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martedì 6 settembre 2016

"LA PREDA" di Franca Berardi



La preda. 

Lui la seguiva...lei lo sapeva e ne era compiaciuta ma faceva finta di nulla.
Lui camminava a passo veloce , ma lei era più lesta; si dileguava dispettosa tra le calde vie di Bari, tra i colori intensi di qulla città, tra le persone quanto mai animose e incazzuse di Bari.
Lui, nella corsa, si scontrava con qualche vaffa elargito generosamente ma non rispondeva; la voleva e lei lo sapeva ma continuava con il suo passo veloce.
Lui, ormai dopo qualche minuto, iniziava ad ansimare; probabilmente non era molto ben allenato, mentre lei sembrava la parente stretta di Mennea.
Ma sì… la figlia del vento lo voleva, lo… voleva forse morto. 
L'inseguimento era iniziato dall'Università, lei era riuscita a blissare il traffico con la agilità di una gazzella, lui era stato inesorabilmente bloccato da tre pulman,a loro volta bloccati da macchine, a loro volta bloccate da motorini roboanti e biciclette...
Una casbah! 
“Maldizione, non ce la farò mai- pensava-, mentre finalmente, all’improvviso un pulman gli era passato sotto il naso liberando l’ingorgo che si era formato.
Lui attraversò prontamente e arrivò ai giardini.
La intravide;era molto più lontana ma l'avrebbe raggiunta e finalmente sarebbe stata sua.
Così pensava, ed intanto, nella foga della corsa,confusi ed accaldati, finirono ineluttabilmente tra le stradine bianche della Città vecchia ove le urla e le parolacce di uomini corpulenti e dalle ugole possenti si sprecano a dismisura.
Furono investiti da un profumo intenso di ragù che si mescolava con altri odori: di pipì, di varechina, di fiori provenienti da balconcini zeppi di piante, di cozze appena sgusciate, di melanzane fritte, di panzerotti caldi che si sciolgono in bocca.
Ci poteva scappare anche una coltellata, ma lui la seguiva ormai…, madido di sudore, ma imperterrito, stoico, non mollava.
Si infilarono in altre stradine sempre più strette, anzi talmente anguste, che non lasciavano nè spazio nè respiro. 
Il viso di lui era cotratto; una smorfia di dolore si palesava imbarazzante sul viso del guerriero.
Lei sembrava fresca come una rosa e sorrideva , la ” fetentella” mentre, con la coda dell'occhio, controllava se lui c'era ancora.
C'era, c'era.
Lui, seppur sfinito, non disperava di averla e anche lei lo voleva.
In men che non si dica entrambi finirono in un localino angusto e tetro; assomigliava lontanamente ad una trattoria...
Una vecchia signora li invitò ad entrare con l'eleganza di un ippopotamo.
Sfiniti si sedettero davanti ad un tavolaccio scuro…
Sopra, buttata quasi per caso, una tovaglia a quadretti; olio, sale, aceto ed una bottiglia di vino che chiedeva solo di essere bevuta.
L'anziana si accostò incalzandoli, impaziente e quasi scocciata.
Si sentiva nell'aria un forte odore di cipolla... o di sudore… meglio non indagare.
“Due panzarotti”- sussurrò lui a stento- sopraffatto dall'affanno.
“E due supplì”- aggiunse lei-.
Erano a due passi da lungomare oramai.
Si scambiarono uno sguardo di intesa, le loro mani erano vicine, molto vicine.
Sopra li aspettava una cameretta.
Continuavano a lanciarsi sguardi nell'attesa , ormai sapevano quello che volevano.
Davanti a quel tavolaccio,l'anziana signora li osservava incupita.
L'esosa e golosa chiese anche degli antipasti...
Niente panzerotti, nè antipasti fu la sua risposta secca: ci sono solo patate,riso e cozze… c'è quello che c'è …bisogna accontentarsi.
Iniziarono a mangiare quel piatto unico.
Era sublime! Quella donna c'aveva messo l'anima e loro, mentre soddisfavano i palati, si mangiavano con gli occhi.
Lei, impudica e provocante quanto mai, addentò vogliosa una patata. Sublime- esclamò-!
Lui si sentiva invaso da un piacere erotico inusitato, ma mentre la guardava, alla vecchia signora, venne in mente di accendere le luci di quel locale così strano e buio.
E così lui si avvide che lei sembrava meno bella di prima.
Forse era stato colpito dai suoi meravigliosi capelli lunghi, biondi mossi dal vento e, ancor più bella, gli era apparsa allorquando era uscita dall'Università con quell'aria sicura con la falcata della spendida irrangiungibile.
Ora quell'immagine che lui aveva scolpita nella mente, aveva lasciato il posto a quella di una ragazza magra, dai piccoli seni adolescenziali, dal visino smorto, slavato, quasi del tutto inespressivo.
Ma anche lei si accorse, or che lo vedeva bene, che non era un granchè: viso squadrato, ma corpo per nulla scolpito; naso imperante, occhi piccoli da miope.
Ma come aveva fatto a non accorgesene prima? 
Eppure, mentre la rincorreva, le sembrava tanto carino anzi ancor di più: come un fiero guerriero pronto ad un corpo a corpo deciso a ghermirla con forza ed ad averla lì all'istante magari contro un muro di tufo.
Il dialogo tra loro, si fece man mano minimale, così come il loro entusiasmo; giusto qualche frase convenzionale del tipo: che fai? lavori? ah sì? sei sola? ma và?studi? ma dai?
Dopo aver mangiato quasi sempre in silenzio, lui pagò infastidito e, deluso , uscì da quel maledetto locale.
Anche lei lo fece, affranta.
Presero strade diverse come se mai si fossero incontrati nè mai visti.
Lui tornò a tuffarsi, come risucchiato,tra le stradine bianche della città vecchia.
Fu nuovamente invaso dai profumi intensi di quei posti , ma erano più attenuati.
Sopra un muretto, c’erano dei pomodori messi lì ad essiccare ed un grosso polipo probabilmente appena pescato.
Comunque sia, ormai passato a miglior vita; accanto, troneggiava un cesto ricolmo di frutti di mare.
Più in là due donne dalle morbidissime curve, erano affacciate ad un balconcino; fumavano e parlavano in un dialetto stretto: le loro abbondanze , straripavano dalle balaustre.
Sotto, in una stradina senza uscita, una vecchina secca e rugosa, sistemava su un tavolo di legno orecchiette e strascinati.
Le sue mani erano veloci, esperte…si muovevano leggiadre,come quelle di un pianista.
L’uomo si soffermò ancora un po’, si guardò intorno…il biancore accecante dei muri di tufo, colpivano gli occhi fino quasi a far male ed ecco quindi che in un attimo, riuscì a raggiungere lo splendido corso Vittorio Emanuele e, poi, ancora di nuovo si diresse verso l’Università da dove era partito.
Intorno a lui non c’era quasi più nessuno; erano le ore quattordici.
Ma ecco che all’improvviso, vide una splendida ragazza uscire dall’ateneo.
Aveva lunghi capelli biondi, mossi dal vento, la falcata della donna bella e vincente…il suo passo veloce e sicuro.
Lui iniziò a seguirla…già sentiva che la voleva e l’avrebbe avuta…

venerdì 2 settembre 2016

"ROSSO MATRIOSKA - AMADEUS d.V" di Maria Francesca Consiglio

RACCONTO

Erzsebet sveglio' Amadeus.
"Amadeus... svegliati."
Egli sobbalzo'.
"Erzsebet...."
"Stavo dormendo anch'io ma poi ho udito qualcuno parlare e..."
"Qualcuno chi?"
"Tu. Tu parli durante il sonno e stavolta sembravi turbato, quasi spaventato. Era un incubo?"
"Mi trovavo dentro un immenso castello. Nell'aria sentivo il bisbiglio del mare..."
"Bello! Un castello sul mare!"
"Era sul mare, si. Come un vecchio ed ostinato marinaio s'aggrappava su una scogliera antica. Ho potuto scorgerne una parte guardando fuori da una terrazza."
"Continua..."
"Ero il padrone del castello; avevo diversa servitù in continua riverenza. Oh Erzsebet se potessi mostrarti ciò che ho visto. V'era una tale ricchezza da provocare il disgusto."
"Per questo eri turbato? A causa della tua avversione per la ricchezza?"
"No. Ho cominciato a visitare il castello, stanza per stanza; più mi avvicinavo all'ultima torre più gridava in me la consapevolezza d'aver subito un furto."
"Un furto?"
"Si Erzsebet. Possedevo un castello e molti servi ma tu dov'eri finita?"
"Amadeus... che sciocchezze vai blaterando? Ed io che pensavo chissà quale terribile incubo avessi fatto."
"Non era un incubo. Non v'erano orrende creature, morte o disperazione. Era un bellissimo sogno."
"Allora torniamo a dormire..."
"Erzsebet... io non voglio alcun bel sogno. Io desidero vivere questa cruda realtà poiché in essa so che esisti. T'ho conosciuta in un incubo e dunque prego Dio di darmi incubi ogni notte. Mi spaventano questi bei sogni dove mi scopro lontano da te."
"Tu sei un folle."
"Tu sei la mia camicia di forza."
"Desideri l'incubo ma poi ti lamenti per una piccola emicrania."
"Soltanto perché m'indebolisce la cattiveria. Non temo il dolore ma voglio controllarlo, dirottarlo e godere di questa favola orrenda."


