissitudini della bimba dalle guance scarlatte, che si struggeva di nostalgia per i suoi monti della Svizzera, costretta dentro le mura di una lussuosa dimora di Francoforte. Alcuni giorni fa ne ho acquistato una versione edita nel 1953, in inglese. Il primo libro non si scorda mai.

Ma la svolta epocale della mia vita di essere contingente, avido di scoperta e di assoluto, fu il primo libro che lessi, agli esordi della scuola primaria, a sei anni appena compiuti: “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, un classico intramontabile.
Ho amato le sorelle March, tutte, come sorelle con cui ricordare e confrontarsi, come esseri pensanti, liberi dai vincoli della carta, dotati di pregi e difetti, che osservano lo svolgersi delle medesime vicende tramite il filtro della propria peculiare prospettiva.
Tuttavia, per Jo avevo una predilezione. 
Adoravo quella ragazza dall’indole ribelle e passionale, capace di ideare storie per intrattenere la famiglia, anche quando l’eco della guerra diventa silenzio assordante, anche quando le tenebre gelide della morte calano, inesorabili, e di battersi per il suo sogno, con ostinazione e anticonformismo, fino a diventare una nota scrittrice.

“Jo era molto occupata in soffitta, perché le giornate di ottobre cominciavano a farsi fresche e i pomeriggi erano corti. In quelle due o tre ore, durante le quali il sole si attardava con il suo calore sull’alta finestra, Jo, seduta sul vecchio divano, scriveva rapidamente, con le sue carte sparse sopra un baule”.

Desideravo essere Jo, da bambina. Non sono diventata Jo, ma me stessa, la quinta sorella March, come lo sono tutte coloro, Donne, anche se non più “piccole”, che hanno letto con trasporto il libro, apprendendo l’immenso fascino celato nell’intimo segreto delle piccole cose, quelle che vale la pena di assaporare e, tramite la scrittura, condividere.


Emma Fenu





mercoledì 24 dicembre 2014

"Io che desideravo essere Jo March di Piccole donne..." di Emma Fenu.





Piccole donne crescono

Piccole donne amano

Piccole donne piangono

Piccole donne aiutano

Piccole donne aspettano

Piccole donne vivono
”.

Roberto Vecchioni, Piccole Donne crescono.


Quando le lettere dell’alfabeto non furono più figure aliene che si succedevano una dopo l’altra, come strette in piccoli vagoni separati da spazi bianchi, in un treno che giungeva a destinazione dopo un lungo, sovente lunghissimo, viaggio, uno dei primi libri che mi regalarono fu "Piccole Donne".

Ed ecco, in quel momento topico, avuto accesso al magico codice, i simboli, posti in avvicendamento sulla carta, lentamente si disvelavano, e la storia aveva inizio. La storia narrata nel romanzo, ma anche la storia di una fanciulla di neppure sei anni, che diventava una lettrice. Una svolta epocale, in un’umana vita sottoposta alla contingenza.

Ho amato le sorelle March, tutte, come sorelle di sangue, come amiche con cui ricordare corse sui prati, come creature libere dai vincoli delle pagine, in grado di muoversi e offrire personali opinioni.
La bellezza intramontabile dell’opera di Louisa May Alcott sta, infatti, proprio nell’aver dato vita a esseri pensanti, dotati di peculiari pregi e difetti, che osservano lo svolgersi delle medesime vicende tramite il filtro di una personale prospettiva.

Tuttavia, per Jo avevo una predilezione. Una ragazza dal carattere ribelle e impulsivo, ma con un grande cuore, capace di inventare storie per intrattenere la famiglia, anche quando l’eco della guerra diventa assordante, anche quando l’ombra della morte cala impietosa, e di credere nel suo sogno, con tenacia e anticonformismo, fino a diventare una celebre scrittrice.
Come non adorarla?

Jo era molto occupata in soffitta, perché le giornate di ottobre cominciavano a farsi fresche e i pomeriggi erano corti. In quelle due o tre ore, durante le quali il sole si attardava con il suo calore sull’alta finestra, Jo, seduta sul vecchio divano, scriveva rapidamente, con le sue carte sparse sopra un baule”.

Non sono, però, un cosiddetto “maschiaccio”, né lo sono mai stata. Sono estremamente femminile nel pormi e, soprattutto, nel pensarmi. Ma, proprio perché Donna, detesto le costrizioni sociali che imponevano alle figure femminili, soprattutto nell’epoca in cui il libro è ambientato, ossia nella seconda metà del XIX secolo, un'atteggiamento di sottomissione e ostentata fragilità.
Io sono una combattente, un’eroina armata di penna e di una valigia di libri, che percorre, in prima linea, le strade della Vita e della Storia.

Volevo essere Jo, da bambina. Non sono diventata Jo, ma me stessa, la quinta sorella March, come lo sono tutte coloro che hanno letto con passione il libro, un'opera che offre molti messaggi su cui riflettere, anche per chi è, ancora, una piccola donna, se pur dell’era contemporanea, e deve apprendere l’immenso fascino celato nell’intimo segreto delle “piccole cose”.

Dividete il vostro tempo fra il lavoro e lo svago e fate in modo che ogni giornata sia utile e piacevole per dimostrare, impiegando bene il vostro tempo, che ne capite il valore. Così la vostra gioventù sarà bella, la vecchiaia non vi porterà troppi rimpianti e la vostra vita sarà un bel successo”.


Emma Fenu