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lunedì 28 settembre 2015

"UN GIORNO, QUANDO AVRO' UNA BAMBINA..." di Maria Cristina Sferra



STRALCIO

“Un giorno, quando avrò una bambina, la manderò a scuola di musica perché possa imparare a suonare il violino. È uno dei miei più grandi desideri quello di avere una figlia che suona il violino”, mi disse sottovoce.

Quello sguardo da guerriero, quel sorriso disarmante e quella confidenza mi confusero più di quanto già non fossi. Non so spiegare perché, ma ebbi una visione di un cielo azzurro punteggiato da candide nuvole simili a ciuffi di panna montata.

“Adoro ascoltare il violino e amo molto questa musica anch’io”. Fu l’unica cosa che riuscii a dire. Ed era vero. Ma c’era qualcosa di più che non potei confessare. Vidi un grembo gravido e desiderai fortemente di poter essere la donna che avrebbe generato quella figlia dai boccoli biondi che lui mi aveva detto di volere. Fu un pensiero tanto insensato che quasi me ne vergognai, ma tanto intenso da farmi capire in quali profondità di me stessa era andato a cadere questo sentimento. Il terreno su cui si era depositato il seme dell’amore si trovava in un luogo fondo e buio, sul limite tra lo stomaco e l’anima. Aveva germinato piano, quel seme, e ora non resisteva più, doveva uscire, voleva uscire a prendere luce, a prendere vita. L’incubazione era finita e a ogni nuovo richiamo da parte dell’uomo che lo aveva deposto, in quel luogo oscuro e tiepido ai confini dell’anima dove esso giaceva, cadeva una pioggerella lieve e muoveva un vento nuovo.

Mi incantai sulla musica e non riuscii a mangiare quasi nulla. Mi sentivo inerme, coinvolta a tal punto da non poter più opporre resistenza al flusso di pensieri e sensazioni che dal nostro stare vicini derivava. In ogni parola mi pareva di intuire una ricerca di conoscenza maggiore, un tentativo di contatto che superasse l’effimera ricorrenza di sederci accanto a tavola o di dividere la stessa stanza, o di invitarci con una scusa a bere qualcosa al bar dopo cena.

Mi incantai sulle sue mani nervose sul cui dorso spiccavano in rilievo vene cariche di sangue e poi sul suo sguardo smarrito tra le note stridule di quel violino, a cercare tra i righi del pentagramma il volto di quella bambina che ancora doveva essere concepita, ma che da qualche parte dentro di lui già gli sorrideva.

Brano tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra.

In tutti i bookstore online.


giovedì 24 settembre 2015

Che tu sia per me il coltello (Stralcio tratto da Vite di Madri di Emma Fenu)




STRALCIO

A scuola preferivo andare a piedi, perché il più delle volte lei era ubriaca e sbatteva la macchina sui gradini dell'entrata principale. 
Sento le risate dei mie compagni, le sento ancora.
E sento i singhiozzi di una bambina, che, nascosta dentro il cesto dei panni sporchi, agonizza di paura, perché la mamma la insegue con il coltello, convinta che sua figlia sia il demonio. 
Improvvisamente mi sveglio dall’incubo popolato da queste voci. La bambina sono io, le lacrime sono le mie. 
«Sto parlando di cose che non hanno nome, cose che nel corso della vita si accumulano sul fondo dell'anima, sedimenti e strati di terriccio. Se mi chiedessi di descriverteli, non saprei da che parte cominciare, non avrei le parole adatte. Solo una stretta al cuore, un’ombra passeggera, un sospiro». 
Tratto da "Vite di Madri" di Emma Fenu

EMMA FENU

venerdì 18 settembre 2015

"UN SOGNO OLTRE L'ORIZZONTE" di Elisabetta Pulcini

STRALCIO

UN SOGNO OLTRE L'ORIZZONTE

Buongiorno a tutte ragazze!! Vi ringrazio tanto per il aver condiviso con me il mio piccolo successo e con grande piacere ed entusiasmo propongo un nuovo estratto: 

"L’ arrivo di Camilla provocò molto scompiglio alla villa, ma anche molta felicità, sia nei cuori dei padroni, sia in quello di Devis che, con il passare dei giorni, sembrava essere sempre più preso da lei. [---] -Sei proprio uno stolto, amico mio! Rifletti. Ammesso che venga all’ appuntamento, sei proprio sicuro che ti accetterà sapendo che sei uno stalliere?
Esclamò Massimo, cominciando ad alzare la voce.
-Non lo so, ma credo che non lo saprò mai se continuo a seguire i tuoi consigli!
Ribattè Devis, alzando la voce a sua volta.
-Ah si! Beh, buona fortuna allora, ma non venirmi a cercare quando scoprirai che avevo ragione, perché non ti consolerò!
-Non mi servi né tu né il tuo pessimismo per gestire la mia vita! L’ America è un tuo sogno, ma non puoi privarmi del mio.
-Non era solo il mio prima dell’ arrivo di Camilla, ma se vuoi che sia così, fa pure. Te l’ ho detto, io partirò comunque!
Disse Massimo, allontanandosi furioso."


ELISABETTA PULCINI



venerdì 14 agosto 2015

"LA NATURA DELL'AMORE" di Daniela Nutini

STRALCIO

da un mio libro "La natura dell'amore"

Lui le prende il volto tra le mani. Non sa ancora come sia compito il miracolo: la fanciulla con la brocca d’argento è tornata da lui. Le sue mani scendono intorno al collo, alle spalle di lei, così contaminata e fiorita da lui, mentre pensieri gli si agitano come schegge “ è una bambina… la mia bambina……è una bambina ma ho paura di lei……potrei ucciderla se volessi e mettere così fine a tutto come se niente fosse stato…..è la mia piccola, il mio tesoro….mein Kleiner, meine Suesse.”
Lei sapeva di talco, un odore di pulito e un po’ anche di arance, di pelle bionda e pulita- di legno forse come di trucioli di matita appena temperata, di libri, di carta, ecco di cosa odora.. Fuori il caldo della primavera, il sole a sciabolate attraverso le persiane socchiuse nella camera dove lui la conduce, la tappezzeria gialla delle pareti, il letto fino a quel momento sconosciuto. E’ solo ora che sa di poterla avere, che non è un caso, una fantomatica avventura ritagliata nel tempo, una casualità irrepetibile. Le guardò ora il colorito pallido che nessun rossetto interrompe , la guardò mentre si leva il vestito ed il suo corpo gli pare un oggetto straordinario che lui aveva acquistato a caro prezzo, un oggetto il cui valore cresceva con il tempo , da stimare più di ogni cosa al mondo. Lei parla e le sue parole lo riempivano di una fragranza speciale: era un tesoro, un tesoro magico e possente : lui le mormora che era bella, che era buona, un tesoro, lei pare davvero fiorire davanti a i suoi occhi e allora la copre con il suo corpo nudo con una avidità tale che si accorge come lei lo volesse davvero , lo volesse pigliare con gioia, con vanto, con senso di vita mentre gli parla delle cose che un uomo vuole sentirsi dire quando è sopra una donna. Non sapeva da dove le venisse questa scienza d’amore ma gli parve una cacciatrice, una Diana Fanciulla, che lo faceva col cuore, e questa era la sua virtù. Lei ardeva : e lui fu sommerso da quel fuoco di passione, inghiottito da abissi inesplorati: e seppe allora che non avrebbe mai più potuto lasciarla.

DANIELA NUTINI

lunedì 10 agosto 2015

"LA STRADA DI INSTANBUL" di Daniela Nutini


STRALCIO 

Questa è una parte di un mio racconto "La strada di Instanbul"

