Condannata ai tuoi occhi. Fui condannata perché capace di ferirti nonostante sentissi il dolore che ti diedi, come il calore che scivola da un corpo ad un altro, come le dita intrecciate di amanti ardenti e spaventati. Il freddo di quell’inverno vuoto ma pieno di te mi segnò labbra e mani. Il freddo si, quello che un tempo amasti tanto. Forse fu per questo che uscii fuori, al gelo, per sentirlo invadermi come centinaia di piccole punture d’insetto; accoglierlo come se fossi tu, sotto ogni forma, a qualsiasi costo, sacrificando di buon grado una salute che non m’importò più di curare. Perché vivere una lunga vita senza te? Peccai mentre feci mantello del freddo barattandolo con il tepore di quella piccola parte di me che ancora una volta cercò di salvarmi. Ti chiamai per nome mentre battei i denti ripetutamente. Scivolai nelle oscurità di visioni orribili continuando a squittire quel tuo nome cicatrizzato nella mia mente e, tra lacrime e paure, incappai in una strada sconosciuta. Mi perdetti tra l’eco dei miei stessi passi. Silenzio. Non pensai che a te. Seguii la tua immagine, come il cane fedele segue il padrone, senza conoscere percorso e destinazione. Ti vidi, dopo tanto errare, immobile sugli scalini di una vecchia casa. La cassa toracica si strinse forte attorno all’aria buona; non respirai che del forte tormento. La paura che tu potessi svanir di nuovo fu potente; più potente di ogni mia paranoia, fobia o ossessione. Mi trascinai fino a te con l’ultima aria tenuta nascosta sotto la lingua e mi sedetti. Consapevole di non essere meritevole della tua attenzione provai a parlarti con l’ansia di un principiante alla sua prima audizione. Fissai un punto qualsiasi. “Non dire nulla.” dicesti prima che potessi proferir parola. Fu così che trascorsero i minuti seguenti, nel silenzio di passanti tristi ed infreddoliti, frettolosi ed incuranti, sporchi di freddo e rabbia, nel nostro silenzio. Stringesti tra le mani una rosa bianca come se le tue dita fossero fili d’erba di un campo primaverile. Le amai le tue mani; quante volte, nei miei sogni, le strinsi come una protezione contro le incertezze della vita reale. L’amai quel tuo tatuaggio indecifrabile come fosse poesia, incondizionatamente, senza conoscerne mai il vero significato come amai te, senza saper nulla del tuo ieri, senza pretendere nulla dal domani. Ti amai perché la tua essenza ricordava le note zuccherine di un pianoforte, quelle in cui ci si rivede bambini, quelle in cui ci si sporca di pioggia e di quella fanghiglia che solo una madre sa lavare via, quelle che fanno lo sgambetto ad un sorriso soffocante per liberare l’anima dall’oppressione della vita adulta. Ti amai perché m’insegnasti senza aver la presunzione d’insegnarmi nulla. M’incantai a guardare i tuoi occhi cerulei come si può guardare un cielo dopo anni di prigionia in luoghi oscuri e guardai la sagoma del tuo essere perfetto per interrogarne i pensieri. Improvvisamente ti alzasti e prima che potei di nuovo aprir bocca dicesti nuovamente “Non dire nulla!”. Rimasi lì a guardarti svanire ancora una volta. Fui sola. Mi chiesi per l’ennesima volta " Quando ci si abitua alla solitudine?" e non trovai risposta. Rimasi sugli scalini gelidi dove t’incontrai per la prima volta qualche anno prima e pensai a lungo. Nemmeno il maestrale prepotente poté allontanarmi da quei pensieri sempre pieni di te, di noi. Mi cullai nel ricordo di quando cullai te addormentandomi contro una piccola colonna del porticato semi distrutto. Non dormii realmente ma sognai e senza il solito batticuore. Mi risvegliai bruscamente. Fui nel nostro letto. Il comodino mi sembrò un cimitero di fazzoletti e cibo appena sfiorato, le lenzuola impregnate di gemme salate sciolte in ripetuti tormenti e poi tu lì accanto, dietro la mia schiena. Sentii i tuoi respiri dai ritmi frenetici, singhiozzanti di lacrime e veleno, di parole confuse. Mi voltai e per altri istanti mi perdetti in quegli occhi cerulei; ma fu un ceruleo tinto di ragnatele rosse e umide. Fissasti il vuoto e mi sentii come attraversata dal tuo sguardo, come fossi invisibile. Sentii un gran dolore. E ancora dicesti “Non dire nulla.”. Ti alzasti e con passo sbandato ti vidi sparire ancora. Stavolta però mi alzai anch’io e ti seguii. Fosti lì, ferma, su quel terrazzo nel quale ci piaceva tanto inventare storie, a ridosso di una scogliera, con la vista su un mare che non finii mai di sorprenderci; sempre nuovo, impetuoso e antico, come l’amore che provai solo per te in tutta una vita. Mentre mi perdetti in quei ricordi sentii delle piccole dita sfiorare le mie: una bambina, dai tuoi stessi tratti somatici, mi sorrise quasi a volermi dire “ Va tutto bene! Ci sono io qui!”.
Condannata ai tuoi occhi. Fui condannata perché capace di ferirti nonostante sentissi il dolore che ti diedi. Ma non fui colpevole, non lo feci di proposito. Qualcuno decise per me che il mio tempo lì era giunto a termine. Vidi i nostri ultimi istanti e tu, amor mio, con ogni parte di te aggrappata non al mio corpo, non alla carne, ma all’anima. Ti ribellasti a quel destino con parole confuse e rabbia ma io non volli ricordarti così ed ad ogni scongiura, ad ogni tua supplica risposi sempre e comunque “Non dire nulla.” Fino al mio ultimo respiro. Silenzio. Mentre ricordai come uno spettatrice il mio ultimo giorno su quella terra benedetta realizzai che disegnai a tua somiglianza quella bambina che non avremmo mai potuto avere perché almeno lei, alla quale donai i tuoi stessi occhi, nella mia follia, potesse guardarmi senza trapassarmi, o sarei morta per la seconda volta senza il tuo sguardo.
( © Maria Francesca Consiglio writer- all rights reserved.)
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