(Tratto da "Rosso Matrioska - Amadeus d.V. - di M.Francesca Consiglio)

giovedì 1 settembre 2016

"HO AMATO..." di Mario Vavassori

RACCONTO

Ho amato. Ho vissuto l'emozione di ogni momento. I sussurri, gli spasmi, gli orgasmi e infine il pianto. La gioia è stata ben poca cosa rispetto al dolore che ho provato nell'accorgermi di esser stato avaro, di essermi troppo volte arreso, caduto e risorto senza aver compreso che serve poco per voltare le spalle a chi ti è accanto e molto più impegno per non rimanere indifferenti al suo pianto. Ho amato credendo che quello fosse il modo, l'unico che ho appreso, che il mondo mi ha mostrato, forse insegnato. Ho amato senza pensare mai di condividere con chi avevo vicino quello che sentivo, quello che provavo. Ho amato credendo che il piacere fosse solo un mio diritto, che i sorrisi, le frasi intelligenti, i desideri, fossero gioia e vivace intelligenza. Ho amato credendo che non fosse presunzione il mio predominio maschio. Ho amato senza mai guardare oltre la mia immagine riflessa dentro uno specchio. Ho amato il mio egoismo arrogante senza capire che non ci può essere amore senza rispetto. Ora odio. Odio il riflesso sfocato che intravedo guardandomi allo specchio. Odio il viso di quell'uomo che ora chiede perdono, che ha compreso, forse troppo tardi, che per amare veramente non doveva essere quello che è sempre stato: un uomo incapace di amare.

MARIO VAVASSORI

lunedì 15 agosto 2016

"MENTRE MIA MOGLIE MI SERVIVA LA CENA...: di Odile' Geraldine

Mentre mia moglie mi serviva la cena ,
le presi la mano e le dissi:''Devo parlarti''.
Lei annui e mangio' con calma.
La osservai e vidi il dolore nei suoi occhi,
quel dolore che all'improvviso mi bloccava la bocca,
Mi feci coraggio e le dissi:'' Voglio il divorzio''.
Lei non sembro' disgustata dalla mia domanda
e mi chiese soavemente: '' Perché?''.
Quella sera non parlammo più e lei pianse tutta la notte.
Io sapevo che lei voleva capire cosa stesse accadendo al nostro matrimonio,
ma io non potevo risponderle,
aveva perso il mio cuore a causa di un'altra donna, Giovanna.
Io ormai non amavo più mia moglie,
mi faceva solo tanta pena,
mi sentivo in colpa,
ragion per cui sotto-scrissi nell'atto di separazione
che a lei restasse la casa, l'auto e il 30% del nostro negozio.
Lei quando vide l'atto lo strappo a mille pezzi ! ''Come ?! avevamo passato dieci anni della nostra vita insieme ed eravamo ridotti a due perfetti estranei?!''.
A me dispiaceva tanto per tutto questo tempo che aveva sprecato insieme a me, per tutte le sue energie, pero' non potevo farci nulla, io amavo Giovanna.
All'improvviso mia moglie comincio' a urlare e a piangere ininterrottamente per sfogare la sua rabbia e la sua delusione, l'idea del divorzio cominciava ad essere realta'.
Il giorno dopo tornai a casa e la incontrai seduta alla scrivania in camera da letto che scriveva, non cenai e mi misi a letto, ero molto stanco dopo una giornata passata con Giovanna.
Durante la notte mi svegliai e vidi mia moglie sempre li' seduta a scrivere, mi girai e continuai a dormire.
La mattina dopo mia moglie mi presento' le condizioni affinché accettasse la separazione.
Non voleva la casa, non voleva l'auto tanto meno il negozio, soltanto un mese di preavviso,
quel mese che stava per cominciare l'indomani.
Inoltre voleva che in quel mese vivessimo come se nulla fosse accaduto!
Il suo ragionamento era semplice : ''Nostro figlio in questo mese ha gli esami a scuola e non e' giusto distrarlo con i nostri problemi''.
Io fui d'accordo pero' lei mi fece un ulteriore richiesta.'' Devi ricordarti del giorno in cui ci sposammo, quando mi prendesti in braccio e mi accompagnasti nella nostra camera da letto per la prima volta, in questo mese pero' ogni mattina devi prendermi in braccio e devi lasciarmi fuori dalla porta di casa ''.
Pensai che avesse perso il cervello , ma acconsentii per non rovinare le vacanze estive a mio figlio per superare il momento in pace.
Raccontai la cosa a Giovanna che scoppio' in una fragorosa risata dicendo: ''Non importa che trucchi si sta inventando tua moglie, dille che oramai tu sei mio, se ne faccia una ragione!''.
Io e mia moglie era da tanto che non avevamo più intimità, cosi' quando la presi in braccio il primo giorno eravamo ambedue imbarazzati, nostro figlio invece camminava dietro di noi applaudendo e dicendo:'' Grande papa', ha preso la mamma in braccio!''.
Le sue parole furono come un coltello nel mio cuore, camminai dieci metri con mia moglie in braccio, lei chiuse gli occhi e mi disse a bassa voce:''Non dirgli nulla del divorzio,per favore...
Acconsentii con un cenno , un po' irritato, e la lasciai sull'uscio.
Lei usci' e andò a prendere il bus per andare al lavoro.
Il secondo giorno eravamo tutti e due più rilassati, lei si appoggiò al mio petto e potetti sentire il suo profumo sul mio maglione.
Mi resi conto che era da tanto tempo che non la guardavo .
Mi resi conto che non era più cosi' giovane,
qualche ruga, qualche capello bianco.
Si notava il danno che le avevo fatto!
Ma cosa avevo potuto fare da ridurla cosi'?
Il quarto giorno , prendendola in braccio come ogni mattina avvertii che l'intimità stava ritornando tra noi,
questa era la donna che mi aveva donato dieci anni della sua vita, la sua giovinezza, un figlio e nei giorni a seguire ci avvicinammo sempre più' .
Non dissi nulla a Giovanna per rispetto!.Ogni giorni era più facile prenderla in braccio e il mese passava velocemente.
Pensai che mi stavo abituando ad alzarla, e per questo ogni giorno che passava la sentivo più leggera.
Una mattina lei stava scegliendo come vestirsi, si era provata di tutto, ma nessun indumento le andava bene e lamentandosi disse:''I miei vestiti mi vanno grandi, ''.
Li' mi resi conto che era dimagrita tanto...ecco perché mi sembrava cosi' leggera!
Di colpo mi resi conto che era entrata in depressione...
troppo dolore e troppa sofferenza pensai.
Senza accorgermene le toccai i capelli, nostro figlio entro' all'improvviso nella nostra stanza e disse :'' Papa' e' arrivato il momento di portare la mamma in braccio( per lui era diventato un momento basilare della sua vita).
Mia moglie lo abbraccio' forte ed io girai la testa, ma dentro sentivo un brivido che cambio' il mio modo di vedere il divorzio.
Ormai prenderla in braccio e portarla fuori cominciava ad essere per me come la prima volta che la portai in casa quando ci sposammo,
la abbracciai senza muovermi e sentii quanto era leggera e delicata, mi venne da piangere!
L'ultimo giorno feci la stessa cosa e le dissi:'' Non mi ero reso conto di aver perduto l'intimità con te...
Mio figlio doveva andare a scuola e io lo accompagnai con la macchina, mia moglie resto' a casa.
Mi diressi verso il posto di lavoro, ma a un certo punto passando davanti casa di Giovanna mi fermai, scesi e corsi sulle scale, lei mi apri' la porta
e io le dissi:''Perdonami..ma non voglio più divorziare da mia moglie...''
Lei mi guardo' e disse: Ma sei impazzito?
Io le risposi :'' No...e' solo che amo mia moglie...era stato un momento di noia e di routine che ci aveva allontanato ..ma ora ho capito i veri valori della vita , dal giorno in cui l'ho poortata in braccio mi sono reso conto osservandola e guardandola che dovevo farlo per il resto della mia vita!Giovanna pianse mi tiro' uno schiaffo e entro' in casa sbattendomi in faccia la porta.
Io scesi le scale velocemente , andai in macchina e mi fermai in un negozio di fiori.
Le comprai un mazzo di rose e la ragazza del negozio mi disse: Cosa scriviamo sul biglietto?
Le dissi:''Ti prenderò in braccio ogni giorno della mia vita finché orte non ci separi''
Arrivai di corsa a casa, feci le scale entrai e di corsa mi precipitai in camera felicissimo e col sorriso sulla bocca.,
ma mia moglie era a terra ...morta!
Stava lottando contro il cancro, ed io che invece ero occupato a passare il tempo con Giovanna senza nemmeno accorgermene.
Lei per non farmi pena non me lo aveva detto, sapeva che stava per morire e per questo mi chiese un mese di tempo, si un mese...
affinchè a nostro figlio non rimanesse un cattivo ricordo del nostro matrimonio, affinché nostro figlio non subisse traumi, affinché a nostro figlio rimanesse impresso il ricordo di un padre meraviglioso e innamorato della madre."
Questi sono i dettagli che contano in una relazione.
Non la casa....non la macchina....non i soldi...queste sono cose effimere che sembrano creare unione e invece dividono. Cerchiamo sempre di mantenere il matrimonio felice, ricordando sempre il primo giorno di questa bella storia d'amore.
A volte non diamo il giusto valore a ciò che abbiamo fino a quando non lo perdiamo.