" Parlarono poi a lungo, nel buio, sussurrandosi i segreti dell'amore e della gioventù. Rainer confidò la sua infanzia, la cittadina piccola e squallida, il padre triste , la madre malaticcia. L'alzarsi la mattina nell'alba gelata con il cuore ghiaccio di squallore , la colazione trangugiata in fretta lasciata per lui nella cucina ancora in penombra. Solo, pieno freddo, con i libri legati con la cinghia si avviava di corsa a quel purgatorio in terra che era la scuola, covo di una banda di piccoli malfattori di provincia. Grazioso come era, era sempre dileggiato, sempre punito, mai un momento di pace, con le matite spezzate, i quaderni insudiciati e il maestro con la bacchetta sempre pronta. I ginocchi non guarivano mai per le sbucciature continue e le mani arrossate dal freddo gli prudevano per i geloni e gli occhi perennemente infiammati dalle lacrime non piante. Per non dare pena alla madre non raccontava niente – il padre non contava - e la sera le si rincantucciava contro, accanto alla stufa, per sentire le sue storie. Oh la felicità di quei momenti mentre il b ricco cantava le sue note sul fuoco ed il burro cremoso aspettava sulla tavola! Poi la mamma era morta e lui era cresciuto. Era diventato forte e nessuno più lo dileggiava. Si era indurito: puliva la casa , accudiva il padre sempre più silenzioso . Aveva lasciato la scuola e lavorava e amava da lontano Margarethe, la figlia del fornaio, la graziosa Greta dai vaporosi riccioli neri e dagli orecchini di corallo. Sembrava una zingarella e lui sognava di baciarla tra i rami dei salici, lungo il fiume, dove andava a leggere storie di indiani, lontano da gli altri ragazzi . Poi era scoppiata la guerra, c'era stata la milizia e l'esercito e i morti e ,l'orrore e la paura e i compagni perduti ed era la prima volta che gli tornava in mente il colore del burro sulla tavola della mamma, nel piatto largo dai grandi fiori azzurri.
A Mitia questi poveri racconti stringevano il cuore. Come diversa la sua spavalda giovinezza difronte a questi miseri fatti. Eppure Rainer li raccontava con fiducia, alzandosi seduto , tutto accalorato. Lui sapeva a quali orrori doveva avere assistito, quante persone aveva dovuto uccidere per arrivare sino là: eppure l'unico suo orrore era l'aula della scuola con il suo odore di gesso e l'unica sua paura la bacchetta di un vecchio cretino".

DANIELA NUTINI

sabato 1 agosto 2015

"IL SOLE SCURO" di Irene Barbagallo"

STRALCIO

IL SOLE SCURO

Lui le cammina accanto e Giada lo vede ancora come è veramente, un ragazzo vile che fa il viveur, ma è soltanto uno che non sarà mai un uomo con le palle, pieno di buchi neri con le pezze cucite sopra. Però sente il cuore che le batte forte. Una volta un’amica di sua madre, una con la fissa per i corsi sulla comunicazione, le aveva detto che le reazioni emotive arrivano sempre prima dei ragionamenti. Vorrebbe rallentarlo, quel ritmo accelerato che sente aumentare come il rollio di un aereo in corsa sulla pista, ma sa che non può farcela. Deve assecondarlo, seguire quella strada, contro ogni ragione. 
Giada resta in piedi, poggiata con la schiena alla parete libera della sua camera, per sentire il duro, come è stata la storia con Stefano, nella forza plasmata dall’unione delle loro debolezze. Come la sua violenza.
Stefano si inginocchia sotto di lei e piange.
«Ci ho provato a stare senza di te. Non ce la faccio, Giada. Io non ce la faccio».
Anche a Giada viene da piangere, ma si trattiene. Vuole che la mente abbia la meglio, ma quella tenaglia nella gola è una presa invincibile, più forte di ogni suo comando. Stefano avverte la china nelle sue difese, continua senza mollare:
«So di avere sbagliato. Avevi ragione tu, non meritavo il tuo perdono. Io non merito niente. Mi sono preso a schiaffi tutti i giorni, per aver perso l’unica cosa bella che mi fosse mai capitata. Per questo non ti ho più cercata, perché non volevo continuare a trascinarti nella mia vita da schifo».
Giada è ferma, lo lascia fare. Stefano le abbraccia le gambe, piega la testa di lato e la appoggia là, con l’orecchino sul suo pube, i singhiozzi che si sono allentati. Lei chiude gli occhi e le mani si posano su quei capelli cresciuti come il languore che comincia a possederla. Trema. Non sa se strapparli o accarezzarli, ma i suoi movimenti sono lontani dalle sue domande, non può fermarli, hanno già le loro risposte.
«Non lo faccio più. Sono cambiato. Voglio toccarti solo per accarezzarti. Ti do la mia parola. Te lo giuro, te lo giuro».
Di punto in bianco Giada si sente responsabile del suo dolore, del proprio, di non aver combattuto con lui, per vincere la pigrizia di non essere come tutti gli altri giovani, concreti e solidi, privi delle masturbazioni mentali che li hanno portati a diventare quasi dei disadattati. Stefano non sa nulla di Gerino, della strada nuova che le si è aperta davanti, forse l’unica percorribile per iniziare a diluire i suoi turbamenti, a volersi bene. Ma non le interessa, non le importa nemmeno di Gerino. Ora c’è Stefano ed è tutto.
Sente il vuoto nello stomaco sempre più grave. Fa alzare quel cumulo di muscoli rilasciati ai suoi piedi, accompagnandolo dai gomiti, e restano così, a guardarsi con gli occhi che si sono fatti profondi, assorbono dallo sguardo dell’altro l’essenza della vita.

IRENE BARBAGALLO

"MAMMA NON SI MUOVE...." di Emma Fenu

STRALCIO

Mamma non si muove, resta avvolta nel piumone verde, cosparso di margherite bianche. Vorrei che passeggiassimo insieme, su un prato vero, umido e sconfinato, che corressimo, scalze e spettinate, e che lei mi sorridesse.
Ma i sorrisi sono doni che elargisce solo allo specchio, dopo che si tinge le labbra con l’ultima nuance proposta da Dior e si prepara ad uscire per cena. Non ho dubbi: va di nuovo nel Paese delle Meraviglie, stavolta con l’ausilio di pozioni che non ho mai visto, perché non sono presenti in casa, ma so bene che esistono. Ne conosco l’aroma. Il suo fiato ha, infatti, una consistenza amara e densa, quando rincasa, a notte fonda.
Io sono ancora sveglia, ma non emetto suoni nel momento in cui percepisco il movimento delle chiavi che roteano nella toppa e il rumore dei suoi tacchi che perforano il silenzio come chiodi.
Imito le movenze di Lily, la mia gatta bianca e grigia, ed entrambe scivoliamo come marmellata sul burro, attraversiamo il corridoio e raggiungiamo la porta socchiusa della camera da letto della mamma, con il prato straziato sul letto sfatto, come un giardino dopo l’esplosione di una bomba.
Lily entra, fa strada, fende il gelo e io la seguo.
Eccola. Le labbra sono ancora rosse, ma non hanno una linea definita. Sembrano una ferita sanguinante. Le lacrime si fondono con il mascara e rigano il suo volto. Mi ricordano le tempere sul foglio, quando non presto attenzione e i rigagnoli di colore che colano diventano sempre più inconsistenti, fino a svanire nel nulla.
Mi piace osservare il loro percorso di morte, finché la maestra non mi rimprovera, con un urlo secco e ruvido. Non so mai se è solo suono o se è, invece, un graffio.
La mamma apre il cassetto e prende la boccetta di Alice.
«Prendi anche tu, questo mondo non è per noi».

Tratto da Emma Fenu, "Vite di Madri. Storie di ordinaria anormalità".

venerdì 31 luglio 2015

"MICHELA" di Paola Trane



MICHELA

Libera come il vento, la giovane contessa Michela Crovecuer, correva in sella al suo cavallo bianco, per la sterminata prateria. Era felice quel giorno, fra poco il suo ragazzo, il giovane banchiere Charles Fourier, sarebbe ritornato dall'America, e lei non vedeva l'ora di rivederlo e di riabbracciarlo. Oh, come erano stati infelici quei mesi senza di lui, e quanto aveva pianto quando lui, le aveva fatto l'ultimo saluto di addio da sopra la nave. Si era imbarcato, perche gli affari esigevano la sua presenza li, in quanto suo padre, che si stava riprendendo da una malattia, non aveva potuto affrontare il viaggio.
Arrivo vicino allo stagno di proprietà della sua famiglia, scese da cavallo e lego le redini ad un albero. Si sedette in riva allo stagno e guardo l'acqua scintillante al sole, per interminabili secondi.
I suoi lunghi capelli biondi brillavano, e i suoi occhi azzurri, sembravano assorti in seri pensieri. Magra, anche se leggermente bassa, era una ragazza bellissima, che amava molto cavalcare e viaggiare. Pero che barba, lei aveva potuto viaggiare solo in compagnia della sua dama di compagnia, la signora Angela Fiorini, una signora molto simpatica, con la quale andava molto d'accordo. Quanto avrebbe voluto essere povera ed avere tutta la libertâ del mondo. In quell'enorme palazzo lei si sentiva soffocare, prigioniera di enormi e antipatiche regole. E tutti quei ricevimenti, che richiedevano la sua presenza come figlia del conte, quanto avrebbe voluto evitarli! Ma come fare? L'unica sua felicità in quei mesi di completa solitudine, erano le sue interminabili passeggiate a cavallo. Guardo lo stagno, e fisso l'acqua. Si vide su una nave che dalla Francia la portava in America.

(Una paginetta del mio romanzo breve, genere romanzo storico della harlequin Mondadori, pubblicato a Lecce dieci anni fa. Fatto girare ed è catalogato nella biblioteca provinciale di Brindisi).

