STRALCIO.
L‟ultima volta che sono andata a un colloquio non trovavo il numero civico.
Stavo cercando il 12, ma non lo vedevo. Ed era meglio così, ma ancora non lo
sapevo. Mi proporranno una prova di due settimane, in nero, e io accetterò perché in
tre mesi che cerco lavoro è la prima volta che qualcuno mi offre una possibilità e non
un inutile: “La chiameremo”. Solo che poi non mi pagheranno e nemmeno mi
assumeranno.
Cerca cerca, non lo trovo. Allora entro nel primo negozio, senza badare a cosa sia.
Fuori c‟è il sole, ma dentro è buio e ci metto un attimo a inquadrare il locale.
È una macelleria. Una macelleria di lusso. Le pareti sono ricoperte da grandi
piastrelle di marmo bianco screziato di nero. So che esiste un tipo di marmo che si
chiama "nero assoluto", mi piacerebbe vederlo.
Le vetrine-frigo sembrano missili trasparenti o le capsule per l'ibernazione che si
vedono nei film di fantascienza e, a proposito, la cassa è una postazione singola come
il pulpito di comando di un'astronave. È inserita in un banco di legno massello,
intagliato a riquadri con figure di buoi e aratri e contadini col cappello.
Dietro i frigo-missili c'è una coppia di anziani. Lui e lei. Vestiti con camice bianco e
cappellino coordinato.
Per un attimo penso che siano morti, poi che siano due statue di cera, poi lui mi parla.
«Buongiorno signorina».
Noterò, col senno di poi, che non mi ha nemmeno chiesto se poteva servirmi, come se
già si aspettasse di non vendermi niente. L'istante dopo vedo la carne. Sono pochi pezzi, leggermente scuri, che spiccano
come naufraghi nel ribollire candido delle onde, in questo caso dei vassoi vuoti.
Osservo gli spiedini. Il colore acceso dei peperoni gialli e verdi li rende ancora più
tristi perché i pezzetti di pollo e la salsiccia hanno al contrario l'aria opaca e asciutta.
La vecchina tace. L'uomo segue il mio sguardo e quando rialzo gli occhi vedo
qualcosa che mi fa male. Pensavo di trovarci il tipico sguardo concupiscente del
venditore, invece è solo vergogna.
Un tempo questo posto pullulava di clienti, ci scommetto, c'è persino l'aggeggio
rosso per prendere il biglietto e, dietro i vecchi, in alto, c'è infatti il piccolo tabellone
elettronico, che adesso è spento e chissà se lo riaccenderanno mai.
Lei stava alla cassa. Sorrideva e conosceva tutti. Lui e i suoi figli, di fisso almeno
uno, stavano al banco: affettavano e tagliavano e tritavano, consigliando ricette e
tempi di cottura, spiegando che legare l'arrosto non è difficile, ma è meglio che glielo
faccio io, signora.
Lucidi e brillanti, i frigoriferi erano un tripudio di carni e affettati e formaggi. Le
alzate di vetro e i piatti di ceramica bianca. Le verdure freschissime per guarnire, con
le gocce d'acqua fredda che scintillavano nel riverbero del sole, come se persino lui
a quel tempo entrasse dalle vetrine più volentieri.
Torno al presente.
Adesso come faccio a chiedergli del civico 12 senza comprare niente? D'altronde
neanche a me escono dalle orecchie, non posso permettermi di sprecare soldi per
della carne meno che mediocre.
Una fetta di pancetta. Fatti dare una fetta spessa di pancetta per la carbonara, costa
poco. E gli chiedi del civico. Mi suggerisco.
Ma la vecchina mi precede: «Voleva un‟informazione, signora?»
Lei mi dà della "signora", lui invece aveva detto "signorina", secondo l‘abitudine del
commerciante galante che chiamerebbe "signorine" anche le vecchie carampane.
«Sì, sono entrata perché non trovo il civico 12, ho un colloquio» rispondo. «Però mi
è venuto in mente che stasera potrei fare la carbonara e allora volevo chiedere anche
una fetta di pancetta. Un po' spessa».
La donna annuisce e fa un cenno minuscolo al marito, che senza guardarla la vede e
si muove verso l‟affettatrice e io penso che non può essere la prima volta che la usano
oggi, perché sono le undici del mattino, ma lui toglie il telo pulito e svela l‟attrezzo
lindo e la lama sullo zero.
Giada Alessia Lugli
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