ODILE' GERALDINE

martedì 9 agosto 2016

"CACCIA AL TESORO SELVATICO" di Maria Pace

RACCONTO


CACCIA AL TORO SELVATICO

La nave reale con a bordo il Faraone, i principi e le principesse, salpò insieme alle ombre della sera che andavano allargandosi e navigò tutta la notte, prima che le mura del distretto di Shetep, profilassero l’orizzonte.
Una distesa desolata e nuda si estendeva a perdita d’occhio: un mondo levigato e in continua, lentissima mutazione, dove acque, prati e foreste erano scomparsi per sempre o affondati nelle profondità. Shetep era nota per la caccia ai tori selvaggi, passatempo assai amato dai Faraoni.
In piedi sul suo carro da guerra, all’inseguimento di uno splendido esemplare di toro, il faraone aprì la caccia. Lo seguivano i carri dei principi reali e dei principi ostaggi: figli di Re vassalli o alleati; seguivano gli arcieri e i mandriani che avevano raccolto in un ampio recinto i tori selvaggi della regione.
Le donne del seguito, spose reali e principesse, erano state fatte allontanare dal campo e dall’alto di una collinetta seguivano ogni fase della caccia; tra loro c’era anche la principessa Nefer, che aveva cercato un buon posto di osservazione e non perdeva neppure un gesto di quanto stava avvenendo nella piana assolata; alle sue spalle, il sole del primo mattino aveva già raggiunto l’orizzonte e da lontano arrivava il rumore dei campanacci degli armenti al pascolo.
“Guardate Thumosis. – la principessa Nefrure tese un braccio – Guardate con quanta spericolatezza si spinge incontro a quel toro dalla testa spaventosa… Oh!... Il nostro divino padre dovrebbe imporgli più prudenza.”
Nefer volse il capo nella direzione indicata; il gesto fece tintinnare gli orecchini di lapislazzulo.
“Quello scervellato – interloquì la voce petulante della principessa Iter – verrà sbalzato dal carro, le cui redini, il principe Omohlo di Creta, con troppa leggerezza gli ha messo nelle mani.”
“Thutmosis è un ottimo guidatore. – puntualizzò Nefer – Se il principe di Creta gli ha affidato la guida del suo carro è perché Thumosis merita la sua fiducia.”
“Thutmosis è il prediletto di nostro padre. – sorrise Nefrure. Aveva un sorriso dolcissimo, la principessa Nefrure – Certamente Thutmosis vorrà fare buona figura ai suoi occhi.”
Nefer guardò il fratello, il fisico nervoso e svelto che prometteva prestanza per l’età matura, poi guardò il Faraone.

Il faraone Meremptha era imponente come una Divinità. Nefer lo guardava ammirata, mentre con la mano sinistra scagliava la lancia e con la destra reggeva le redini e dominava l’irrequietezza dei cavalli; ne ammirava l’assoluto dominio su quelle creature nobili e fiere.
Nefer amava i cavalli ed amava i racconti di caccia e di guerra che come tutte le ragazze a corte aveva ascoltato fin da bambina e che vedevano i loro uomini, padri e fratelli, sempre vincitori.
La corsa dei carri, i muggiti dei tori, lo scalpitio degli zoccoli contro le pietre, lo stridore delle ruote, il corno di caccia del trombettiere, esercitavano su di lei un fascino strano ed irresistibile e la trascinarono giù dalla collina, spingendola a disobbedire agli ordini del Faraone. Lasciò le altre donne e di corsa si portò verso uno di quei sentieri. Di corsa lo attraversò per raggiungere l’altra collina da dove sarebbe stato più facile seguire le fasi della caccia.
A metà sentiero, però, un potente muggito l’aggredì alle spalle. La ragazza si voltò e restò impietrita: un’enorme massa scura le stava davanti, dieci quintali e più di muscoli guizzanti sotto un manto di lucido pelo raso.
Un toro.
Nefer sollevò il capo e il suo sguardo andò a perdersi in due pupille di vitreo liquido giallastro. Ubbidendo ad un impulso incontrollato, si voltò per darsi alla fuga; il toro, alle spalle, sbuffava. Lo zoccolo batteva così forte da farle tremare il terreno sotto i piedi.
Da lontano la raggiunsero le grida d’orrore delle donne e lo stridore delle ruote di un carro in avvicinamento: il Faraone stava puntando nella sua direzione.
Un urlo, però, piombò sulla scena come un tuono; attraversò l’aria e la riempì di echi. Un urlo di guerra.
Uno straniero, un guerriero, calò giù dalla collinetta e si frappose fra il toro e la principessa. Lo scontro fu brevissimo: la lunga, affilatissima spada del guerriero, quelle in uso presso i Popoli di Mare, forgiata nel prezioso metallo-degli-Dei, penetrò nella fronte dell’animale che stramazzò fulminato ai suoi piedi.
Nefer, sempre di corsa, andò quasi a farsi travolgere dai cavalli del carro del Faraone che la evitò solo grazie alla sua perizia di guidatore. Un bagliore si levò dagli occhi del Faraone mentre, consegnata la principessa alle cure di ancelle accorse premurose e spaventate, scendeva dal carro per andare incontro allo straniero, il quale avanzava verso di lui a lunghi passi.
Questi si liberò il capo dall’elmo piumato e mostrò i capelli biondi. Il suo aspetto era fiero e la fronte grave, gli occhi erano ardenti e la mascella energica e volitiva. La figura, sotto la tunica di pregiata lana, era possente e salda. Odorava di acqua salmastra, di sangue e sudore. Fu lui a salutare per primo, nel riconoscere le insegne reali che posavano sul largo petto di Meremptha.
“Signore d’Egitto, Figlio degli Dei…” cominciò
Il Faraone lo interruppe e continuando a fissarlo con molta intensità domandò:
“Chi sei? Qual è il tuo nome, straniero? Vieni in amicizia ed alleanza o come nemico? Se è come nemico che sei giunto su queste terre, sappi che io, Meremptha, ho ricacciato in mare popoli invasori. Li ho uccisi e fatti prigionieri a migliaia ed ho costretto le loro donne a servire le donne di Tebe.”
“Giungo nella tua terra, potente Sovrano, - rispose lo straniero - naufrago e perseguitato da un Fato avverso. Sono supplice e non nemico.”
Il Faraone addolcì un po’ l’espressione del proprio volto; i suoi occhi scuri parvero incassarsi ancora più dentro le orbite mentre fissavano quelli azzurri del suo interlocutore. Scrutava attentamente quel volto dall’aria selvaggia: il volto di un uomo che doveva aver combattuto molte battaglie e non tutte contro altri uomini.
“Il tuo nome, straniero. – disse infine – Possa io conoscere il nome di chi ha salvato la vita di una delle mie figlie e dargli il degno benvenuto nella mia casa.”
“Menelao, io sono, figlio di Atreo e Re di Sparta!”

MARIA PACE

martedì 12 luglio 2016

"UN'ESTATE AL MARE . PRIMA PARTE di Mariella Di Camillo



Un'estate al mare. PRIMA PARTE.