PAOLA TRANE

mercoledì 29 luglio 2015

"IL GUARDIANO DEI SOGNI" di Rossana Tasselli

STRALCIO

IL GUARDIANO DEI SOGNI

Accaddero strani fatti nell’inverno dell’anno tredici e un
quarto a Borgomancante, provincia di Quiolà.
Fatti di cui si occuparono le cronache locali con dovizia
di particolari e abbondanza d’interpretazioni, che
richiesero l’intervento della forza pubblica e della
magistratura, ma che non furono mai chiariti del tutto,
rimanendo avvolti da un’aura di mistero e magia.
Borgomancante non era nuovo ad avvenimenti di questo
genere, ma mai nessuno, né la processione di Ciambelle
all’origano del Premiato Panificio Zenzero, né il concerto
di beneficenza delle Cicale del Borneo, né tantomeno la
Pentolaccia con la zuppa di ceci e gli Sbandieratori di
lattughe di Cipro, superò in magnificenza e portento
questa arcana manifestazione tramandata ancor oggi alle
nuove generazioni.
Nulla preparò la cittadinanza ad affrontarli: nei giorni
precedenti si verificarono soltanto due trombe marine,
un’eclissi di sole e una migrazione di cavallette, ma
nessuno li interpretò come presagi, e la mattina del
quarantaduesimo giorno del mese la città si svegliò
tranquilla nelle sue solite vesti.
Nel salone di bellezza Bellochefatto regnava la pace
assoluta, così come nella gelateria Cono d’Ombra,
nell’officina Dado Tratto e nell’osteria Grande Abbuffata.
Mino lo spazzacamino era intento al suo giro sui tetti,
quando un urlo straziante lacerò il silenzio delle vie
ancora deserte.
Proveniva dalla bottega del sarto.
La gente si affacciò subito alle finestre, si arrampicò
sui lampioni e si precipitò giù dalla tromba delle scale
per vedere cosa fosse successo; ma al di là della vetrina
dell’atelier non erano state ancora accese le luci, quindi
non c’era modo di capire in che condizioni versasse il
povero Boccacucita.
Che fosse caduto, spezzandosi un braccio, una gamba o
l’osso del collo? Che l’avessero derubato? Che fosse
stato preso in ostaggio per una rapina alla banca?
Qualcuno chiamò i pompieri, qualcun altro i carabinieri,
la signora Ariafritta telefonò alla guardia forestale e il
signor Strozzapreti contattò l’esercito. Sul posto
arrivarono tutti a sirene spiegate. In men che non si dica
l’ordine fu ristabilito e un gruppo di poliziotti in tenuta
antisommossa entrò finalmente nella bottega.
Boccacucita sembrava star bene: se ne stava immobile, in
piedi, al centro del suo negozio, con gli occhi sbarrati e il
respiro bloccato nella O disegnata sulle sue labbra. Si
limitò a sollevare l’indice e indicare i suoi manichini.
Tutti nudi. Qualcuno aveva rubato tutti i vestiti pronti per
la consegna.
La cosa si chiuse lì. Un soccorritore distese sulla barella
Boccacucita, rigido come uno dei suoi figurini, e lo
caricò sull’ambulanza con la sua O ancora stampata sul
viso. La buoncostume, a tutela del comune pudore, gettò
dei teli sui manichini; i carabinieri rilevarono le impronte
digitali, comprese quelle dei figurini; poi vennero
abbassate le saracinesche e la folla venne fatta sloggiare.
Tutto tornò alla normalità nel giro di pochi minuti, e la
città si rimise in moto come ogni giorno.
Ben presto la cittadinanza superò il trauma e l’accaduto
fu dimenticato. Il furto venne attribuito a ignoti e costoro
vennero processati per direttissima, beccandosi un anno
in contumacia, mentre i cittadini danneggiati vennero
risarciti dall’assicurazione con abiti di seconda mano ma
più che confacenti alle circostanze.
Ma all’alba del terzo giorno un nuovo grido squarciò la
ritrovata serenità del borgo. ...

ROSSANA TASSELLI


lunedì 27 luglio 2015

"IL CASALE DEI RICORDI" di Federica Squillace


IL CASA DEI RICORDI 

"Mancavano pochi minuti alle tre di pomeriggio quando giunsero davanti alla casa di sua zia: un anonimo condominio beige di quattro piani, giardinetto tutto intorno e rastrelliera per le biciclette. Il massimo dell'allegria erano alcuni solitari vasi di fiori che sbucavano da qualche balcone! L'appartamento era al secondo piano: non considerarono nemmeno l'ascensore e presero le scale. 
Vittoria continuava a camminare avanti e indietro, incapace di decidersi se suonare o meno il campanello. Avvicinava le dita al pulsante e le tirava via. Non sapeva proprio se avrebbe avuto la forza di reggere quella conversazione. 
Alessandro, di contro, non le faceva pressione di nessun tipo: si era messo poco distante dallo zerbino che sostava davanti alla porta e la guardava dolcemente, in attesa che lei prendesse una decisione.
«Secondo te, cosa dovrei fare?» gli chiese, disperata.
«Qualsiasi cosa pensi ti farebbe stare meglio».
«Allora dovrei risalire subito in auto e guidare verso la spiaggia più vicina per tuffarmi nel mare, portandoti via con me! Questo sì che mi farebbe stare meglio…», e gli prese la mano, appoggiandola sul volto e chiudendo per un istante gli occhi.
«Se me lo chiedessi scapperei con te anche in questo istante. Lo sai, vero?».
«Beh, mettiamola così: se tutto va come deve, ci andiamo davvero al mare insieme, ok?». 
«Affare fatto!» disse, baciandole la mano.
«Non mi resta che suonare allora… giusto?».
«Io sarò accanto a te, sempre».
Vittoria si sentì finalmente più sicura e così suonò il campanello."


FEDERICA SQUILLACE

lunedì 13 luglio 2015

"TEMPO INVERSO" di Laura Pellegrini Autrice




STRALCIO

David che adesso la guardava dall'altra parte della strada, appoggiato ad un palo, con gli occhi azzurri più belli che lei avesse mai visto e un accenno di barba di due giorni che lo rendeva ancora più bello, era lì. Rimase immobile a fissarlo, sperando lui non l’avesse notata, ma invece lo vide avvicinarsi a passi sicuri nella propria direzione.
Flavia si voltò a guardare se la macchina con l’autista fosse arrivata. Non c’era ed Erick era ancora al telefono. Sentì le gambe muoversi da sole e compiere due passi in avanti verso il ciglio della strada. Il proprio corpo, traditore, protendeva verso quell'uomo che era sempre più vicino. Si fermò sul bordo del marciapiede come fosse in procinto di buttarsi da un dirupo e con grande sforzo, rimase lì, immobile, obbligando ogni muscolo del proprio corpo ad assecondare il proprio volere. David era a pochi metri da lei e nel guardarlo le venne in mente l’incontro al Giardino delle Rose, il profumo dei fiori, il sole caldo e lui, con il suo sorriso magico che le era scivolato dentro marchiandola per sempre. Ma lì non c'erano rose, né fiori appena sbocciati. C'era solo vento freddo che congela ogni cosa, anche i sorrisi. David si era sposato, non era più suo e non lo era mai stato. Sentì il freddo passarle attraverso il cappotto, insinuarsi sotto i vestiti e la pelle, inondando quel piccolo spazio in fondo al cuore che si era scaldato alla sua vista.
“Ciao.” 
“Cosa vuoi?”
“Vederti.”
“Io no.”
“Flavia per favore...”
“Cosa ci fai qui?” 
“Mi manchi.”
Lei lo fissò alcuni istanti. “Bugiardo.”
“È la verità.”
Lei rise sarcastica. “Tu non sapresti distinguere la verità nemmeno se la trovassi attaccata al tuo naso!”
“Flavia dammi modo di...”
“Un ‘no’ come risposta ti basta?” lo interruppe.
[...]
“Flavia...”
Lei tremò appena. “Non… Pronunciare il mio nome” disse piano.
“Perché?” 
Lui si avvicinò di due passi e lei lo guardò senza respirare. Non poteva dirgli che sulle sue labbra il proprio nome risuonava come una musica bellissima, che le toccava corde nascoste sotto cumuli e cumuli di raziocinio. No, non poteva dirglielo, così mentì.
“Perché mi dà fastidio” bofonchiò, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi.

da Tempo Inverso

LAURA PELLEGRINI AUTRICE

"A MEZZOGIORNO DEL MONDO (una storia d'amore) di Maria Cristina Sferra



● ESTRATTO ●
Poco dopo non fui più sola. Me ne accorsi come ci si accorge di essere osservati in mezzo a una folla e si trova con lo sguardo quello di chi ci guarda. Solo che lì non c’era nessuno. Aprii gli occhi e mi voltai verso l’uomo che se ne stava in piedi a qualche metro di distanza con le mani in tasca, un buon sorriso sulle labbra e gli occhi sinceri. I pantaloni cachi che indossava erano puliti e così la camicia verde. Mi fece cenno di avvicinarmi e mi indicò la scala da cui era sceso sino alla terrazza. Mi fidai di lui senza comprendere che cosa significasse quel suo invito. Mi fidai istintivamente, come spesso accade. Mi alzai dai miei pensieri vuoti e mi avvicinai. Aveva gli occhi verdi, di quel verde che ha il mare quando non è turchese e neppure blu, e denti bianchi e regolari sulla pelle olivastra. Poteva avere trent’anni. 
Di che colore erano gli occhi di Guglielmo? 
D’improvviso, come un pensiero non cercato, vidi lo sguardo verde da guerriero. Verde come il colore dei boschi del nord Europa nei giorni privi di sole. Verde sottobosco. Amavo quel colore che si confonde e muta per non essere mai uguale a se stesso. Amavo il suo sguardo torvo e fondo. Fui felice di quel lampo. Se avessi cercato di ricordare, non ne sarei stata capace. Era venuto da solo, quel piccolo particolare. 


