Spalancai gli occhi nel tentativo di vedere attraverso la penombra in cui era avvolta la stanza e rimasi un attimo immobile sulla porta ad ascoltare i rumori che circondavano la casa. Un tempo tutto sapeva di campi appena arati e concime. L’aria era satura delle voci dei contadini che lavoravano fin dalle prime ore del mattino e dei bambini che scorrazzavano da una parte all’altra, lasciando spesso qualche piccola traccia del loro passaggio, mentre gli anziani li rincorrevano con le loro grida. Erano realtà già evanescenti quando io ero piccola, realtà che vivevo soprattutto attraverso la mia immaginazione infantile, alimentata dalle storie di mia nonna, che si avvolgeva nel suo scialle di lana, si accomodava sulla sua sedia a dondolo, il cui legno produceva un rumore stridulo a ogni oscillazione, e raccontava della sua infanzia e del suo lavoro, di quando percorreva più di trenta chilometri avanti e indietro, dai campi al mercato dove vendeva le arance che trasportava nel cestino della sua bicicletta. Mentre lei parlava con la sua voce dolce e suadente, ancora fresca nonostante l’età, io stavo sdraiata davanti al fuoco su un tappeto dall’aspetto orientale che profumava di casa, con i gomiti a sostenermi e le mani a circondarmi il viso, e la ascoltavo completamente rapita. Per quanto il quartiere rimanesse una delle zone più antiche e tranquille della periferia, tutto ciò che per decenni l’aveva caratterizzato era da molto soltanto un ricordo lontano. A distanza di trent’anni dai racconti di mia nonna, ero testimone di quanto le cose fossero ulteriormente cambiate. Il rumore delle auto sovrastava ogni suono naturale e persino le persone non erano più le stesse. Potevo specchiarmi nel viso della gente, nei loro occhi spenti, nel loro sguardo triste.
Quando i ricordi mi diedero un attimo di tregua, entrai piano nella mia vecchia camera e aprii le imposte bianche e un po’ scrostate. Il gelido sole invernale mi colpí all'istante ferendomi gli occhi, ma non tirai le tende, né cercai di ritrarmi. Avevo bisogno anche di quel poco di luce che riusciva a imporsi sulle nuvole che lentamente ricoprivano il cielo, minacciando di liberarsi dal loro peso da un momento all’altro. Appoggiai le mani sul davanzale e inspirai profondamente l’aria che sapeva di pioggia e terra bagnata. Mi accorsi di quanto mi fosse mancata questa casa, le sensazioni che solo qui ero riuscita a provare e di cui avevo vissuto per quasi dieci anni mentre ero lontana, solo portandole nel cuore, senza mai sentirle con la stessa intensità, senza mai provarle con la stessa forza con cui si rifacevano strada dentro di me ora.
'Anna, hai bisogno di aiuto?'. Ero talmente persa in me stessa, che non avevo nemmeno sentito mia madre arrivare, nonostante il legno delle scale cigolasse a ogni piccolo passo. Ma lei era così, premurosa senza mai essere invadente. Una presenza silenziosa, quasi invisibile. Al punto che a volte avevo sperato che irrompesse con potenza e creasse rumore nella mia esistenza, avevo desiderato che si imponesse con prepotenza e mi strappasse da me stessa. Alla fine avevo imparato, invece, ad accettare che mia madre aveva un modo tutto suo per essere presente nella mia vita. Avevo imparato ad accontentarmi.
Guardando la valigia, feci cenno di no con la testa per rispondere alla sua domanda.
'Faccio da sola. Ho portato con me solo poche cose'.
'Hai intenzione di ripartire presto?'. Avevo colto una punta di delusione nella sua voce, ma non riuscii a dire nulla che potesse rassicurarla. La fissai negli occhi, pronunciando solo un timido 'non lo so'. La verità era che avevo deciso di portare con me solo lo stretto necessario perché, sebbene fossi certa che tornare a casa mi avrebbe fatto bene, non sapevo per quanto tempo sarei stata davvero meglio. Non sapevo ancora di cosa avessi realmente bisogno, se della vicinanza della mia vecchia vita o se della lontananza da tutto ciò che mi ero già lasciata alle spalle una volta.