Avevo 15 anni, passavo l'estate in un luogo meraviglioso, che era monopolio della Marina Militare. 
Avevo tutto il diritto di frequentarlo, mio padre apparteneva a quest'arma più di altri, visto che ha combattuto le guerre che hanno distrutto il nostro paese. 
Però questo posto si trova in Puglia, mio padre si è sposato tardi, quando sono arrivata io, non era più in prima linea, la guerra era finita da tempo e lui lavorava, sempre come militare, al Ministero di Roma, per gli altri frequentatori, che abitavano in quel posto io ero un'estranea, una che veniva da fuori......una diversa.
Non ero ben accetta, come se questa spiaggia, per la precisione si tratta di un'isola, fosse un bene privato e non comune a chiunque appartenesse a famiglia di militare. Un gruppetto di ragazze di qualche anno più grande di me, con a capo una presuntuosa che credeva avesse diritto di imporre il suo modo fi essere, m prese di mira. Io ero timorosa, non avendo amiche, venendo da fuori e trovandomi in quel momento dell'adolescenza in cui tutti si sentono inadeguati e pieni di complessi, cercai di avvicinarmi al gruppetto, cercando il piacere di farne parte, poter comunicare con ragazze che credevo avessero molto in comune con me, anche se un po' più grande. 
Per qualche giorno sono stata accettata, ho fatto con loro qualche nuotata, passeggiate sulla spiaggia, qualche gioco, pranzato a mensa allo stesso tavolo e conosciuto gli sbarbatelli che ci facevano codazzo, intrecciato qualche amorazzo, lanciato qualche sguardo assassino, Ero piccina confronto alle altre, però carina, dai modi aggraziati e avevo un bel parlare, una dizione perfetta e argomenti di conversazione, perché frequentavo con profitto le scuole superiori ed ero piuttosto bravina specialmente in italiano, storia, m soprattutto in filosodia. Chissà cosa ho toccato, nell'animo della "capa" del gruppo, che un giorno mi ha fatto vittima di uno scherzo crudele, un vero atto di bullismo. Mi vergogno anche adesso, a distanza di tanti anni, a raccontarlo nei particolari, ma lo ricordo ancora e mi sento morire dall'amarezza ogni volta che mi torna in mente, posso dire che ho cercato di ribellarmi, nell'unico modo che conoscevo, lì in mezzo ad una decina di rafazze e ragazzi che ridevano di me, rossa e con il pianto in gola, mi sono rivolta alla Capa prendendola a parolacce, per prima cosa.l'ho chiamata "puttana", ma per me da tale si era comportata, e un po' mi son ripresa a vederla piangere per tale offesa, che comunque era poca cosa in confronto a quello che lei mi aveva fatto.
Poi è successo quello che sempre accase, come sempre chi è vittima di bullismo non parla con nessuno di quello che ha subito, per vigliaccheria, per pudore o anche per paura, come se un'azione così triste se la fosse meritata, ma non è così.
Invece La Capa, era molto più furba di me, ed è andata dal capo stabilimento dell'isola a raccontare chissà quale versione, mettendo in luce la parolaccia che le avevo detto.

Racconto di Mariella Di Camillo.

Amiche e amici questo è un racconto autobiografico, un'esperienza che mi fa male ancora e voglio condividerla con voi.
Ho scritto di getto, però ora sono stanca (sono le 2.23 di notte) e non mi sento bene.
Domani, rileggo, correggo e continuo......ho bisogno di tirare fuori questo dolore, che rendo pubblico per la prima volta, come fosse un racconto di fantasia.
Per me è importante, non solo dirvi cosa mi è accaduto, ma sapere cosa voi pensate del bullismo che nasce e prolifica nei posti più impensati, da sempre.........e dirvi anche.......
Buona notte a tutti e a domani......

MARIELLA DI CAMILLO

giovedì 7 luglio 2016

"TI HO INVENTATO" di Moses Soon



Ti ho inventato.

Cercavo solamente qualcosa che ti somigliasse, ma non sono mai riuscito a trovarlo. Un particolare, una cosa esclusiva che sapevo essere solamente tua, che solamente io ero in grado di distinguere e riconoscere. Ti cercavo tra mille ombre. Ti cercavo tra la folla anonima di una città spenta. Ti desideravo; cercavo di te qualsiasi cosa non fosse differente da quello che sei. Ti cercavo negli sguardi della gente, negli occhi di una bimba intenta a giocare a palla con un gatto. Ti vedevo appesa al cielo, luminosa e immensa, come la luna che sorge a oriente. Cercavo di afferrarti, ma ogni volta che stavo per agguantarti, il sogno s'interrompeva e tu svanivi. Continuavo a cercarti logorato dalla vita, curvo sulle spalle come un accattone in cerca della compassione altrui all'angolo di una via. Era come se una febbre mi divorasse, giorno dopo giorno, tempo dopo tempo, vita dopo vita. Camminavo per il mondo in cerca della tua essenza, di una prova che mi confermasse la tua esistenza. Camminavo e ti cercavo, scorgendo tra i colori della terra, il nero dell'asfalto, il rosso delle foglie di un autunno senza fine, il giallo del mio piscio, tra i riflessi impalpabili della pioggia, tra le spire di fumo di una sigaretta, tra gli oggetti esposti nella teca di un museo, cercando particolari esclusivi, unici e inimitabili da usare per disegnare il tuo corpo , per trasformare in realtà i miei desideri più estremi, per trasformare in realtà un sogno da custodire per sempre tra le braccia, da riporre tra le pieghe dei miei ricordi. Non riuscivo a udire il tuo richiamo, confuso dal canto di mille altre sirene, e alla fine, esausto e amareggiato, ferito e umiliato, ho avuto un'intuizione, ed è in quel momento che ho capito cosa avrei fatto. Ed è stato in quel preciso istante che ho deciso cosa fare, che ho deciso di inventarti. 
Continua...

MOSES SOON

"UNA DEDICA" di Sara Basili

RACCONTO

Ho ritrovato questo piccolo racconto.
Una dedica.
Lo avevo scritto in occasione della Festa dell'infermiere. 

<< La signora della 3 come sta? >>
<< Abbastanza bene, si sta riprendendo. Il vecchietto della 8? >>
<< Ha passato una brutta notte ma stamattina andava meglio >>

Poi le flebo, il sondino, la farfallina per le analisi, il prelievo, la padella ecc

Questi sono stati gli argomenti che hanno accompagnato i miei pranzi per vent'anni.
Questo succede quando si ha un nonno infermiere e quando due dei suoi tre figli, hanno scelto la stessa professione.
Mia mamma no, lei non è tagliata per questo. Lei ha paura, è sensibile e molto vulnerabile.
Essere infermieri è una vocazione.
È una chiamata, qualcuno li spinge a rinunciare a tutto, per il bene del prossimo.
E loro accettano quella chiamata.
Con paura all'inizio, con rassegnazione poi.
Non è facile vedere tutto quel sangue, assistere al dolore degli altri.
Non è facile mentire ripetendo che va tutto bene, anche quando sai che non è così.
Non è facile star di fianco a un medico che spiega ai familiari la salute del suo paziente.
Perché quel medico, passa una volta al giorno "in visita".
L'infermiere invece resta lì.
Resta quando il paziente si rifiuta di mangiare.
Resta quando crolla.
Resta quando ha paura e piange.
Resta quando il paziente grida:
<< Tutti fuori! >>.
Resta dietro quella porta, in silenzio, ad aspettare che si calmi.
Resta perché sa che quel paziente, in quel momento, conta su di lui.

L'infermiere è il primo che vedi quando ti ricoverano in ospedale e il primo che saluti, quando ti dimettono.

L'infermiere conosce il nome dei suoi pazienti, conosce la loro storia, i nomi dei suoi familiari.
Ha sempre un sorriso, un abbraccio caldo e sincero.
L'infermiere si siede sul bordo del tuo letto, ti consola e ti ascolta.
L'infermiere è un po' prete, un po' barzellettiere e un po' dottore.

Deve essere paziente, coraggioso, pronto e attento. 
Deve avere tutta la situazione sotto controllo senza mai perdere le staffe.
Deve mostrarsi sicuro di se stesso e delle sue azioni.
Soprattutto, parte più difficile, deve essere "di famiglia" ma non troppo.

Questa parte, mio nonno, la dimenticava spesso.

Così, pranzo dopo pranzo, conobbi la Gina, Franco, la Vittoria, Lucio e tutti quelli che incontrò durante la sua carriera.
Sapeva dove abitavano, quanti figli avevano, nipoti; gatti e cani.
Si fidavano di lui.
E lui non voleva deluderli, mai.

Gli anni sono passati, io sono cresciuta, quei ricordi sono ancora vivi e nitidi.
Mio nonno andò in pensione ma mai realmente fu un pensionato.
I pazienti continuavano a chiamarlo, ad aver bisogno di lui, e lui interveniva.

<< Così fanno gli infermieri quelli veri! >> ci diceva sempre, e noi accettavamo in silenzio.

Quando guardo mia zia, rivedo mio nonno.
Il suo sguardo fiero mentre percorre i corridoi del reparto.
Le sue strette di mano vigorose e sincere.
La sua onestà e il suo senso del dovere.
La voglia di non affondare di fronte a un sistema sanitario in continuo declino.
Ha ereditato questi tratti da mio nonno.
Anche lei porta il lavoro a casa.
Dopo aver concluso il turno, come lui, riceve chiamate dai pazienti, richieste di aiuto e di conforto.

Mi manca mio nonno e mi mancano quei pranzi.

Adesso non so più niente della Gina, di Franco e di tutti gli altri.
Perché alla fine, tra un piatto di pasta e una bistecca, sentir parlare di pannoloni e flebo, non era poi così male! 

Auguri a tutti gli infermieri in servizio e a quelli in pensione.

Nessuna cifra sarà mai sufficiente per ripagare davvero quello che fate!

SARA BASILI

martedì 5 luglio 2016

"PER RACCONTARVI CHI SONO.." di Cinzia De Martini



Per raccontarvi chi sono...