Brano tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra.

In tutti i bookstore online!
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MARIA CRISTINA SFERRA


sabato 11 luglio 2015

"IL SOLE OSCURO" di Irene Barbagallo

STRALCIO

IL SOLE OSCURO

Stefano va a prenderla a scuola tutti i giorni. I compagni li guardano mentre camminano in fretta, si meravigliano di vedere Giada con un ragazzo, spettegolano come al solito.
«Non ho voglia di venire a casa tua».
«Andiamo in un bar. Dobbiamo parlare».
C’è un locale, due isolati più in là, frequentato dagli impiegati durante la pausa del pranzo.
«Ti va un toast?».
Lei ha ancora lo zaino sulle spalle, lo sfila con sgarbo, lo sistema sotto la sedia di plastica bianca. Solleva le spalle, un gesto di fastidio, la bocca che si serra in una smorfia di indifferenza.
Il bar ha i tavolini fuori, in uno spiazzo allargato del marciapiede. Le sembra di stare sulla strada, le macchine passano a pochi metri da loro sollevando smog e polvere. Non piove da settimane, sull’asfalto si è formato uno strato di sporco appiccicoso.
«Domani fai il test di gravidanza. Te lo faccio trovare da me».
Giada morde di malavoglia il suo pranzo. Non ha nessuna voglia di mangiare, tutto scende frenato, senza sapore. Guarda quell’orecchino sul lobo sinistro e vorrebbe strapparlo, tirarlo giù, tagliare quel pezzo di carne molle. Sente di odiare quel ragazzo più grande di lei con un passato alle spalle, e di non poterne fare a meno. Due sensazioni opposte, la rivalsa e il bisogno di aiuto, il rimprovero e l’urgenza.
Stefano strappa la linguetta della lattina di coca-cola, il gas schizza fuori con una piccola esplosione. Anche Giada si sente esplodere dentro, pensando alla risposta che avrà domani. Dalla lingua sale sul palato un senso di pienezza bagnata, lo stomaco si rivolta, ha un conato di vomito ributtato giù. Getta nel piattino il mezzo panino che le è rimasto in mano.
«Non mangi più?».
«Ho la nausea. Sai la nausea che…».
«Se è così vedremo come fare».
Non si conoscono da molto e Giada non l’ha ancora inquadrato. È uno che non si può classificare in un genere. Nessuno si può etichettare come se fosse una marmellata di fragole o di pesche. Ci sono persone che sorridono ai quattro venti, hanno sempre l’espressione dei perfetti adattati e, quando restano da sole, si domandano che ci stiano a fare. Altre affermate, di successo, che hanno accumulato fallimenti nella vita privata. Portano maschere per nascondere agli altri e a se stessi i propri vuoti. Le viene in mente suo padre, che un giorno le disse:
«Nessuno è buono o cattivo. Ci sono le vie di mezzo in tutti. In ciascuno di noi c’è del grigio».
Stefano tira su il colletto della camicia, si gratta il petto senza peli. Lei pensa che si depili. Alcuni uomini lo fanno e non ha mai capito perché.
«Sono nata sotto una cattiva stella», un anatema che si lancia da sola.
«Anche la mia è stata stronza. Non ho i genitori. Li ho persi due anni fa in un incidente stradale. Da allora ho cambiato vita».
«Come?».
«Non me ne frega più niente di niente. Siamo niente».
Il niente. È stato un niente anche quella sera, mezz’ora di alcol, di fumo, di sesso senza emozione. 
Hadrian è morto per un niente. Davvero tuffarsi nel mare è stato un niente, un pugnetto di minuti e lui che non è più niente.
Non è vero che le persone sono grigie. Lei era tutta colorata, prima. Suo padre era la tavolozza da cui attingere le sfumature della vita, la luce del sole che si rifrange dopo un acquazzone. Forse nemmeno la morte è uguale per tutti. Dipende da come si è vissuto, da quello che si lascia negli altri.
Il niente che apre voragini.

IRENE BARBAGALLO


lunedì 6 luglio 2015

"IL SORRISO TRISTE DEI GIRASOLI" di Gheorghe Liliana


IL SORRISO TRISTE DEI GIRASOLI

Soffro d’insonnia ed ho trovato, dopo molti anni, il modo per superarla. 
Mi sono letteralmente appropriata dei libri e delle parole.
Approfitto dell’insonnia per scrivere.
Sto per affogare, ma nessuno se ne accorge. 
Sono con l’acqua alla gola e mio figlio ha fatto gol con la cacca. Dice Lui, lo psicologo.
Povero figlio mio …
Ed io che me la ritrovo sempre in faccia!
Ormai mi pesa come l’insonnia il giorno dopo.
Sto contando i giorni per vedere la notte.

I girasoli non sorridono mai.
A noi che li guardiamo sempre di fretta sembrano allegri.
Una marea di sorrisi illuminati dal sole forte e caldo. Tutti insieme, festosi e composti. 
Quando passa il vento, si inchinano a salutarlo: “arrivederci, signor Vento!”
Quando sorge il sole, lo fissano a bocca aperta: “buongiorno, signor Sole!”
E quando la tensione immobile della calura si attenua fino al sonno profondo: “ben arrivata signora Notte!”
Sono educati, ma non sorridono mai. 
Mi è capitato, una volta, di scorgere per un attimo un girasole solitario sul ciglio della strada, subito dietro una curva. Alto, robusto, con le radici ben piantate nella poca terra arsa e nell’asfalto bollente di fine luglio. 
Pregava. Forse mi pregava, forse voleva dirmi qualcosa. Forse tentava di dire qualcosa a chiunque passasse di lì sempre troppo di fretta per fermarsi. 
Con le braccia piegate verso l’alto, con l’intenzione di giungere le mani come a pregare ancora, con la pesante corolla protesa in avanti, quasi a uscire dall’immobilità, sembrava un bambino tetraplegico, nello sforzo, ancora casto e sincero, di uscire da un corpo senza più anima.
No, non sorridono.
Sono complicata e ho capito anche perché.
Disturbo da stress post-traumatico.
Dividere il capello in quattro.
Fare una psicoterapia oppure quello che mio marito considera complicarsi la vita. 
Cerco di far luce nella vita.
Schierarmi oppure chiarirmi.
E’ per questo che mi sono messa a fare le pulizie.
Centro d’igiene mentale.
Voglio indagare sull’ Io e a che distanza mi trovo da Lui. 
La depressione mi ha fatto capire tante cose.
Che c’è una parte di noi che non accetta il compromesso, volevo capire tutto e subito per rimediare i danni.
Avevo fretta di risolvere, di circoscrivere la ferita per poterla accettare e curare.
L’ ansia cresceva perché la paura era incontrollabile.

Non sorrideva affatto il girasole solitario.
E’ la moltitudine che li rende allegri e vivaci.
La moltitudine nasconde e confonde.
A volte fa credere cose che non esistono. 
Noi vediamo un mare giallo e verde ondeggiare sotto la spinta gonfia del vento e invece c’è il nero assoluto.
Un buco profondo di tristezza e perduta malinconia.