Mia madre moriva dalla voglia di darsi da fare per me, di dimostrarmi che capiva, che mi era vicina. Ciò che avevo bramato tanto a lungo stava avvenendo proprio in quell’istante. Lei stava cercando di entrare a forza nella mia vita, stava sgomitando per farsi più vicina a me e al mio dolore. Poteva sembrare il momento più adatto, ma non lo era perché io ero incapace di condividere con lei ciò che provavo, perché quella era l’unica volta in cui sentivo di dovermi aggrappare solo a me stessa, perché il mio io era l’unica cosa che percepivo come reale e duratura. Le sue domande, i suoi tentativi di offrirmi aiuto mi apparivano come un inutile e ulteriore peso. Per questo la respingevo, delicatamente, ma con fermezza.
'Esco a fare delle commissioni. Credo sia inutile chiederti se vuoi venire con me, vero?', mi chiese. Le sorrisi con sincerità mentre mi avvicinavo alla mia valigia. Aveva capito che volevo restare da sola. Si girò verso la porta, ma prima di uscire dalla camera si fermò e girandosi leggermente mi
disse:'Sono contenta che tu sia tornata'.
Non attese una mia risposta. Uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, mentre io davo vita a un fugace 'anche io'. Questa volta udii bene i suoi passi sulle scale, sentii quando si fermò al quarto gradino e la immaginai voltarsi incerta verso la mia camera chiusa, nella speranza che avessi cambiato idea e deciso di accompagnarla nelle sue spese. Mi pareva di sentire il suo respiro, accelerato da un’illusione che non si sarebbe avverata. Rimase ferma per un tempo che parve eterno, poi riprese a scendere le scale e io rimasi ad ascoltare il rumore stridulo della serratura che veniva chiusa. Spiando dalla finestra la vidi prendere la bicicletta e mi augurai che il tempo reggesse fin quando non fosse rientrata a casa. Provai pena e dolore, una stretta al cuore per lei, ma non con la stessa intensità con cui provavo i medesimi sentimenti nei confronti di me stessa. Mi sentivo vuota. Vuota ed egoista.
Tornai alla mia valigia abbandonata sul letto per cancellare il senso di colpa. La aprii lentamente e cominciai a estrarre quei brandelli di una vita che non riconoscevo piú come mia. Sistemai ordinatamente i vestiti nell’armadio e mi guardai attorno per capire dove riporre i miei strumenti di lavoro. Solo in quel momento, osservando cio che mi circondava, divenni consapevole che nulla era cambiato nella mia stanza. Era tutto esattamente al suo posto. Tutto lindo e ordinato come l’avevo lasciato. Mi resi conto dell’odore robusto del legno che veniva dalle travi a vista e del profumo delicato del copriletto fresco di bucato. Da ragazzina amavo il bianco e il blu. Avevo costretto mio padre a dipingere le pareti della mia camera di un’accesa tonalità azzurra, mentre il soffitto con le sue enormi travi, i mobili, la porta e la finestra dovevano a tutti i costi essere candidi come la neve che ogni inverno vedevo posarsi silenziosamente sulle montagne da cui eravamo circondati. 'Così', dicevo a mio papà, 'potrò immaginare di essere una principessa che vive dove la punta innevata della montagna si mescola con il cielo e non esistono più direzioni diverse in cui guardare, la destra e la sinistra, l’alto e il basso, perché in ogni posto in cui si punti lo sguardo si possono vedere l’azzurro e il bianco, il bianco e l’azzurro'.