La vita è una cosa strana, davvero.
La mia, per molto tempo, è stata come tante: sposa, mamma, maestra elementare. Tutto normale, tranquillo, forse un po’ noioso.
Ma una mattina di luglio, avevo quarantasette anni, è tutto cambiato.
Mi ricordo, ero in bagno, mi guardavo allo specchio, mi sentivo strana, la mia bocca era un po’ storta… Dovevamo partire per il mare. Mio marito mi ha chiesto se la valigia era pronta, io l'ho guardato e non gli ho detto niente. Non riuscivo a parlare.
Lui mi ha invitato a scrivere cosa mi capitava su un biglietto, ma dalla penna sono usciti solo scarabocchi. Allarme, pronto soccorso, TAC, angiografia, diagnosi. Un ictus mi aveva rubato le parole.
Non so spiegarvi cosa mi passava nella testa, non riesco a ricordare se miei pensieri fossero parole o immagini. Mi hanno ricoverata e non capivo perché; vedevo mamma, figli, fratelli, con la faccia stravolta intorno al mio letto.
Mio marito passava le notti seduto su una sedia, vicino a me, spiando il mio respiro. Io invece dormivo pacifica: ero certa che sarei tornata a parlare.
Mi ricordo lo sguardo sbalordito di un’infermiera quando, una mattina, le ho sorriso e le ho detto buongiorno.
E piano piano riaffioravano parole, a volte storpiate, mozze, a volte inventate.
Ho visto la mia TAC: un bel buco nero nel mio cervello. E i medici dicevano che ero stata fortunata. Mi veniva un po’ da ridere, ma forse avevano ragione.
Sai, un mese all’ospedale ti insegna molte cose. Vedi da vicino il dolore degli altri: il pianto di una donna che vede morire il suo uomo, la rabbia di un ragazzo che non riesce più a camminare, la solitudine di una vecchietta che è felice se solo le accarezzi la mano e le chiedi come sta.
Sono ritornata a casa decisa a riprendermi la vita. E ce l’ho fatta, grazie alle persone che amo e che mi amano, ma anche alla mia caparbia voglia di non arrendermi, e a un po’ di umorismo (i miei neologismi erano proprio divertenti!).
Ho trovato un nuovo modo di parlare con gli altri e di ascoltarli, proprio perché ho scoperto il valore delle parole. È strano, ma il vero dialogo con mio marito è iniziato solo quando io ho perso la voce, e lui ha temuto di perdere me.
Un anno dopo mi sono iscritta all’università. All’inizio mi sentivo un pesce fuor d’acqua, in mezzo a quei ragazzi, ma ho scoperto di non essere l’unica studentessa “attempata”: ho trovato delle nuove amiche che, come me, stavano realizzando un vecchio sogno. Bellissimo!
Volevo sapere come funziona il cervello. E se il mio funzionava.
Prima degli esami orali ero in preda al panico (quando sono emozionata il mio linguaggio è ancora un po’aggrovigliato), però mi buttavo lo stesso.
Beh, non ci crederete: sono diventata psicologa!
Ma non mi bastava: volevo diventare psicoterapeuta infantile, e dopo essere stata rifiutata da diverse scuole di specialità (Sa, signora, alla sua età il percorso sarebbe troppo impegnativo) finalmente ho trovato chi è disposto a puntare su di me.
E ce l’ho fatta, sono diventata psicoterapeuta. E nei momenti liberi scrivo.
Noi donne troppo spesso rinunciamo ai nostri sogni per permettere a marito e figli di realizzare i loro. Così succede che loro crescono, imparano, scoprono il mondo e noi restiamo indietro, a guardare e aspettare… Aspettare cosa? Di andare in pensione e chiederci dov’è andata la nostra vita?
È così bello, invece, continuare a crescere anche “da grandi”.
Adesso la mia vita è vera vita; sono ancora moglie, madre, e anche nonna, ma lo sono in modo diverso, perché sono anche altro. Una donna intera, che ogni tanto inciampa nelle parole. Ma fa niente.

CINZIA DE MARTINI

sabato 2 luglio 2016

"TANTO TEMPO FA" di Vincenzo Patierno



Tanto tempo fa

In una giornata d’autunno, di una lontana epoca non precisata, un viandante, oramai non tanto giovane, del quale non si sapeva ne da dove venisse e ne chi fosse, anche se il suo nome che era Antonio non si sa come si conoscesse, dopo aver trovato riparo tra le mura della chiesa della SS. Maria dell'Assunta raccolse le sue poche cose e il bastone con cui accompagnava i suoi passi e si incamminò sul sentiero che dalla Valle dei Mulini conduce ad Amalfi, attraversando monti e boschi. Durante il tortuoso cammino, dove esso costeggia i corsi d’acqua e cascate, si pensa che abbia lasciato i suoi pochi averi. Giunto nella cittadina amalfitana si diresse verso una piccola spiaggia, lì assorto nei suoi pensieri passeggiò a lungo sulla battigia dove le onde si infrangevano dolcemente e lo sciabordio risultava un dolce canto che gli rievocava trascorsi lontani, mentre lo sguardo era perso all’orizzonte e nell’immensità del mare. L’oro del tramonto lambiva il cielo quando Antonio, che era da un bel po’ che era lì, decise di proseguire il suo cammino, ma ad un tratto la sua attenzione fu rapita da una misteriosa figura che emerse dalle acque e incominciò a nuotare nella scia di luce verso la spiaggia. L’uomo divenne marmoreo mentre i suoi occhi erano increduli per ciò che vedevano: Una sirena. Ella, di bruna carnagione, aveva i capelli, di un intenso corvino, adornati da coralli di varie sfumature che le scendevano fin su i seni, il colore degli occhi era tutt’uno con quello del mare e l’argentea coda luccicava in esso. Giunta in prossimità della riva porse a l’uomo la mano, adornata da bracciali di conchiglie, invitandolo a seguirlo con voce suadente e un sorriso ammaliante che le riempiva l’ovale viso. Antonio, dapprima titubante, entrò in acqua e prese la mano della marina fanciulla iniziando a nuotare con lei. Oramai lontani i due si immersero nel ventre degli abissi, nel tempo in cui gli ultimi istanti di tramonto scomparivano all’orizzonte. L’uomo non fece più ritorno e tantomeno non si seppe più nulla di lui. Una leggenda di pescatori narra: Che nelle notti di luna piena si possono scorgere Antonio e la sirena danzare tra le onde del mare…

VINCENZO PATIERNO

martedì 28 giugno 2016

"LA PRIGIONE, LA NOTTE, DIVENTA IL SILENZIOSO GRIDO CHE SPALANCA ALLA PROPRIA COSCIENZA LE PORTE DELL'INFERNO.." di Moses Sono

La prigione, la notte, diventa il silenzioso grido che spalanca alla propria coscienza le porte dell’inferno. Una lama di luna rischiara le pareti della piccola cella. Un velo d’organza delicato dietro il quale traspaiono preghiere incise con disperazione sull’intonaco di una parete screpolata: “Mary, ti amerò per sempre.” Buffo detto da uno che deve rimanere tra quelle quattro mura tutta la vita. Legge e rilegge quelle frasi, quasi fossero testi sacri, come se tra quelle parole si nascondesse qualcosa che assomigliasse a una speranza, qualcosa che lo potesse aiutare a rimanere in vita, che non lo facesse dubitare delle sue scelte. “La signorina Crotemburg? Che ne sarà ora di lei. Le sue condizioni saranno migliorate?!” Decine di domande gli ronzano in testa impietose, tutte, però, destinate a rimanere senza risposta.
Il suo sguardo oscilla confuso, scorrendo il soffitto, scendendo tra le ombre che si proiettano danzando sul pavimento di mattoni rossi, sgorgando ininterrottamente, spaventose e lugubri, dalla grata della finestrella. Cerca di aggrapparsi con disperazione ai ricordi, ma la memoria è una troia capricciosa,si sa, può ingannarti in ogni istante; nella sua mente le immagini di volti, voci, sguardi, diventano sempre più difficili da rammentare. Avrebbe preferito tacere, non venire messo a conoscenza di una verità tanto devastante. Il professore si guarda le mani. Sono piccole, le dita sottili, asciutte, agili, rese così da anni di duro e frustrante esercizio. Oltre al lavoro, al suo costante impegno al conservatorio, alle solitarie serate passate a rimuginare sulle sue irrequietudini , a cosa era stata sino a quel momento la sua vita? Non aveva legami con nessuno. Suo padre era morto che lui era poco più di un ragazzino e sua madre se l'era portata a all'inferno un carcinoma devastante, dopo una lunga d'agonia, due anni or sono, di tutta la sua famiglia non gli restava che un album pieno di vecchie fotografie. Con le donne, poi, era un vero e proprio disastro, non sapeva come attaccare bottone, era timido e impacciato e loro non parevano provare per lui nessuna attrattiva. L’amore, quello carnale, lo andava cercando nei postriboli ma anche lì, le puttane lo umiliavano con la loro indifferenza. Nessuna di loro pareva trovare interessante quell' omuncolo dall’aspetto scialbo e impacciato al punto da sembrare costantemente intimorito da qualcuno o da qualcosa tanto era taciturno e distante da tutto e da tutti nel suo modo di fare.

