Cerco invano di liberarmi del passato.
Immaginavo la mia vita fuori di casa con sulle spalle un sacco di foglie.
Con i miei silenzi il sacco si appesantì sempre di più al punto che ho dovuto fermarmi.
Stando fuori tutto il tempo, avevo paura che non potessi più tornare così spesso, perché dovevo trascinare il sacco sempre più pesante.
Allora non capivo che la casa eravamo noi stessi.
Che l’espressione ‘mi sento a casa’ voleva dire pure ‘sono me stessa’. Che il luogo fisico non aveva proprio importanza.
E così, con il tempo, il sacco si riempì.
E’ diventato pesante e per sopravvivere ho dovuto cominciare a tirare fuori qualcosa, dovevo rinunciare a delle cose.
In quel momento mi ero pentita che non avevo accettato il cambiamento quando cercavamo casa, sarebbe stato tutto più semplice: i sogni suoi proiettati su di me.
Dovevo arrivare a una nuova dimensione: rinunciare alle aspettative. Per stare meglio. Sul lavoro, a casa, con i figli, con il marito, con la mamma, con i parenti, con tutti. Dovevo capire che avremmo dovuto amarci indipendentemente da tutto.
Perché il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’apatia e l’indifferenza.
Era quanto stava capitando a me.
Incontrando un’amica avvocato divorzista mi tranquillizzò dicendomi che si trattava della crisi del quindicesimo anno. Lei stessa l’aveva attraversata e in Tribunale c’era sempre la fila di coppie che chiedevano la separazione.
Io non volevo separarmi, anche se apparentemente, non essendo diplomatica e chiara, facevo spesso capire che fosse quella la soluzione ai miei problemi. Cambiare mio marito era impossibile.
Nel frattempo, per aiutare la mamma ho voluto sperimentare su di me le medicine e gli antidepressivi che doveva prendere lei.
Ipocondriaca da sempre ci ha continuamente terrorizzati con la paura del cancro.
Mi chiese di andare al Dipartimento di salute mentale per chiedere un appuntamento per lei, anche se ero convinta che non ci sarebbe mai andata. Infatti non c’è stato verso di persuaderla, anche pregandola di farlo solo per me.
Ho assunto gli psicofarmaci quasi a farle un dispetto, ma ero disperata. Lei mi parlava della morte e avevo chiara l’immagine che avrei perso anche lei. Volevo darle l’esempio che con i farmaci sarei stata meglio.
I primi giorni, per un mese, pensavo di morire più di prima. Mi sono avvicinata parecchio alla morte, anche se avevo la speranza che, se li avevano inventati, qualcosa di buono avrebbero pur fatto.
In realtà mi hanno dato la forza di affrontare parecchie cose: la separazione dalla mamma, la separazione lavorativa da mio marito, ma poi, siccome avevo preso quindici chili in un anno, ho pensato bene di smettere prima, visto che sentivo il pericolo di potermi separare dvvero. Temevo senz’altro la separazione. Per i miei figli. Ma quanto è giusto tenere un rapporto in piedi solo per i figli?
Servirà loro?
La decisione di smettere i farmaci è stata una sfida, come cominciarli. Dovevo farcela anche senza il salvagente, anche se avevo imparato a nuotare da poco e la tempesta era sempre in agguato.
Ho capito che le mogli si perdono anche per il peso che accumulano con il tempo, perché non si accetta il cambiamento, neppure quello fisico della donna che va avanti con l’età.
Eravamo due disperati che si cercavano e si ritrovavano, due bambini che non volevano crescere.
GHEORGHE LILIANA
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