Ereditarietà, familiarità, genetica, disturbo bipolare, schizofrenia, suicidio, trauma, terremoto, sopravvissuto. 
La paura delle parole.
Stavo sempre più male, andavo addirittura da più psicologi e psichiatri contemporaneamente per capire le mosse giuste.
Ho comprato i libri che aveva il mio psicologo nella sua libreria; cercavo su Internet la bibliografia dei grandi psichiatri ed ho riempito in pochi mesi tutti i miei scaffali con i libri che avrei dovuto comprare in quindici anni di soggiorno in Italia.
Mettevo un po’ paura con questa mia fretta di star meglio. 
Dipendeva da me cambiare certi schemi. 
Non sapevo come fare. 
Mio marito diceva che lui, lo psicologo, si stava costruendo una casa con i nostri soldi.
Non capiva che la casa la dovevo costruire per me, per il bene della nostra famiglia.
Solo il Signore sa quanto stavo male e quanto volevo cambiare!
Perché io la casa non l’avevo, anche se vivevo dentro una casa nuova, comprata da poco tempo.
Avrei fatto di tutto per dimenticare il passato e cambiare il presente.
Più passava il tempo invece e più pensavo a quello che ho passato.
A come ho ereditato il male e a come dipendesse tutto da me. Che responsabilità! 
Che peso, che vuoto, che perdita, che impegno! 
E quanta acqua in bocca!
Siamo abituati a guardare in superficie, sempre di fretta, senza più il gusto di soffermarsi sui particolari, sulle espressioni dei volti, sui colori tenui delle emozioni, sulle trame delle vite di coloro che ci stanno accanto. Che urlano in silenzio, che piangono, che ridono, che hanno una gran voglia di contatto, di connettersi, di sentirsi in sintonia con qualcuno. Almeno per un po’.
Occorre sussurrare la pazienza; occorre infondere la fiducia prima che la fede, perché la fiducia è più della fede.
Occorre stare insieme ed aspettare che il vento passi. Perché passa.
Leggevo che un modo per dimenticare le cose è ricordarle.
Mi sento in dovere di ricordare quello che mi è successo e perché disturbo da stress post-traumatico è la diagnosi del mio male.
Perché perdo il controllo delle lacrime? Vengono giù come se volessero lavare il viso.
Un volto raggrinzito dal tempo con lacrime da bambina.
Sono mortificata anche per l’effetto che fanno sugli altri.
Gli Altri!
Sono mortificata!
Nati per connettersi. Tutti noi siamo nati per connetterci: uomini, donne, bambini, neonati, vecchi, buoni e cattivi, cialtroni e gente per bene. Siamo programmati per condividere e intuire l’un l’altro intenzioni, emozioni e stati d’animo, per capire come si sente chi ci sta vicino.
Gli Altri!

GHEORGHE LILIANA



sabato 4 luglio 2015

"UN VOLO DI FARFALLE" di Brunella Giovannini

 UN VOLO DI FARFALLE

In un'altra dimensione...
Una luce intensa avvolgeva un grande prato. Tra i fili d'erba di un colore verde chiaro, faceva capolino una distesa di piccoli, coloratissimi fiori. Al centro, un albero imponente, dove da un grosso ramo pendevano due altalene. Il cinguettio degli uccelli era una melodia e accompagnava i movimenti di due bimbe che si dondolavano.
"Come si sta bene qui! Vorrei rimanerci sempre!"
Una delicata brezza accarezzava i capelli di Anna Paola.
"Si sta meglio che laggiù... Qui respiro bene e posso muovermi liberamente senza vincoli di fili collegati alle apparecchiature! E.. la tua testa, tutta fasciata, come sta? I tuoi occhi sono neri come il carbone!"
"I tuoi invece sono azzurri e hanno il colore del mare. Mi piacciono i tuoi capelli, sono lunghi e mi fanno pensare... al miele. Sotto questa fasciatura, io non ho più i capelli, li hanno rasati prima di farmi entrare in sala operatoria. Erano neri... tu diresti come il carbone; nel mio paese molti hanno i capelli scuri come avevo io."
"Aisha, tu da dove sei arrivata? E' lontano il tuo paese?"
"Vivevo in Siria con la mia famiglia, ma là c'è la guerra e siamo fuggiti..."

BRUNELLA GIOVANNINI

"VITE DI MADRI" di Emma Fenu

STRALCIO

INCIPIT di Vite di Madri.
Capitolo Primo
Chi siamo?

«Non credo che tu sia la persona in grado di guarirmi dalle ferite interiori; ma forse, in questa fase della mia vita, non ho tanto bisogno di un medico quanto di una persona che abbia una ferita simile alla mia».
David Grossman

Tutto ha avuto inizio con una storia, la mia.
Maglia in cotone rosa, pagina bianca di word davanti agli occhi e mille parole in circolo che, dalla mente e dal cuore, si dirigevano, accalcandosi nello spazio angusto dei capillari, fino ai polpastrelli, vibranti e pulsanti nella danza sulla tastiera.
Tac tac tac tac. Punto. Pausa di silenzio.
E, dopo una manciata di istanti, ancora la melodia dei tasti premuti troppo in fretta, con passione veemente, come quando si accarezza il volto di un innamorato da cui si è stati separati per lungo, troppo tempo.
Ricordo distintamente di quando mio marito, agli esordi della nostra relazione, trascorse, per esigenze professionali, due mesi e mezzo in Giordania, lontano da me. Ci rincontrammo in una stazione del sud Sardegna, illuminati dagli ultimi raggi del sole che cedeva al tramonto, e le nostre mani, avvolte attorno al viso dell’altro, parlavano, nel silenzio delle bocche, dell’euforia di un nuovo inizio.
Conoscevo, dunque, quella sensazione: esprimere con le dita il desiderio di fermare il tempo, nell’ardore di sfiorare l’eternità.
Inizialmente mi proponevo di scrivere una sincera e non vittimistica testimonianza inerente all’endometriosi, malattia che ha segnato il destino di mia madre e il mio, entrambe unite da amore, DNA e diagnosi, e sulle conseguenze che essa comporta sulla fertilità e sulla vita quotidiana.
In realtà, cercavo “Emma”, la volevo tenere stretta, al caldo, in sintonia con i battiti del mio cuore, ma ho allargato le braccia, nuda e disarmata, e ho trovato centocinquanta donne.
Mentre stilavo la storia, infatti, i miei sensi si acuivano, tutti. Vivevo in un mondo in cui colori, sapori, suoni, aromi e consistenze tattili erano all'ennesima potenza.
Mi pareva di essere cambiata, stentavo a riconoscermi. Invece stavo liberando dalla prigione della coscienza, immortalandolo nero su bianco, chi, realmente, ero e sono.
Ma, soprattutto, non ero più in grado di leggere solo libri, ma anche animi.
«È bello leggere le persone. Quelli tutti uguali cercano di sembrare diversi, i diversi tentano di sembrare uguali. I liberi se ne fregano. Ogni ruga una riga, ogni smorfia un epigramma, ogni sbadiglio un aforisma scontato. Le persone sono una biblioteca pubblica. E non lo sanno».
Andrea G. Pinketts

continua....

Emma Fenu

venerdì 3 luglio 2015

"L'ALTRA DONNA" di Maria Pace



L'ALTRA DONNA 
brano tratto da "DUNE ROSSE - Fiamme sul deserto" 
..................................
Jasmine si allontanò, prendendo la strada opposta a quella su cui si era incamminata l'altra donna del suo Rashid. Sapeva che Rashid aveva altre donne. Se lo ripeteva ogni attimo del giorno. Un pensiero fisso e irremovibile. Loro due si erano appena sfiorati e nulla al mondo era stato per lei così meraviglioso, stupefacente e terrificantemente piacevole del fuggevole contatto con la diversità di lui. Il loro primo bacio! Tra gli oleandri del giardino, a Doha. Così dolce e sconvolgente, tanto da richiamare in gola tutte le emozioni nascoste nei meandri più profondi dello spirito ancora vergine.
Ma per lui non doveva essere stato così! Le numerose donne che gli avevano dato piacere non erano come lei. Le numerose donne da cui Rashid traeva piacere erano come Selima. Donne le cui bocche gli si aprivano facilmente e voluttuosamente… Non come lei, che aveva esitato prima di scoprire che aprire la bocca ai suoi baci, era la cosa più semplice, dolce e spontanea.
L'ultima cosa che desiderava adesso, però, era che Rashid pensasse che lei volesse spiare lui e la sua Favorita... Spiare, pensava... spiare con occhi supplichevoli e smarriti e con la stolta gelosia della donna che si nasconde e spasima. No! Non era da lei.
Ed intanto, proseguendo, il passo già affondava nella sabbia vicino alla monumentale Fontana del Fico, la cui ombra proiettata al suolo, malinconica e solitaria, la inghiottì subito.