MOSES SOON

domenica 26 giugno 2016

"L'ANGOLO D'AUTORE" di Cynthia Collu



L'ANGOLO D'AUTORE 

La prima volta che lui la colpì con forza erano sull’ascensore.
Stavano andando a cena da Livia e c’era stata una discussione sul ritardo.
«Colpa tua» le dice Sebastiano – è da un po’ che lei si è licenziata e lui si arrabbia per motivi futili, diventa subito irascibile, Miriam non riesce mai a prevedere l’esplosione di violenza. «Fai sempre i tuoi porci comodi! Che te ne frega di fare aspettare gli altri? Tutti devono stare ai tuoi ritmi, vero madame la marchesa?»
Lei tiene Teodoro in braccio, lo stringe a sé, sente il suo sudore pulito e le parole di Sebastiano fanno meno male, ribatte qualcosa per fortuna ha gli occhiali da sole, non vuole fargli vedere la rabbia. Il ceffone arriva inaspettato.
Il colpo glieli fa saltare via, sente la stanghetta di metallo ferirle la carne, proprio sopra lo zigomo, sente il sangue che cola. Sente il pianto di Teodoro. La sta guardando, gli occhi larghi di spavento. «Non è niente, amore, papà sta giocando.» Gli sorride, lo fa ballare tra le braccia. Il bambino scoppia a ridere a scatti nervosi. Sebastiano le volta la schiena. Non si scusa.
In macchina non parlano. Miriam guarda fuori, si tampona il sangue col fazzoletto, sorride al figlio. Teodoro si è messo il pollice in bocca e succhia con forza.
Miriam guarda fuori e si dice che è una stupida, una vigliacca. Dovevo tornare a casa e lasciarlo andare a cena da solo, e poi fare le valigie, presto, subito, senza ripensarci, Dovevo sparire, lasciarlo solo come un cane rabbioso. Ma come si è permesso! Com’è possibile che io sia qui, al suo fianco e faccio finta di niente e guardo fuori dal finestrino e vedo le macchine la gente gli alberi e questa cosa terribile che lui mi ha fatto me la devo tenere, nessuno là fuori sa quello che lui mi ha fatto, questa cosa odiosa, avevo il bambino in braccio, come si è permesso, come ho potuto permetterglielo, e devo fare finta di niente per Teodoro mentre vorrei solo spalancare la portiera e correre via, il più lontano possibile. Bastardo! Brutto bastardo. Teodoro si è calmato, povero figlio, prima ha gridato e si è messo a piangere e questo bastardo niente, neanche stesse piangendo un cagnolino per strada, ma me la pagherà! Avrei dovuto restituirglielo, quel ceffone, se ne è approfittato perché tenevo il bambino e non ho voluto mettergli le mani addosso, vigliacco, schifoso, se n’è fregato di spaventare il piccolo, sono una stupida, dovevo lasciarlo uscire dall’ascensore e dirgli: Con me hai chiuso, e poi tornare su e preparare di corsa le valigie. E se lui m’inseguiva, se mi picchiava ancora? No, non l’avrebbe fatto, non gliene frega niente se non vado con lui a cena, mi avrebbe lasciata tranquilla così potevo preparare le valigie e andarmene. Le faccio domani, quando lui non c’è. Chiamo Sara e glielo dico. Ma che vergogna, che vergogna. 

da "Sono io che l'ho voluto" di Cynthia Collu

martedì 21 giugno 2016

"ANIME SULL'ORLO DI ABBANDONO" di Domizia Moramarco

Anime sull'orlo di Abbandono

Pensò di averla delusa e l'abbandonò. Così, lasciò l'appartamento dove avevano condiviso gli anni migliori della loro vita assieme e se ne andò, da solo, verso il suo nuovo mondo. Così, senza proferire parola alcuna, senza trovare una frase che fornisse spiegazioni al suo comportamento assente, senza tentare di riscrivere la loro storia. Tanto, si chiedeva mentre chiudeva la porta alle spalle, cosa avrebbe potuto dirle, guardandola in quegli occhi profondi e bui come la notte, per cercare di recuperare un valore a una merce derubata e poi ritrovata nel fondo di una strada maleodorante, dove i sogni non profumano più di ardore e aspettative?
Così, se ne andò e non fece più ritorno.
Ecco, lo ha scoperto e mi ha mollata. Non ha lasciato tracce di rancore dietro di se, ma la solita scia di gentiluomo fiero e tutto d'un pezzo. Affrontare una povera vittima di vita, senza speranze come me, sarebbe stato troppo umiliante per uno come lui.
Quando l'ho conosciuto mi è sembrato di aver ricevuto la Benedizione che mi è mancata il giorno del Battesimo mai consacrato. La navata della Cattedrale, pronta ad abbracciare la mia Anima, si era finalmente eretta sul mio capo e io, genuflessa, l'ho chinato per ricevere quelle mani aperte su di me. Donatami tutta al mio samaritano soccorritore, ho seguito le sue impronte come animale alla ricerca di oasi nel deserto, di acqua che disseti arsura d'affetto mancato sin dalla culla.
E adesso sono carnefice d'abbandono, attrice di sobborgo di un mea culpa che non reciterò mai dinanzi al più grande spettatore che è Amore, vestito dei suoi abiti più belli, cuciti dal filo Sincerità.
Mi cospargo le membra di sassi, a seppellire un corpo che non ha più da donare ad Essere altrui, se non il suo delitto di traditrice compulsiva.

DOMIZIA MORAMARCO

"ANIME SOMMERSE" di Nadia Levato



Anime Sommerse

La sera della nostra partenza il mare era un mostro dormiente; un’estensione di acqua e spuma bianca raccolta sulla battigia, illuminata appena da uno spicchio di luna. 
La risacca aveva lavato le nostre caviglie e accolto la nostra paura, confondendola con il miraggio di un futuro diverso. Dietro di noi la fame, la guerra, la nostra terra ferita e offesa, i volti cari di chi ci lasciava andare senza poter sapere se quello sarebbe stato un arrivederci o un lacerante addio.
Lo spazio sulla barca era esiguo. E noi eravamo tanti. Ci sistemarono con poco garbo, tra spintoni e calci disposero i nostri corpi, come oggetti ci divisero: le donne e i bambini da un lato, gli uomini dall’altro.
Il viaggio, ci avevano assicurato, sarebbe durato poco. La costa italiana non era poi così distante. Ma i giorni erano passati nel freddo e nell’odore nauseante di escrementi e urina. Due, forse tre. 
Quella carretta nel mare, scricchiolante e fragile come le nostre storie, sfidava le onde, il freddo, il vento in un susseguirsi di tramonti e albe che sorprendevano i nostri corpi, neri e ossuti come legna da ardere. Il pianto di Amina, la mia bimba di appena due anni, si univa a quello di altri bambini. Senza cibo e senza acqua non avremmo potuto navigare a lungo. In un peschereccio di pochi metri ci accalcavamo gli uni sugli altri come formiche arrese, pronte ad implodere. I nostri visi sfioravano quella distesa di acqua salata, cangiante e mutevole come le nostre emozioni. Come rami protesi sopra i bordi di quel precario vascello, aspettavamo di scorgere quel pezzo di terra che, tra le onde del mare, ci avrebbe parlato di libertà. 
Schiacciata da corpi stanchi e sfiorata da sguardi vuoti come la mia pancia, cercavo di soffocare nel petto il pianto insistente di Amina, oramai allo stremo per il freddo e la fame. I suoi occhi imploranti e liquidi mi scavavano nel cuore solchi profondi come i tagli che portavo sulla schiena, dolorosi e brucianti come carne viva e scoperta. La stringevo a me e anch’io, sopraffatta dalla paura, piangevo lacrime asciutte. 
All’alba del quarto giorno, un urlo mi destò dal sonno pesante in cui ero sprofondata. Sentivo un calore sopra lo sterno. Impiegai qualche istante a realizzare che quel bollore proveniva da Amina. La sua testa bruciava. Il fiato era corto e rumoroso, le mani fredde e sudate. Intanto sulla barca si era creato uno strano movimento. Con apprensione controllai il nodo della fascia che legava Amina a me, mentre qualcuna gridava.. terra. 
Terra fece eco un’altra voce. 
Quella parola prese forma nella mia testa, terra ripetei tra me e me…
Terra..terraaa gridai con tutto il fiato che avevo in gola. 
Tentai di tirarmi in piedi, Amina ben salda al mio corpo aprì per un istante i suoi grandi occhi neri agganciandoli ai miei. Quello sguardo mi fece tremare cuore e anima. Terra le sussurrai dolcemente, avvicinando piano le mie labbra aride al suo orecchio sinistro. 
Presto sarai salva bambina mia. 
Le gambe erano come anestetizzate e con fatica riuscii a portarmi in piedi; appena in tempo per scorgere all’orizzonte quella sagoma verde e marrone adagiata sul mare. Poi uno scossone mi fece vacillare. 
Terra. 
Dopo giorni di navigazione ecco la nostra meta così vicina, a portata della nostra salvezza e della nostra nuova vita, mia e di Amina. Nel brulicare di gente, il mormorio delle nostre voci copriva il frastuono delle parole concitate degli scafisti. Un altro scossone fece tremare la barca. Accadde tutto in pochi attimi. Un fumo nero salì velocemente su per il cielo. Altro scossone. 
Accadde tutto rapidamente. Troppo rapidamente. 
Con le mie braccia tentai di fare da scudo ad Amina, nel goffo tentativo di ripararla da quei corpi che, improvvisamente, avevano preso a rotolare impazziti verso di noi. La strinsi a me prima di capire che stavamo precipitando in mare e che la barca si era trasformata in una piastra obliqua sulla quale era diventato impossibile reggersi in piedi. E tra gambe, braccia, volti terrorizzati che come schegge impazzite ci sfioravano catapultandosi in acqua, cominciammo a scivolare anche noi due.
Cercai un appiglio. Afferrai con tutte le forze il parapetto scrostato. Le mie unghie si incagliarono in quelle tavole di legno. La Terraferma è così vicina, pensavo in un vortice di confuse considerazioni, mentre venivamo risucchiate in basso, in quella distesa di acqua e sale, amara e fredda come il nostro destino. Ruzzolammo velocemente, la fascia che assicurava Amina al mio corpo si impigliò in una ansa della barca lacerandosi irrimediabilmente, e con lei si lacerò il mio cuore in quel volo di morte che ci avrebbe divise per sempre. L’impatto dei nostri corpi tra le onde fu violento. E mentre l’acqua ci sommergeva fin sopra il capo, il salmastro che entrava nella mia bocca aveva lo stesso sapore della disperazione. 
Provai a restare a galla, giusto in tempo per intravedere le treccine di Amina galleggiare un istante su quella distesa blu. Intanto, sopra le nostre teste, i corpi continuavano a precipitare urlanti, facendo sollevare le onde e inabissandoci sempre più in giù. 
Sentivo che la vita mi stava velocemente abbandonando e ripensavo all’Africa, quella terra da cui ero scappata per portare in salvo il mio bene più grande. 
Amina. 
Provai a gridare il suo nome, ma nella bocca l’acqua strozzava asfissiandomi. Un suono meccanico e possente tagliò l’aria appena prima che tutto diventasse buio. Il mio ultimo pensiero andò a quelle treccine, a quel sorriso leggero che volevo le illuminasse il viso, a quella ricerca di un pezzo di pane che mi aveva portata su un barcone incrostato, scricchiolante e fragile come le nostre storie.
“La sera della nostra partenza il mare era un mostro dormiente; un’ estensione di acqua e spuma bianca raccolta sulla battigia, illuminata appena da uno spicchio di luna. Così mi racconta Jhamila. “Tua madre indossava una paschmina azzurra con striature ambrate e con questa ti teneva legata a sé. Aveva 25 anni e cicatrici profonde come solchi. Sognava per te una vita diversa”.