'Tu sei già una principessa, Anna, senza bisogno di immaginarlo', era la sua costante risposta, mentre sorrideva ascoltando le mie fantasie.Appoggiai sul mio vecchio scrittoio penne, matite e gli spartiti vuoti. Aprii il pianoforte e mi concessi qualche nota, solo per ricordare quanta felicità e quanto conforto la musica fosse stata in grado darmi in passato. Al conservatorio, poco dopo la morte di mio padre, la mia insegnante di pianoforte mi aveva aiutata a fare della musica la mia valvola di sfogo, mi aveva insegnato a gestire la mia vita esattamente come governavo i tasti dello strumento che suonavo, a prendere ció che mi accadeva nello stesso modo in cui catturavo le note su uno spartito. Un giorno mi aveva chiesto di fermarmi dopo l'orario delle lezioni. Quando l'avevo raggiunta in aula mi aveva fatto sedere al pianoforte, mi aveva posto davanti uno spartito e chiesto di suonarlo. Dallo strumento era scaturita una melodia che aveva qualcosa di famigliare, ma che al tempo stesso risultava essere distante, incolore, incompleta, stonata. Quando avevo terminato di suonare, mi ero voltata a guardarla; nei miei occhi un'espressione che voleva dire: 'allora, cosa vuole da me?'. Lei si era limitata a domandarmi se avessi riconosciuto la composizione. Al mio cenno di piena indifferenza, mi aveva proposto un altro spartito, invitandomi a suonare nuovamente. La "Sonata al Chiaro di Luna" di Beethoven si era diffusa nella stanza con la sua magia, la sua profonditá e pienezza. Finita la musica, mi ero sentita esausta, svuotata e al tempo stesso riempita di un nuovo vigore.
'Adesso l'hai riconosciuta?', mi aveva chiesto allora l'insegnante.
'Certo!', avevo risposto.
'Quella che ti ho fatto suonare prima era la stessa sonata, ma privata di tutti i diesis'.Non capivo dove volesse arrivare con questa prova, perciò avevo lasciato che continuasse a parlare lei. Si era seduta accanto a me e aveva cominciato ad accarezzare i tasti del pianoforte producendo una musica a me sconosciuta. Dapprima solo quelli bianchi, spiegandomi come il loro suono robusto, deciso e dolce al tempo stesso, rappresentasse le certezze sulle quali costruiamo la nostra vita, il solido terreno in cui decidiamo di affondare le nostre radici, la gioia, la felicità, i momenti di piacevolezza e serenità. Poi incluse nella musica i tasti neri, più rari, dal suono meno solido, ma ricco di sfumature, adatti a rappresentare gli eventi traumatici e tristi della nostra vita. Aveva continuato a suonare ancora per qualche minuto, poi aveva spezzato l’incantesimo e mi aveva invitato a guardare i tasti neri per ció che realmente erano: una sfumatura in piú che donava colore alla melodia. E poi mi aveva fatto quella domanda la cui risposta era giá dentro di me, dovevo solo cercarla: 'Anna, come potresti suonare un pianoforte i cui tasti neri siano separati dai bianchi invece di intersecarli?'Avevo riflettuto su quell'interrogativo per il resto della giornata prima di capire ció che aveva voluto dirmi. Mi ero avvinghiata alla soluzione di quel quesito in ogni momento difficile della mia vita, avevo imparato a far fronte ai problemi, a mantenere un punto di vista positivo semplicemente pensando che il nero é sempre seguito dal bianco, che un tasto nero sorge in mezzo a due tasti bianchi, ma non si impone, non li soffoca, non li sostituisce, nascono uno dall'altro, dipendono uno dall'altro. Nella difficoltá potevo, quindi, sempre trovare qualcosa per cui essere positiva.
Seduta al pianoforte, nella mia vecchia stanza, la certezza che gli eventi negativi costituissero un modo per imparare a cogliere diverse sfumature di uno stesso sentimento, cominció ad apparirmi come un semplice pagliativo, un modo per ingannare la propria mente e spingerla a continuare a lavorare anche quando avrebbe voluto fermarsi. La speranza, la positivitá mi sembravano assurditá senza alcuna ragione d'esistere. Cominciai a sentire il bisogno di parlare con qualcuno, qualcuno che non c'era piú giá da molto tempo. Mi sedetti allora sulla sua sedia a dondolo, immaginando di avere ancora mia nonna accanto a me, di potermi stringere ancora nel suo abbraccio, di accarezzare il suo scialle e circondare le mie dita di quelle frange di lana rosa che le ricadevano sulle braccia come piccole tende. Scoppiai a piangere, cullandomi dolcemente nelle mie incertezze e mi addormentai, pensando al modo migliore per lasciare che i pezzi della vita che avevo smarrito tornassero al loro posto.
Chiara Minutillo
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