Si tirò un lembo del velo e se lo avvolse intorno alla persona, come a volersi nascondere. Come se quel velo, intimo ed accogliente, fosse il rifugio della sua tenda, dove, sola e al chiuso, poteva nascondere e consolare la sua grande pena d'amore.
Povero, vano e inutile sentimento: i baci appassionati, le carezze, la stretta tenace del “suo” Rashid non erano per lei; le passioni di lui erano soddisfatte altrove. A lei non restava che quell'angoscia dilaniante... la gelosia: troppo fugaci i loro incontri... quelli suoi e di Rashid; troppo casti i loro contatti... Selima, invece... gli sguardi avidi, le carezze predaci, la carne di lei contratta di spasimo sotto la mano brutalmente dolce e possessiva di lui che... No...
“E’ la volontà di Allah! – provò a consolarsi – E’ la volontà di Allah! Egli vede nel cuore dell’uomo e sa che cosa è bene per lui… per questo gli offre l’amore di altre donne… Allah è grande!”
Allora perché la “visione” dei corpi avvinghiati di Selima e del “suo” Rashid era così insultante e provocatoria?
Forse Letizia aveva ragione a non voler dividere il suo uomo con altre donne. Forse…
(continua)

brano tratto da "DUNE ROSSE Fiamme sul deserto" vol. II

su AMAZON oppure AUTOGRAFATO e con Dedica presso l'Autrice
mariapace200@gmail.com

"L'ESPRESSIONE DELL'AMORE (VOL. III) di Katia Anelli



L'espressione dell'amore (Vol. III) - è uscito oggi l'ultimo volume della mia trilogia, vi lascio un brevissimo estratto Emoticon wink

“A A Abbronzatissima… sotto i raggi del sole… come è bello sognare… abbracciato con te… A A Abbronzatissima… a due passi dal mare… come è dolce sentirti… respirare con me… ” canticchia quel pazzo di mio zio Giacomo entrando nel mio ufficio.
“Zio, voglia di sole e di mare?” gli chiedo spingendo indietro la sedia dalla scrivania e alzandomi.
“Non scherzare” mi dice storcendo la bocca, “I raggi ultravioletti mi rovinerebbero la mia bellissima pelle regalandomi delle rughe orribili!! Semplicemente ieri sera al Babylon c’erano due nuove ragazze di colore… due schianti, Matteo! Non puoi capire…”
Rido buttando indietro la testa.
“Zio, sono tutte uno schianto per te… basta che respirino e che te la diano…” gli dico infilandomi la giacca.
“Dove vai così di fretta?”
“Oggi dimettono Francesca. Voglio arrivare in anticipo e assicurarmi che non abbia cambiato idea”
“Oh già, vero! Oggi è il gran giorno! Cambiato idea a proposito di cosa?” m’interroga curioso.
“Diciamo che io e suo padre abbiamo avuto un acceso scambio d’opinioni su dove portarla una volta dimessa. I suoi genitori volevano che andasse a casa con loro ma, non senza fatica, sono riuscito a convincerli che il mio appartamento è decisamente più sicuro”
“Capisco… senti visto che i tuoi genitori e tua nonna avranno il piacere di conoscerla più tardi, perché sicuramente con qualche scusa passeranno a trovarti a casa, e io non ci sarò poiché stasera ho un impegno con una tipa A A Abbronzatissima” canticchia facendomi l’occhiolino, “Ti va se t’accompagno? Così finalmente mi fai conoscere questo schianto di donna che ti ha fatto perdere la testa!”
“Zio... non so se è una buona idea… promettimi che ti comporterai bene e non combinerai uno dei tuoi soliti casini! Per favore… i suoi genitori già non mi vedono di buon occhio, soprattutto suo padre” l’avverto.
“Oh mamma mia! Che fiducia… cosa vuoi che faccia?”
“Non fare niente e tieni a freno la lingua, qualsiasi cosa penserai di dover dire conta fino a dieci e poi non dirla”
“Che pesantezza! Semmai dovessero scrivere una biografia su di te dovrebbero intitolarla: L’insostenibile pesantezza dell’essere, che pedante che sei!” continua offeso uscendo con me in corridoio, “Come se t’avessi mai messo in difficoltà o in imbarazzo qualche volta nella tua vita…”
“Zio…” lo fulmino, “Ti faccio un solo nome: Maria Lucia”
Si ferma e corruga la fronte.
“Sono due” mi dice.
“Cosa sono due?”
“Bé visto che ci tieni tanto a fare lo spocchioso precisino… Maria Lucia sono due nomi non uno!”
O Signore santissimo! Dammi la pazienza!

KATIA ANELLI


mercoledì 1 luglio 2015

"L'INFANZIA VIOLATA' di Maria Pace



L'INFANZIA VIOLATA

é un brano tratto da "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"
che dedico(come promesso) alla nostra insostituibile ospite: EMMA

..............................
"Che cosa volete da questo sbaerbatello?" domandò Marco al più vicino di quelli che circondavano il piccolo.
“E’ uno sporco ebreo-cristiano.” rispose l’interpellato che, come 
quasi tutti, non faceva molta distinzione tra ebrei e cristiani. 
“Imbecille! – replicò Marco - Non vedi che è solo un ragazzo?”
“E’ una piccola chiavica di fogna, signore.- insistette quello - E come tutti i topi di fogna bisognerebbe arderlo come una torcia. Io lo conosco, tribuno. Si chiama Joshua, ma si fa chiamare Aquilinus, per via della velocità con cui ti porta via la borsa.”
“Lo conosco anch’io. - seguì una seconda voce- E’ un ladro.”
“Alle guardie!.- una terza voce - C’è bisogno di delinquenti per l’arena ai prossimi giochi in onore del nuovo Cesare.”
“Non sapete che il nuovo Cesare – interloquì Fabio – ha permesso ad ogni cittadino… e perciò anche ai cristiani, di rendere onore e gloria alle proprie Divinità?”
“Puah!” fece uno di quelli girando le spalle per allontanarsi.
Erano tutti bottegai della borgata: Cleonte il panettiere, Brutus il barbiere, Fidelius il carbonaio e dovevano aver fatto più volte la conoscenza con quell’aquilotto infreddolito.
“Calma! - replicò Fabio - Le prigioni si sono appena svuotate. Vorresti già riempirle?” 
“Macché ebreo, macché cristiano! Gente rammollita, quella. – protestava il piccolo - Io cristiano? State scherzando?”
“Bugiardo! - replicava l’altro - Ti dico, centurione, che questo piccolo manigoldo, cristiano oppure no, era stato colto con le mani nella borsa di una patrizia ed era destinato all’arena. Si vantava di essere già stato in carcere e di non esserci mai restato a lungo.”
“Mai a lungo. Certo! - continuava a protestare il piccolo bandito.- Vi sembra che abbia necessità di camuffarmi da stupido ebreo-cristiano per alleggerire qualche borsa? - ora che aveva la protezione di un tribuno e di un centurione, Aquilinus stava diventando sfrontato ed insolente - Ho detto che non sono mai rimasto a lungo in prigione perché il mio difensore... – e qui, l’impareggiabile monello mise in mostra tutto l’estro che la vita randagia gli aveva insegnato per sottrarsi alle difficoltà - il mio difensore, dicevo, Cleonte Arpaga, il Greco, possiede un’oratoria che eguaglia e supera quella di quel certo Tullio Cicerone che scavò la fossa al povero Catilina... Sapete di che parlo, vero?... Lui convince sempre il Procuratore della mia innocenza – aggiunse tirando su col naso con finta noncuranza – perché io sono innocente come un agnello della Pasqua ebraica. Possa io diventare ottuso come un giudeo, se questo non è vero!”
“Basta! - intervenne Marco - Basta così! Per quest’oggi, piccolo manigoldo, togliti dalla mia vista. E voi. - il tribuno si girò verso gli altri con cipiglio determinato - Andate anche voi! Tutti!... Basta, per ora, gettare gente nell’arena. Via!... Disperdetevi!” 
Ubbidirono. Si allontanarono tutti, manifestando contrarietà e malumore e prendendo a calci sassi e rifiuti. Anche Aquilinus si allontanò, masticando un motivetto in voga, ma, fatti pochi passi:
“Porta alla mia amica Livilla i miei saluti, centurione.- disse, voltandosi - E che non si ficchi ancora nei guai!... Non c’è sempre Aquilinus a tirarvela fuori!”
Fabio ebbe un sorriso, scosse il capo, spronò il cavallo e seguì l’amico, che gli domandava:
“E’ vero quanto hai detto a quella plebaglia… che il nuovo Cesare tollera il culto di questi cristiani… al contrario di Nerone?”
“Ha emesso un proclama. – assentì il centurione – Dietro congrua pecunia, ognuno è libero di…”
“Oh.oh.oh… - lo interruppe il suo tribuno – Volevo ben dire: il nuovo Cesare è un ottimo Praefectus domui… ” rise, sull’onda della voce del piccolo che li seguì per un po’, mentre intonava: 
“Mi compiaccio io delle opere di Dionisio e delle Muse, 
che portano gioia agli uomini...”