NADIA LEVATO

lunedì 20 giugno 2016

"UNA GENERAZIONE SBAGLIATA, LA MIA" di Paola Crovi

UNA GENERAZIONE SBAGLIATA, LA MIA

Milano, Piazza Durante.
Giardinetto diviso in due, tre, quattro, cento spicchi di frastuono.
Una piazza non piazza, crocevia, crocicchio.
Niente musica barocca di Francesco Durante, con la bella targa al muro del nobile edificio della scuola, che ricorda a tutti che alla costituzione del regno d'Italia i bambini erano bambini e che per alfabetizzarli alla lingua italiana bisognava mettercela tutta.
I bambini erano tanti e l'istruzione era severa come il palazzo di pietra grigia che la ospitava, con gli ingressi divisi per bambini maschi e bambine femmine.
Una eternità fa, un mondo di valori fa.
La piazza era stata piazza vera con i suoi alberi, le case di ringhiera ora fabbriche, uffici, case anonime.
In uno spicchio dei giardini giochi per i bimbi che corrono di qui e di là in cerca di non si sa cosa.
Al di là della strada extracomunitari in gruppo si riuniscono e si guardano l’un l’altro per riconoscersi.
In fondo a tutto sopra allo sguardo c'è Santa Maria la Bianca, chiesa Viscontea, vestigia di quello che è stata Milano, prima di Leonardo, prima dei francesi, prima degli spagnoli.
Quando i Visconti la facevano da padroni e le Abbazie producevano uomini e santi, frutti, cereali , terre irrigue e tesori nascosti al riparo di mura spoglie, al di là di porte che si chiudevano alle spalle di uomini semplici e prudenti, che le varcavano per morire al mondo.
E dietro la chiesa, oltre il suo perimetro segnato dai mattoni rossi, cotti e ricotti dal tempo, un altro muro di periferia segna un diverso perimetro, quello delle fabbriche. Le fabbriche dell’alienazione e insieme della speranza per un futuro, un vivere migliore, con la casa con dentro il frigorifero, la lavatrice e la televisione.
Muro abbandonato in un desolato vuoto di nulla, di fabbrica che non c’è più, colorato da un laconico murale con volti di giovani, che se ne sono andati a 18 anni, anzi che sono stati buttati fuori dalla vita da altri giovani.
Testimonianza di anni tortuosi, bui, segnati dall’odio che ha diviso una generazione sbagliata, vissuta senza sere allo stadio o al bar.
A uno di quei bar che si affacciano sulle vie del Casoretto, con dentro gente di tutti i colori, che poco sa di Santa Maria la Bianca, del musicista Durante, di Fausto e Iaio che se ne sono andati così, con un tuffo al cuore, lasciando più soli gli altri sopravvissuti di una generazione sbagliata, la mia.

PAOLA CROVI

venerdì 17 giugno 2016

"L'AMORE MALATO" di Cynthia Collu



L'amore malato.

Il femminicidio è solo la punta del'iceberg della violenza sulla donna. Prima, ci sono tanti segnali, spesso sottili, non facilmente identificabili. La donna subisce denigrazioni, accuse, offese e non sempre è in grado di difendersi. Una sberla è subito riconoscibile come violenza, una denigrazione, anche solo un "Stai zitta tu che non capisci niente!" può venire giustificata e perdonata.
Di questo parla il mio romanzo "Sono io che l'ho voluto". Per prendere coscienza che l'amore malato non è solo il femminicidio. Per imparare a difenderci.

"Non l’aveva detto a nessuno, Miriam, neanche a Sara.
Non è che Sebastiano lo facesse spesso, e neppure le faceva davvero male, le lasciava dei segni, questo sì, ma era lei che aveva la pelle delicata.
Aveva iniziato dopo la nascita di Teodoro: era stato quello lo spartiacque. Niente di veramente serio, qualche spintone, o una tirata ai capelli. Lei reagiva, certo, cercava di spintonarlo a sua volta, ma lui le bloccava le mani, e se lei insisteva nel volerlo colpire, finiva che le faceva male davvero. A volte la strattonava tenendola per i polsi, e per un po’ lei aveva male a sollevare dei pesi, come alzare il materasso quando doveva cambiare le lenzuola. In quei momenti le ritornava la rabbia, ma una volta sistemato il letto se ne dimenticava. In fin dei conti succedeva di rado, e a lei non sembrava poi così grave. Liti tra coniugi, come forse capita tra innamorati. Cose che succedono e passano.
[..]
A volte pensava che stessero giocando. Certo, un gioco perfido, ma pur sempre un gioco. Come se entrambi fossero a conoscenza di un confine stabilito in precedenza, oltre il quale non si poteva andare; un tacito accordo sui limiti della violenza da utilizzare durante i loro litigi: uno scontro, o meglio, un confronto, una modalità per esprimere il loro conflitto e forse cercarvi rimedio.
In effetti subito dopo seguiva la riappacificazione. Erano momenti di felicità immensa: facevano l’amore come affamati, lui la faceva godere ripetutamente, poi la portava fuori a cena e le regalava un oggetto che lei desiderava, oppure le comunicava di aver comprato i biglietti per un week-end a Londra, o a Palma di Maiorca, dove continuavano a fare sesso come fossero diventati insaziabili. Due giovani innamorati che avevano litigato ma si amavano. Tutto qui."

da "Sono io che l'ho voluto" di Cynthia Collu

giovedì 16 giugno 2016

"LE NUMEROSE DONNE DA CUI RASHID TRAEVA PIACERE, PENSAVA, ERANO COME SELIMA.." di Maria Pace

RACCONTO

Le numerose donne da cui Rashid traeva piacere, pensava, erano come Selima. Donne le cui bocche gli si aprivano facilmente e voluttuosamente… Non come lei, che aveva esitato prima di scoprire che aprire la bocca ai suoi baci, era la cosa più semplice, dolce e spontanea.
L'ultima cosa che desiderava adesso, però, era che Rashid pensasse che lei volesse spiare lui e la rivale... Spiare, pensava... spiare con occhi supplichevoli e smarriti e con la stolta gelosia della donna che si nasconde e spasima. No! Non era da lei.
Ed intanto, proseguendo, il passo già affondava nella sabbia vicino alla monumentale Fontana del Fico, la cui ombra proiettata al suolo, malinconica e solitaria, la inghiottì subito.

dal libro "DUNE ROSSE" di Maria Pace

mercoledì 15 giugno 2016

"L'ANGOLO D'AUTORE" di Cynthia Collu



L'ANGOLO D'AUTORE

Ti ho mai raccontato dell’isola bianca? Era piccolissima, circondata da scogli bianchi come il ghiaccio, e noi ragazzi facevamo a gara a chi ci arrivava per primo a nuoto.
Quand’ero bambino ci abitavo proprio di fronte. Uscivo di casa e parlavo col mare. 

Mio padre giocava sulla battigia. Quando si svegliava apriva la porta e si trovava davanti il mare.

“Buongiorno mare”, gli diceva.

“Buongiorno, Lorenzo”, rispondeva il mare.

Mio padre ne osservava l’umore. Se era allegro, se era triste, se era arrabbiato. A lui il mare piaceva comunque. Si sedeva sulla sabbia e giocava. Nonna Cosma l’aveva messo per terra non appena era stato in grado di camminare e mai più ripreso in braccio.

“I bambini si viziano a sdolcinarli troppo, soprattutto i maschi”, diceva al marito. “Io voglio che nostro figlio cresca con la scorza dura.”

Papà si consolava parlando col mare.

“A che pensi?” chiedeva il mare a mio padre.

“Penso all’isola bianca. La vedi?”

“Certamente. E’ a un chilometro dalla spiaggia dove vivi tu.”

“Ci sei mai stato?” domanda papà.

“Io sono dappertutto”, dice il mare.

“Voglio venirci anch’io”, dice papà. “Voglio raggiungere l’isola bianca.”

“Perché?” chiede il mare. Papà non risponde.

“Che speri di trovarci, Lorenzo?”, insiste il mare, e intanto scuote la testa facendo schiuma.

Papà non lo sa che spera di trovarci. Ha solo quattro anni e non può sapere tutto.

Voglio solo sapere che cosa c’è laggiù, vorrebbe dirgli, ma un po’ si vergogna, gli sembra una cosa stupida da dire al mare che è tanto importante. Allora china la testa e si mette a giocare con le conchiglie.

E’ magrissimo, le scapole gli fuoriescono dalle spalle come due alucce troncate; sotto il sole sembra un ranocchio pronto a saltare via.


“Ecco, la vedi l’isola bianca? Da ragazzo ci arrivavo a nuoto. Una mezz’ora, quaranta minuti al massimo. Senza sforzo.”

Gonfia il petto con quel po’ di carne attaccata che gli è rimasta, e io alzo lo sguardo per osservare l’isola.

Sono solo pochi scogli in mezzo al mare, così candidi da sembrare neve.

Oggi l’isola bianca non esiste più. L’hanno cementata, ci hanno fatto sopra un lungo ponte che poi è diventato un molo. Il molo bianco, lo chiamano, in ricordo dell’isola che non c’è. Adesso ci attraccano le grandi navi: sono lente, solenni. Bianche anche loro.

Ciò che resta dell’isola sono quegli scogli lontani. Di certo non sono gli stessi che guardava mio padre. Ma la sua Isola lui l’ha ormai raggiunta per sempre, e nessuno gliela può più cementare.

Da "Una bambina sbagliata" di Cynthia Collu

"NARRA LA LEGGENDA CHE....." di Chiara Minutillo

"Narra la leggenda che, un tempo, a Montisola, un'isola nel bel mezzo del lago d'Iseo, vivesse una bellissima fanciulla che era solita passare le sue giornate in riva al lago a versare lacrime di dolore per la scelta del ricco padre di prometterla in sposa a un nobile giovane della Franciacorta. Privata della possibilità di amare veramente un uomo, la ragazza trascorreva il suo tempo nel tentativo di sfogare l'amarezza. Fino a quando, un giorno, cadde proprio in quelle acque, che la inghiottirono, rischiando di farla annegare. Fortunatamente, su quelle acque, si trovava di passaggio un giovane pescatore di Sarnico che la vide e la trasse in salvo. Tra i due, scoppiò l'amore, ma il padre della fanciulla fece di tutto per ostacolare quella relazione, al punto da imprigionare e uccidere il giovane pescatore. Convinto di avere ormai la figlia in pugno, l'uomo non aveva fatto i conti con la determinazione della ragazza, la quale consegnò la sua vita nelle mani di quelle stesse acque da cui era stata salvata, nella speranza di ricongiungersi con il suo amato. Da allora, il lago è spesso tormento dalla Sarneghera, un forte temporale, segno che i due giovani si stanno cercando sul fondale di quelle acque scure, mentre il cielo scaglia tuoni e fulmini per vendetta verso un giovane amore e due giovani vite negate".
La Sarneghera è, da sempre, il più violento fenomeno atmosferico del Sebino. Un forte temporale che arriva all'improvviso, ricoprendo il lago, nel giro di pochi minuti, con un cono d'ombra che lo rende terribilmente minaccioso. Laddove i turisti vedono solo un temporale, però, la gente del posto ritrova la magia e la drammaticità di una leggenda che, a lungo andare, ha penetrato l'animo degli abitanti.
Visto il recente progetto che vede protagonista una passerella fluttuante da Sulzano a Montisola, alla gente del posto viene quasi spontaneo chiedersi: chissà se per 20 giorni i due amanti rinunceranno a cercarsi...

CHIARA MINUTILLO

martedì 14 giugno 2016

"IL SAPORE DELLA LUNA IL PROFUMO DEL SOLE" di Francesco Falcone

Il SAPORE DELLA LUNA IL PROFUMO DEL SOLE - cap III

Questo manufatto abbandonato, che una volta apparteneva al complesso dove abitava, si trovava al di là della larga strada polverosa che passava proprio davanti al cancello che chiudeva la recinzione della villa, e si raggiungeva inoltrandosi per pochi metri in discesa verso la riva del fiume per un sentiero ormai completamente sommerso nella vegetazione.
Poggiata su di una struttura alta sull’acqua e ancora ben solida, in cemento, la parte abitabile superiore era stata una volta una specie di casamatta fluviale per la guardianeria, costruita quando venticinque anni prima ospitava una lancia a motore armata, e il personale di sorveglianza.
Da lì si controllava la grande ansa, ove il fiume si allarga e bagna, una di fronte all’altra, le due grandi città: Brazzaville, costruita dall’italiano conte Savorgnan di Brazza, ora capoluogo dell’Africa Equatoriale Francese; e Leopoldville battezzata così in onore di Leopoldo II, re del Belgio, che sin dal 1879 aveva cominciato a investire i suoi interessi e le sue fortune nel vasto e ricco bacino del Congo, convincendo poi nel 1885, col trattato di Berlino, le nazioni
europee a essere riconosciuto sovrano prima di fatto, poi di diritto dello Stato Libero del Congo; costituendo poi la colossale “Compagnia Internazionale del Commercio” nella zona di libero scambio, con la quale aveva legato i principali gruppi commerciali e minerari d’Europa.
Nella villa di Couragin, prima suo nonno, e ora suo padre erano per tradizione Agenti del Governo in queste attività e rappresentanti di una serie di Aziende nazionali e private, che avevano ancora lì, dopo tanti anni, un intrico di compartecipazioni e di intrallazzi.
All’epoca la stazione di posta, ora in disuso, ove si era rifugiato Couragin serviva sia come base di comunicazione fluviale, che, come detto, quale punto di controllo per ogni eventuale intrusione di indesiderati per la via d’acqua. In quei tempi le Compagnie commerciali che operavano in Africa avevano ognuna le proprie milizie e polizie militari a protezione e tutela dei tanti imprevisti che provenivano da territori in parte ancora inesplorati.
E in un primo tempo la strana combinazione d’affari che legava Re Leopoldo alle varie etnie e tribù dei Bantù, dei Bakuba, dei Bolongo etc… aveva creato una specie di reame assortito e sempre in fermento, nel quale tutti erano regnanti e tutti si dovevano ben guardare le spalle…
I Francesi di fronte, si erano assestati con il controllo e il dominio sulle etnie del basso Congo al di là del fiume nella A.E.F.
A est, subito dopo il Trattato di Berlino, i tedeschi per non esser da meno, avevano anch’essi provveduto a metter piedi e uniformi nei territori del Ruanda e del Burundi, come protettorato dell’Africa Orientale Tedesca; e da allora le loro cannoniere perlustravano il largo fiume, apparendo sovente come un tacito avvertimento.
Le loro torpediniere minacciosamente armate, servivano sopratutto a mantener deste e vigili le smanie militaristiche delle nazioni europee che avevano colà insediato le loro colonie.
In segreto il loro obiettivo politico era primariamente di sobillare e mantenere concentrata nella lontana Africa le attenzioni e la competizione coloniale fra Inghilterra e Francia affinché quest’ultima oltretutto fosse distratta dal pensar sempre all’Alsazia e alla Lorena.

FRANCESCO FALCONE