Aquilinus s’infilò in uno di quegli stretti itinera, più impraticabile che mai, con la pioggia, girando e rigirando i sassi nelle piccole mani arrossate dal freddo: un mese assai freddo e piovoso, il giugno di quell’anno.
Non voleva darlo a vedere, ma in realtà quell’episodio lo aveva irritato e reso aggressivo. 
“E’’ dolce la stagione della raccolta…” continuava a cantare, in un crescendo sempre più elevato, fino a squarciagola. Svoltato l’angolo si fermò, per consentire, forse, a un’improvvisa idea di farsi avanti nel cervello, poi tornò indietro. Estrasse la fionda da sotto la tunica, vi infilò un sasso e mise a punto un tiro che centrò in pieno Brutus il barbiere, tornato al suo cliente ancora seduto sull’uscio della bottega.
“Prendi, sfilapidocchi!” urlò, dandosi a fuga precipitosa.
“Piccola peste! Se ti prendo…” urlò quello lasciando il posto di lavoro; quando sbucò sulla strada, però, di Aquilinus non c’era traccia. Si guardò intorno: era impossibile scomparire a quel modo su un piazzale aperto su cui si affacciavano solo Templi, Palazzi e grandi statue. C’erano l’immenso vestibolo della Domus Aurea, la Meta Sudans e la statua di Nerone, un colosso di bronzo alto più di trentacinque metri, opera dello scultore Zenodoro.
“Ma dove è finito? - sempre più furente, le mani che gli prudevano, il barbiere si fermò ai piedi del grande pilastro che reggeva la colossale statua. - Dove è finito quella disgrazia del genere umano?... Non può essere svanito nel nulla...”
Se solo fosse riuscito a disciplinare un pò meglio le proprie emozioni, l’irascibile barbiere avrebbe, forse, udito un respiro affannoso proprio sopra la sua testa, provenire dall’interno del colosso: Aquilinus era rannicchiato lassù.
Il barbiere continuò ancora a guardarsi intorno; alzò perfino gli occhi sul colosso, poi si girò per tornare indietro.
Quel monumento grandioso, espressione della perfezione tecnica e della purezza lineare, improntato a una maestosità quasi divina, raffigurava Nerone nelle vesti di Apollo. Altissima, superba e stagliata contro il cielo, quella statua, nell’aspirazione dell’artista e del modello, ambiva eguagliare il colosso di Rodi. E forse qualche somiglianza l’aveva perfino con quella meraviglia dell’estro umano, ma il popolo la degnava appena di qualche sguardo distratto e qualcuno, nell’euforia dell’avvento di un nuovo assetto sociale, già ne auspicava l’abbattimento. 
Anche lo sguardo del barbiere la sfiorò appena, prima di decidersi a tornare alla bottega, sempre imprecando, tra un brivido e l’altro. 
Aveva ripreso a piovere e faceva freddo.
Quel colosso, o più esattamente, il possente torace, era diventata la nuova tana di Aquilinus. L’aveva scoperta quasi per caso e subito adottata. C’era un’apertura sul retro del polpaccio della gamba sinistra: stretta e bassa, ma sufficiente a farvi passare un uomo. Aveva visto un giorno un operaio infilarvisi e scomparire al suo interno e da quel momento, quel simbolo di potere e grandezza imperiale, era diventato la sua nuova “casa”.
Inaspettata utilità della megalomania di un Cesare!
Ne aveva tante altre di tane sparse per la città. Tutte sotterranee, in fornici, cloache e cisterne, ma quella, che si elevava verso il cielo, lo appagava ed inorgogliva più di ogni altra. 
Per il piccolo derelitto quella non era solamente una casa, non era solo il posto ove riporre refurtiva, ripararsi dal freddo, mangiare, dormire e non era neppure il luogo dove smaltire malinconie, sbronze occasionali e qualche lacrimuccia traditrice: quella era la rivincita contro la società che lo aveva ripudiato. Era la conquista. Era l’occupazione: scacciato ed emarginato, rifiutato e allontanato, egli si appropriava della cosa pubblica. 
A Cesare, quell’ammasso armonioso di travi e legno ricoperto da lastroni di bronzo, serviva per realizzare un’idea di grandiosità e immortalità, per il piccolo rifiuto della società era un rifugio contro il freddo, il fango, la neve, la pioggia, la notte, la gente!
“Per le Sacre Bevute di Bacco! - esclamò sentendo allontanarsi i passi del suo occasionale nemico - Ho temuto proprio che quell’impiccione scoprisse il mio rifugio. Ah!.. non è facile seguire le tracce di Aquilinus! Brutto cane rognoso di un cavapidocchi!..”
Un lungo sospiro, poi il ragazzo si mosse. Si arrampicò su per la scala a chiocciola che dall’interno della gamba portava fino al bacino dell’immensa statua. Qualcosa, però, ad ogni gradino che saliva, forse quel sesto senso, il senso della sopravvivenza, così sviluppato in ogni naufrago della vita, lo avvertì di non essere solo, là dentro. Lo mise in guardia.
Qualcuno aveva scoperto il suo segreto: qualcuno, di sopra, che aveva preso a tossire e che respirava così affannosamente da sembrare l’ansimare di un animale ferito. 
Si compiacque con se stesso per aver conservato uno dei sassi e continuò a salire. Lentamente e con circospezione, ma decisamente. La sua faccetta infreddolita e imbronciata, riemerse all’altezza del bacino della possente scultura, sull’orlo del buco tenebroso della gamba. Là sopra non era così buio come di sotto. L’assemblaggio dei lastroni di bronzo permettevano una leggera penombra, sufficiente a vedere di dentro. 
Prima di balzare su dalla botola, Aquilinus guardò a destra poi a sinistra e infine sopra la testa, ma non vide nessuno. 
Sentì ancora un colpo di tosse, nitido e violento.
“Chi c’è qui?” domandò sollevando la mano armata di sasso e cercando con l’altra, con la sicurezza di chi si muove in casa propria, l’asse di legno accostato a una sporgenza.
“Chi c’è qui?” ripeté la domanda. 
Ora che la vista si era assuefatta all’oscurità, vide ben chiare due ombre emergere dall’oscurità.
“Sono io!” una voce timida e spaventata provenne dal fondo dell’antro.
“Io chi?.. Per la Siringa di Pan! Fatti vedere.”
L’inatteso misterioso ospite avanzò di qualche passo.
“Fermo!... Fermo! Fermati! - il padrone di casa lo fermò con un gesto perentorio della mano armata di spranga - Fatti guardare un po’... Fa un po’ vedere a chi appartiene la faccia di questo io!... Marcus!?!” esclamò, quando un flebile raggio di luce, penetrando da una fessura, illuminò la faccetta dell’intruso.
“Sono io!”
“Sempre tu!...- sospirò Aquilinus, lasciando andare spranga e sasso - Cosa ci fai qui? Come hai fatto a scoprire questo nascondiglio?”
“Me lo hai detto tu!”
“Io?... E chi c’è lì con te?”
Qualcuno alle spalle del monello stava schiarendosi la gola.
“C’è Linus con me.”
“Ah! Dovevo immaginarlo! Linus è l’ombra di Marcus. Per la Siringa di Pan! Ti porti dietro anche i clienti?” scherzava Aquilinus e intanto che parlava, si muoveva all’interno dello scheletro di legno e ferro, gigantesco e tondo, come dentro una grossa botte cerchiata e attraversata da assi, spranghe, sostegni, catene, scale, corde. 
Un ennesimo colpo di tosse, più forte e stizzoso ancora, gli fece rizzare nuovamente il capo e aguzzare la vista.
C’era un pagliericcio laggiù. Quattro assi di legno poggiate su due rientranze e un saccone di paglia, una coperta sdrucita e dal dubbio colore: il letto del padrone di casa.
“Altri ospiti? - domandò - Qualche piscialetto tuo amico?”
“Non un piscialetto. - spiegò Marcus con candore – Una ragazza.”
“Una ragazza?...Una ragazza nel mio letto?... Per il Cinto di Venere!… Che cosa ci fa una ragazza nel mio letto? Perché una ragazza è finita dentro il mio letto?”
“Fuori fa freddo!”
“Lo so!”
“Ha ripreso a piovere.”
“Ho visto!”
“Hai sentito come tossisce?”
“Ho sentito!”
“E’ per lei che siamo venuti qui. Per metterla al riparo dal freddo e non aggravare la sua malattia di petto.”
“Perché? Non ha una casa o un padrone?”
“Ma è proprio da lì che la ragazza è scappata e...”
“Scappata? - lo interruppe ancora Aquilinus; il piccolo compagno di Marcus seguiva in silenzio il dialogo - E’ una schiava in fuga?”
“No! - spiegò l’altro - Sua madre, così mi ha raccontato, vuole metterla in un bordello... In una locanda della Suburra e...”
Per la terza volta il piccolo brigante interruppe il suo protetto.
“E allora?... Non mi pare una sistemazione disdicevole. Cibo, abiti e un tetto sopra la testa per ripararsi dal freddo, l’avrebbe! No?”
“No! - l’altro ebbe una scrollatina di spalle - Lei dice che vorrebbe stare con i cristiani!”
“Uhhh!... Buoni quelli! Per colpa loro quasi mi beccavo un sacco di legnate, poco fa!”
“Io pure ho cercato di dissuaderla e le ho fatto...” tentò di spiegare Marcus ma per l’ennesima volta l’altro gli impedì di continuare.
“Avete fame? - domandò - Avete mangiato qualcosa?”
“Io ho fame! - interloquì infine il piccolo Linus, facendo spuntare un visetto sporco e un nasino arrossato, nell’angolo tra il braccio sinistro piegato e il fianco di Marcus - Io ho fame, signore!” ripeté.
L’esile torace del piccolo brigante dei fornici si gonfiò di compiacimento e orgoglio a quell’epiteto: Signore! Lo sguardo acuto da animale da preda si caricò di improvvisa responsabilità!
“Tu resta qui con la ragazza. - ordinò a Marcus, col tono di chi prende le decisioni, poi puntando l’indice verso Linus - Tu invece verrai con me, ma prima proviamo a coprire questa ragazza.” aggiunse all’ennesimo colpo di tosse dell’intrusa.
Aquilinus si tolse il mantello e con quello cercò di coprire la ragazza: troppo piccolo, però, per ripararla tutta.
“Ah!… Forse a Giove piace guardare le nudità di questa ragazza… Giove è fatto così, ma Aquilinus non si dà per vinto.” continuò, mettendosi alla ricerca, fra mucchi di cenci, di qualcosa con cui coprire la ragazza. che, silenziosa e immobile, lo lasciò fare; al petto stringeva un sacchetto legato al collo,
“Che cos’hai in quel sacchetto, Marcella?.. Ti chiami Marcella?” si incuriosì la piccola canaglia; non ebbe risposta.
“Pane! – fu Marcus a spiegare - Pane Sacro… Io credo.”
“Che cosa significa? – Aquilinus aggrottò il ciglio – Si tratta, forse, di pane destinato a qualcuno di quegli Immortali oziosi e con la pancia già piena?”
“No! No! - s’affrettò a spiegare il piccolo – Si tratta di… ostia…”
“E che cosa sarebbe mai?”
“E’ il pane sacro dei cristiani… fatto della carne e del sangue del loro Cristo…”
“Vuoi dire che si tratta di un pazzo di carne sanguinolente?” fece il piccolo ladro dei fornici con profondo disgusto.
“Oh, no! - sempre Brutus, la ragazza continuava a tacere – E’ farina di grano impastato con acqua…”
“… e non si può mangiare!… Ho capito! Sù Andiamo.” disse infine, con un cospiro, lanciando un’ultima occhiata alla ragazza che lo gratificò con lo sguardo più riconoscente del mondo.
“Dove andiamo?” domandò Linus.
“A cercare del cibo, naturalmente. E a procurare qualcosa di caldo alla ragazza. Non ... non vorrai che mi muoia qui! In casa mia! Sù! Andiamo, leprotto! Seguimi!”
Si apprestò ad uscire per procurare da mangiare ad una ragazza di cui non conosceva nemmeno la faccia.

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venerdì 26 giugno 2015

"A MEZZOGIORNO DEL MONDO" di Maria Cristina Sferra

STRALCIO

Camaguey ci accolse nell’ora più calda del giorno dimostrando una rara riluttanza all’indolenza tipica di queste zone. Il sole incandescente che ci aveva sfinito lungo la strada riarsa ci stava aspettando in questa cittadina brulicante di vita all’inverosimile, nonostante l’ora, nonostante il caldo. Stagliate su un cielo di smalto cobalto le solite, piccole case nei colori delle caramelle o dei gelati incorniciavano le viuzze ed erano allo stesso tempo il fondale di un palcoscenico dove tanta vita si rappresentava.
Fummo bloccati da una folla di volti sorridenti, di mani affaccendate e di passi insolitamente veloci. Ci offrirono, seppure con minore insistenza, i soliti sigari fasulli. Dal crocevia dove ci trovavamo potevamo vedere la sagoma imponente del Grand Hotel elevarsi ben oltre i tetti della città. Così, da lontano, sembrava un gigante placido adagiato sopra le case. Non aveva niente di particolarmente attrattivo.
A causa del blocco della via dovemmo entrare dal retro della costruzione, attraverso un cortile secondario dal quale passavano, di norma, coloro che all’hotel lavoravano e i fornitori. Ci inerpicammo sulla scala angusta e buia, svoltammo ora a destra ora a sinistra, in un labirinto di stretti corridoi e di tristi cortiletti pervasi da un odore pungente di disinfettante che feriva l’olfatto e quell’altro senso, ben più importante, che non ha un nome preciso, ma che è quello che registra le impressioni e le sensazioni che corrono sotto la nostra pelle.
Sentivo una sorta di velata delusione salire da dentro, quando finalmente ci si aprì dinnanzi agli occhi la hall del Grand Hotel vista di spalle, data la posizione della porta da cui vi accedemmo.
Mi stupii dell’atmosfera che aleggiava nel grande salone arredato con mobili d’epoca in legno scuro, del bancone della reception, anch’esso in legno, delle tende bianche di pizzo, della grande scala che portava ai piani superiori e del magnifico ascensore lustro di ottone che scampanellava ogni volta che si apriva la porta, mostrando un giovane sorridente. Il ragazzo in divisa portava una giacchetta a righe perfettamente intonata con lo spirito primo Novecento di quel luogo. Ma, più di tutto, pensai che un posto così si sarebbe potuto leggere in un libro.
Fui felice di esserci. Mi sedetti sulla poltrona, vi sprofondai con agio e, guardandomi intorno, immaginai altri tempi e altre comparse in quello stesso luogo. Forse immaginai la stanza che sarebbe stata nostra di lì a poco e una forte curiosità frammista a un’ansia infantile si impossessò di me. La stanza era il nostro luogo, pensai, il nostro rifugio, l’unico terreno dove potevamo liberamente saggiare i pensieri l’uno dell’altro, dove potevamo ridere, parlare, conoscerci. La stanza era il territorio della conquista della nostra non dichiarata intimità. Il breve tempo, l’esiguo spazio che potevamo condividere. Liberi. La stanza era la nostra casa. Entrambi lo sapevamo, ma nessuno dei due lo avrebbe ammesso.
Dai miei pensieri segreti mi risvegliò bruscamente la voce di Adolfo.
"Forza, alzati, andiamo a ricevere il cocktail di benvenuto", disse con uno dei suoi sorrisi soddisfatti.
"Arrivo subito", risposi. Cercai con lo sguardo Guglielmo che si trovava all’estremità opposta del grande salone, intento a leggere gli orari del ristorante esposti su un grosso cartello. Mi alzai. Mentre mi avvicinavo a lui pensai in un lampo fugace a quanto era cresciuto, con il passare dei giorni, il bisogno di contatto. Gli fui a fianco. 
"Hai una sigaretta?", chiesi. La estrasse piano e me la porse con quel gesto sicuro che avevo imparato a conoscere bene. Mi guardò dritto in volto con uno sguardo determinato che pareva arrivare direttamente dalle profondità dei suoi pensieri.
"Sono un po’ stanco, credo che mi fermerò in stanza a riposare. Naturalmente, dopo aver gustato il cocktail di benvenuto", disse.
Paolo, che si era avvicinato rollando nel contempo una sigaretta con l’abilità di un equilibrista, si inserì nel discorso apostrofandolo con tono ironico: "Ne avrai di tempo per riposare! Per ora è meglio che ti rassegni all’idea di uscire alla scoperta di questo luogo".
Francesca, che ci aveva raggiunti, insistette a sua volta e anch’io lo incitai. Guglielmo cedette alle nostre pressioni con un velo di lieve delusione dipinto sul volto. In quel preciso istante mi resi conto che non avevo capito, che non avevo voluto capirne le parole. Il messaggio silente, che dal suo cuore era salito ai suoi occhi per riversarsi nei miei, era rimasto sospeso a mezz’aria nella speranza di essere colto. Ma io non lo avevo fatto. Quanto volutamente o quanto inconsapevolmente non so dire. (...)

Brano tratto da "A mezzogiorno del mondo (una storia d'amore)" di Maria Cristina Sferra. In tutti i bookstore online.